Quando

Rabb-it

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  1. rabb-it
     
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    Autore:Rabb-it
    Titolo:Quando
    Rating:?giallo?
    Categoria:Angst
    Avvertimenti:alcune descrizioni sono un po' forti, credo.
    Personaggi: il team.
    Spoilers:Alcuni riferimenti ad episodi della 5 serie
    Disclaimer:I personaggi non mi appartengono, Criminal Minds appartiene alla CBS. Questa storia non è a scopo di lucro.
    Note: Ho deciso alcuni mesi fa che dovevo far tribolare un poco alcuni soggetti... le mie prime lettrici!

    A voi. Ora condividerete un po' quello che ho appena accennato in alcuni post.
    E lo potrete commentare qui.


    Quando
    Prologo



    Il dolore era molto forte.
    Partiva dal piede destro, saliva lungo la gamba e dall’inguine si irradiava al resto del corpo.
    Voleva gridare, ma non gli usciva un suono.
    Era in un bagno di sudore e si dibatteva stretto da delle cinghie, queste ultime lo bloccavano ad una specie di lettiga.
    Ogni suo tentativo di liberarsi aumentava il dolore, ma non poteva fermarsi, doveva sbrigarsi prima che tornasse, tornava sempre.
    I ricordi dei suoi ultimi giorni erano confusi, stava lavorando, era stato impegnato come al solito.
    Poi a casa, ma non rammentava di esserci entrato, quindi lo avevano catturato prima che rientrasse.
    Poteva anche essere stata una persona sola, non ricordava di aver lottato, ma un ago, sì, ricordava un ago.
    Lo avevano anestetizzato con qualcosa, ma chi e perché?
    Ne rammentava la presenza durante la prigionia.
    Ad ogni risveglio lui tornava.
    Intorno a se solo l’oscurità. Poi quei passi. Lenti, misurati, non affannati di chi deve brigarsi, ma passi di chi ha tutto il tempo che gli serve per completare l’opera cominciata forse da ore, o da giorni.

    Eccoli di nuovo, stava tornando. Nemmeno questa volta era riuscito a liberasi.
    La porta sul fondo che si apre, lasciando entrare un piccolo spiraglio di luce, questo si allarga piano fino a diventare un cono che illumina per intero la stanza spoglia.
    Un piccolo stanzino senza finestre. Ecco spiegato il buio, ed eccolo che ritorna non appena la persona chiude la porta dietro di se.
    Per un secondo la sua ombra si era stagliata sul cono, una figura alta e longilinea.
    Si avvicina, non ne vede il volto.
    Non lo ha mai visto.
    Ne lo ha mai sentito, fino a quel momento.

    Poche parole, ma sufficienti a raggelargli il sangue nelle vene.
    “Vorrei tanto sentirti dire un’altra volta che non sono normale, sai? Dai fallo ancora, che aspetti!”
    Poi di nuovo il silenzio, la sola presenza, e un nuovo dolore prende il sopravvento, non è fisico questa volta.
    Una domanda aleggia muta negli occhi spalancati di Derek Morgan:
    Quando è successo? Quando abbiamo perduto Reid senza rendercene conto?


    Era al suo fianco, e gli stava facendo qualcosa, il dolore pulsante al piede aumentava con il passare dei minuti, gli sembrava bruciasse, ma non riusciva ad identificare con certezza cosa succedeva, doveva essere la droga che gli era stata somministrata.
    Abbastanza forte da intontirlo e vanificare i suoi tentativi di liberarsi, ma non tanto da non fargli sentire il dolore.
    “Cosa ti è successo Spencer? Questo non sei tu!”
    Per diversi minuti nessuna risposta, poi tre parole.
    “Ne sei sicuro?”
    E riecco il silenzio, carico di un orrore mai provato per Derek.
    Poteva anche accettare che un soggetto ignoto, un criminale a cui dava la caccia, prima o poi lo avesse alla sua mercé, era un eventualità che sapeva poteva verificarsi, ma dal suo amico no, non poteva aspettarselo nemmeno nel peggiore degli incubi.
    Eppure stava succedendo.
    Cercò di farlo parlare, ma non ottenne che mutismo.
    Mentre il dolore saliva di nuovo d’intensità, sentiva che stava per perdere conoscenza un’altra volta.
    Ci sarebbe stata una fine?
    Lo avrebbero trovato gli altri?
    Gli altri.
    Come potevano trovarlo? Di sicuro Reid partecipava alle sue ricerche, e di certo faceva in modo che non si avvicinassero a scoprirlo.
    Ma cosa è successo dal nostro ultimo caso?


