Then you catch him

Mary15389

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    CAPITOLO 31

    La notte era trascorsa in fretta, d’altronde erano tutti andati a dormire quando era già mattina. Ma il lavoro a Quantico li aspettava puntuali come tutti i giorni.
    Il primo ad arrivare in ufficio, come sempre, fu l’agente Hotchner. Varcò le soglie della BAU e notò che tutto era rimasto esattamente come la sera prima. Passò dalla sala conferenze, dove vi era un tremendo stato di confusione. Fogli a terra e una lavagna che segnava ancora tutto ciò che avevano in mano sul caso Harris. Si affacciò dalla porta e fece un cenno ad Anderson che era al telefono alla sua postazione. Il giovane ripose velocemente la cornetta e si affrettò verso il supervisore capo che gli venne incontro lungo il corridoio.
    “Anderson, ci serve qualcuno che ripulisca la sala conferenze.” Disse e l’uomo rispose con un cenno del capo. “Prima che arrivino gli altri.” Precisò. Non avrebbe mai voluto che Reid dovesse affrontare di nuovo tutto ciò.
    “Lo consideri già fatto.” Rispose l’agente semplice, avviandosi giù dai tre gradini e raggiungendo nuovamente il telefono alla sua postazione.
    Aaron si voltò verso il suo ufficio, entrandovi e richiudendo la porta alle sue spalle. Cominciò a raccogliere i fascicoli sparsi sul suo tavolo, poi si abbassò tirando fuori da sotto la scrivania una cassetta, all’interno della quale ripose con ordine le varie carpette. Cercò un pennarello, e dopo averlo trovato scrisse sul fianco dello scatolone ‘Nathan Harris’, voltandosi poi a cercare il coperchio. Fu distratto da un educato bussare alla sua porta. “Avanti.” Disse rimettendosi dritto e attendendo di scoprire chi si celava dall’altra parte.
    “Signore.” Salutò Penelope attendendo un cenno per entrare, lasciando la porta aperta alle sue spalle. Anche lei era arrivata presto in ufficio, come suo solito. “Penso che questo vada tra i reperti. Era rimasto nel mio ufficio.” Continuò la donna camminando a passo svelto verso di lui e allungando il volume che stringeva tra le sue mani. Era il romanzo scritto dal loro S.I.
    Hotch lo prese. “Grazie.” Le rispose ponendolo poi insieme alle altre prove e trovando finalmente il coperchio con cui richiudere il contenitore. La donna non si era ancora allontanata da lì e lo guardava tormentandosi le mani. “C’è dell’altro?” domandò allora l’agente.
    L’analista sollevò una mano a sistemarsi la montatura degli occhiali. “Volevo...volevo sapere se verranno tutti in ufficio...oggi.” balbettò, senza capire bene il senso di quella domanda.
    “Mancano i rapporti da aggiungere a questo materiale, quindi si. Solo Jennifer resterà a casa. Le ho dato un giorno libero, ho pensato che ne avesse bisogno.” Spiegò il capo, alzando poi gli occhi verso la porta al di là della quale vide comparire David.
    “Buongiorno.” Esclamò facendo qualche passo in avanti. “Sembra quasi che ieri non sia successo nulla.” Commentò vedendo i colleghi di buon ora in ufficio.
    “Torno ai miei computer.” Disse Penelope congedandosi gentilmente dai due uomini e richiudendosi la porta alle spalle.
    L’agente Rossi si avvicinò ancora di più alla scrivania dell’amico e collega che stava prendendo posto sulla sua comoda poltrona. “Notizie dall’ospedale?” chiese.
    Aaron si spostò in avanti, poggiandosi con le braccia al piano di lavoro. Scosse il capo, “Nessuna...”
    “Cosa pensi che succederà adesso?” Hotch capì che Dave con quella domanda non si stava riferendo al caso, agli sviluppi legali che sarebbero seguiti. Era un interessamento più personale, al quale rispose con un sospiro. Non sapeva cosa sarebbe successo nelle ore successive. O nei giorni che sarebbero arrivati.
    Si guardarono ancora negli occhi, completamente disarmati.

    Con il passare del tempo l’open space della BAU di Quantico si stava riempiendo sempre più. Anche Emily e Derek erano arrivati e si erano seduti alle loro postazioni, cercavano di svegliarsi per bene. Avevano pochissime ore di sonno sulle spalle e tanta stanchezza fisica e soprattutto psicologica.
    Speravano non ci fosse un nuovo caso da affrontare subito, ma che quella fosse solo una tranquilla e noiosa giornata da passare in un ufficio persi tra rapporti. Videro Dave uscire dall’ufficio di Hotch, sventolò una mano in loro direzione prima di scomparire oltre la porta della sua stanza.
    I due agenti tra una parola e l’altra scritta sul loro foglio alzavano lo sguardo verso la scrivania di Spencer. Ancora vuota.
    “L’abbiamo riaccompagnato a casa io e Penelope.” Disse Morgan spezzando il silenzio e indicando con la punta posteriore della penna verso la sedia che Prentiss stava osservando. “Stava bene. Cioè...non sembravano esserci problemi.” Si corresse perché bene non era l’aggettivo più appropriato per descrivere il ragazzino.
    “Mi chiedo cosa accadrà ora...” commentò ad alta voce la donna, rivolgendosi poi al rapporto davanti a lei. Nessuno avrebbe saputo rispondere a quella domanda.
    Entrambi si concentrarono di nuovo sul loro lavoro, in silenzio, fin quando sentirono qualcuno avvicinarsi a loro. Alzarono gli occhi per incontrare la magra figura di Reid. Reggeva un bicchiere di carta dello Starbucks e stava lanciando la sua tracolla sulla scrivania. “Buongiorno.” Li salutò sedendosi.
    Emily e Derek si scambiarono un’occhiata dubbiosa, non era come si aspettavano di trovarlo. Poi risposero al saluto.
    In effetti anche Spencer si sentiva strano quella mattina. Quando i colleghi l’avevano lasciato a casa, aveva varcato la soglia con una strana sensazione. Era nervoso e certo che non avrebbe chiuso occhio, invece dopo essersi rinfrescato si era gettato sul letto e il sonno l’aveva raggiunto subito, svuotando la sua mente e lasciandolo sereno per la prima volta dopo giorni. Aveva dormito profondamente, fin quando la sveglia gli aveva comunicato che era ora di andare in ufficio. Solo quando aveva raggiunto la solita stazione della metro, una morsa gli aveva stretto lo stomaco. Prima o poi avrebbe voluto affrontare Nathan in una situazione per quanto possibile tranquilla. Sperava di riuscirci in fretta.
    Aveva fatto solo una fermata allo Starbucks prima di salire in ufficio, dove ora guardava i colleghi che non smettevano di fissarlo. Si voltò dopo un po’ e poggiò il bicchiere sul tavolo, rovistando nella tracolla in cerca del suo badge e una volta trovatolo, se lo fissò al maglioncino che indossava. Prese le ultime cose che potevano servirgli, poi mise la tracolla sotto il tavolo, avvicinando la sedia al ripiano. “Quindi...” esordì interrompendosi per bere un altro sorso di caffè, “...ci tocca compilare i rapporti?” domandò cercando il foglio con il logo dell’FBI sul quale avrebbe dovuto inserire i dati.
    Emily guardò ancora una volta Derek, che decise di rispondere per primo. “Noi ci stiamo lavorando. Poi va tutto consegnato a Hotch, che li metterà con il resto dei reperti per consegnarli a Carlson.” Riassunse brevemente le istruzioni che avevano ricevuto loro.
    Proprio mentre Morgan finiva di parlare, Spencer trovò il fascicolo con l’appunto lasciato dal capo. “Tutto scritto qui, grazie.” Disse agitando la carpetta verso i colleghi, prima di poggiarla sul ripiano e aprirla.
    Come se avesse scoperchiato il vaso di pandora, i ricordi si abbatterono violenti su di lui, impazziti e aggressivi. Li ripose in un angolo, concentrandosi a fare il suo lavoro, doveva imparare a farlo. Doveva crescere ed essere pronto ad affrontare casi anche peggiori di quello riuscendo a non perdere la testa e dando il meglio di sé. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi scese sul viso fino a grattarsi il mento. Afferrò la penna con quella sua presa strana e cominciò a scrivere, spostando alla sua sinistra i documenti che avrebbe potuto consultare se necessario. Ma lui aveva la sua memoria eidetica che gli aveva permesso di memorizzarli al primo sguardo.
    Si era immerso nella scrittura, isolandosi da tutto ciò che lo circondava mentre mandava avanti il suo lavoro, quando con la coda dell’occhio scorse un movimento accanto a sé. Alzò di scatto gli occhi e incontrò la figura seria di Aaron Hotchner che lo guardava. Si sentì colpevole di qualcosa, leggendo quello sguardo negli occhi del suo capo. Deglutì profondamente, poi si concentrò su quello che stava per dirgli.
    “Hanno chiamato dall’ospedale.”
     
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    CAPITOLO 32

    Il mondo si fermò un istante, mentre Spencer elaborava a velocità quella frase nella sua mente. Hotch non gli diede tempo di replicare e continuò, “Nathan si è risvegliato dall’anestesia e sta bene. Ho pensato che volessi andare tu a interrogarlo e a...parlarci.”
    Reid fu preso alla sprovvista. Era quello che più desiderava, ma non si aspettava di ottenerlo così presto e in quel modo. Continuava a fissare il suo capo, senza riuscire a proferire parola. Tormentava la penna che teneva tra le mani.
    “Non sei obbligato..può andarci qualcun altro.” Lo tranquillizzò Aaron, continuando a fissarlo.
    Spencer si accorse che anche gli altri lo stavano fissando preoccupati, era arrivato nell’open space anche Rossi, quindi si decise a reagire. “Grazie Hotch, si. Vorrei parlargli. Prima però completo il rapporto, se non ti dispiace.” Quello era il primo passo da compiere. Non permettere che quel pensiero si mettesse al primo posto e distruggesse tutto il resto.
    L’agente Hotchner scosse il capo, rilassandosi per aver ottenuto una reazione composta da parte del collega. “Quando vuoi. Carlson sa che arriverà qualcuno dei nostri.” Lo rassicurò voltandosi per andar via.
    Il piccolo genio si voltò per tornare al suo lavoro, poi si ricordò di una presenza che non aveva ancora notato tra quelle scrivanie. Non aveva potuto darle il buongiorno come era sempre abituato, quindi alzò il capo oltre il divisorio delle scrivanie e chiese non rivolto in qualcuno in particolare, “Ma JJ?”
    Fu lo stesso Aaron a fermarsi sui suoi passi, voltandosi per rispondergli. “Le ho dato un giorno libero. Domani tornerà in servizio, salvo novità.”
    Il peso che si era creato addosso al giovane agente si diradò nel sentire che non vi erano stati ulteriori problemi di cui magari non era stato messo al corrente. Decise allora di concentrarsi sul suo lavoro. L’avrebbe portato a termine con attenzione e calma. Solo in seguito si sarebbe occupato di Nathan.

    Di giorno i corridoi dell’ospedale centrale di Washington erano popolati da gente in attesa delle loro visite, di poter incontrare parenti e amici. O nel peggiore dei casi di pazienti che dovevano essere curati.
    Il dottor Reid si districava tra queste persone, mentre l’agitazione amplificava i rumori intorno a lui, facendoli rimbombare all’interno della sua testa. L’area in cui era Nathan era stata circondata dalla polizia, che non permetteva l’accesso a nessuno, quindi continuò a camminare, fin quando i corridoi cominciarono a farsi più tranquilli. Scorse in lontananza due agenti di guardia ad una prima porta. Si avvicinò cercando di calmarsi e portò una mano alla tasca, dalla quale estrasse il distintivo, mostrandolo agli uomini, “FBI, Agente Speciale Spencer Reid. Il Detective Carlson sapeva che sarei venuto ad interrogare Nathan Harris.” Disse con qualche difficoltà.
    I due agenti lo lasciarono passare, così che ora si aggirava in corridoi deserti. Gli stessi che aveva visto la notte precedente. Raggiunse il luogo indicatogli dagli uomini in divisa e mostrò ancora una volta il distintivo. Gli furono aperte le porte, rivelandogli così una stanza tranquilla, con un solo letto al centro.
    Sospirò e varcò la soglia, che sentì richiudere alle sue spalle.
    Allo scatto della serratura, Nathan si voltò lentamente verso la porta, vedendo la magra figura dell’agente esitare qualche istante prima di avvicinarsi a lui. “Dottor Reid, cosa ci fa lei qui?” chiese seguendo tutto il suo percorso.
    Spencer cercò di concentrarsi, poi parlò, “Volevo...volevo parlarti.” Balbettò guardandosi intorno.
    Il ragazzo su quel letto fece un movimento per cui contrasse il volto per il dolore. “È un interrogatorio?” chiese poi con espressione disgustata.
    “Diciamo più un incontro informale. Hai parlato con tua madre?” domandò ricordandosi di aver portato la donna lì non appena saputo in quale ospedale si trovasse. “Era in pensiero per te.”
    Harris corrucciò le labbra, “Lei era pronta ad abbandonarmi di nuovo. Così è andata via prima di illudermi.”
    Lo stomaco di Spencer si contrasse in una morsa. Non avrebbe mai creduto possibile una cosa del genere, e invece era accaduta. “Mi dispiace.”
    “Non sarebbe mai cambiata, ormai l’ho capito.”
    Finalmente Reid identificò all’interno della camera una sedia e fissò i suoi occhi su quella. Nathan se ne accorse e lo invitò a prenderla e a sedersi se ne aveva voglia. Quel comportamento era troppo pacato, ma poi l’agente si ricordò dell’eventualità che gli stessero somministrando quei farmaci che lui aveva smesso di prendere abbandonata la clinica.
    Sembrava tornato il Nathan Harris che aveva conosciuto la prima volta. La permanenza in clinica e l’abbandono da parte della madre avevano risvegliato la sua parte più negativa, quella che dava ascolto agli istinti e impulsi psicotici, il suo lato sadico che l’aveva spinto ad essere aggressivo, a sfidarlo apertamente. Ora non vedeva più traccia di tutto ciò.
    “C’era qualcosa in particolare che voleva dirmi, dottor Reid?” il giovane spezzò il silenzio che si era creato.
    Spencer dopo essersi accomodato aveva cominciato a tormentarsi le mani, stringendole l’una dentro l’altra. “Volevo assicurarmi che tu stessi bene.”
    “Perché? Perché, dottor Reid, mi salva sempre la vita?” La domanda aveva colpito con violenza l’agente. Era quello il nodo di tutto, lo sapeva. “Se lei mi avesse lasciato morire la prima volta, non saremmo arrivati a questo punto.”
    Il piccolo genio abbassò il capo agitandolo lentamente da destra a sinistra. “Ho fatto quello che andava fatto.”
    “Ma perché?” insistette il giovane.
    “Quando ci siamo incontrati la prima volta io ho rivisto in te una parte di me. Anche io ho avuto paura di me, di ciò che vi era dentro la mia mente. Anche io ho cercato di conoscere i mostri che mi avrebbero potuto assalire, credendo che per questo potessi evitarlo.” Si limitò ad usare un tempo passato, omettendo il fatto che per lui quelle paure non avevano mai avuto una reale fine.
    Ancora una volta il silenzio riempì quella stanza. Nathan lo osservava, colpito da quelle parole. “Cosa ne sarà di me adesso, dottor Reid?”
    Rialzando il capo, il federale vide paura in quelle iridi blu, proprio come la prima volta che si erano incontrati. “Dovrai pagare per quello che hai fatto.” Scelse la via della cruda realtà. Non era mai stato bravo ad indorare la pillola.
    “Mi sta arrestando ufficialmente?” domandò il giovane stringendosi a quelle lenzuola che lo avvolgevano. Spencer non poté fare a meno di notare lo smarrimento in quegli occhi.
    Tutti i dubbi che avevano assillato il giovane si diradarono davanti a quella situazione. Aveva fatto la cosa giusta e avrebbe continuato a farla, se le circostanze l’avessero voluto. L’avrebbe salvato tutte le volte che sarebbe stato necessario, anche da se stesso.
    Continuò a guardare quel ragazzo, considerando quanto, in fondo, doveva anche a lui la sua maturazione. La sua vicenda l’aveva segnato e l’aveva fortificato, non ne aveva dubbi.
    E quelle parole di Jason Gideon risuonavano ancora una volta nelle sue orecchie. Cosa avrebbe fatto se quel ragazzo a cui pochi secondi prima aveva bloccato la fuoriuscita del sangue dalle vene avesse colpito ancora? Quante vite aveva messo in pericolo salvandolo? Era proprio vero, gli S.I. sceglievano il proprio destino da soli, non ne erano colpevoli loro agenti federali. Cosa avrebbe fatto se al suo ritorno avrebbe ucciso qualcuno, eventualità che aveva potuto provare essersi realmente verificata? Lui avrebbe fatto l’unica cosa che aveva il potere e il dovere di fare. Lui l’avrebbe arrestato.

    FINE

     
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