    Un ricordo lo distolse per un secondo dal dolore, impedendogli di perdere di nuovo conoscenza.
    Erano in uno dei tanti uffici dove avevano studiato i profili, stavano indagando su un truffatore che dalle truffe era passato agli omicidi.
    Dovevano controllare dei file d’archivio, Reid pareva trovare la cosa divertente e non aveva saputo resistere dallo stuzzicare l’amico.
    “Non mi dire che la cosa ti piace?”
    “Adoro i documenti ben ordinati.”
    “Mai fare una cosa normale tu, vero?”

    Ma non può essere, non per una facezia simile!

    Non poteva credere che per quella sciocchezza Reid fosse uscito di senno in quel modo.
    Gliene ho dette anche di peggiori, si scherza. Non ci credo che è stato quello.
    E glielo disse.
    Lo sentì ridere.
    “Dillo ancora forza, io e le cose normali non siamo compatibili, su che le cose normali lo sai solo te come sono!”
    Poi una sferzata, con la forza di un maglio il dolore lo colpì un’altra volta, stavolta era all’inguine e si irradiava lungo l’addome.
    Perse i sensi, con nelle orecchie quella risata. E quella frase.

    E il dolore pareva andarsene insieme alla conoscenza, almeno quello meramente fisico.
    E la domanda di prima tornò, un attimo prima dell’oblio.

    Quando?




    Continua...

    Edited by rabb-it - 11/7/2010, 13:51
     
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  2. rabb-it
     
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    Primo capitolo



    Quando si svegliò nuovamente non era da solo.
    Ma erano certamente delle allucinazioni causate dalle droghe.
    Non poteva spiegarsi in altro modo la presenza di sua madre e delle sue due sorelle al suo fianco.
    “Resisti Derek, non arrenderti, devi lottare.”
    “Puoi farcela non ti lasceremo solo.”

    Ecco l’inconscio al lavoro. Mi manca solo che passi Penelope, la mia consolazione divina ed ho fatto l’ein plein.

    E l’inconscio doveva proprio lavorare di gran lena, visto che non aveva fatto in tempo a formulare il pensiero sull’informatica più simpatica di tutta Quantico, ed eccola.

    “Avanti Derek, un Dio greco scolpito nella cioccolata non può farsi battere in questo modo! Lotta!”

    “Penelope è Reid, avverti gli altri!”
    Sapeva di essere irrazionale a parlare ad un allucinazione, ma non aveva potuto trattenersi.

    Sto impazzendo.

    Ma si sentiva anche stranamente rasserenato da quelle presenze che si alternavano nel delirio.
    Come se potessero trasmettergli la loro energia solo nel ricordo.
    Riprovò a liberarsi, ma le cinghie parevano ancora più strette della volta precedente.
    E di nuovo il dolore.
    Pulsante, lancinante, feroce.
    E Reid, di nuovo presente.
    “Siamo ancora nella situazione di ieri.”

    “NON ASCOLTARLO!”
    Gridò Penelope.

    Una luce lo colpì dolorosamente, dovette chiudere gli occhi.
    Vedeva dei lampi, probabilmente continuava ad accendere e spegnere la torcia proprio di fronte a lui.
    Che cosa crede di fare?
    I lampi continuarono a lungo, e lui serrava sempre più forte gli occhi, mentre sentiva una lama penetrargli nelle carni, e tornava il dolore.
    Cosa mia sta facendo? Basta… basta!
    Poi di nuovo il buio, forse la pace.

    “Reagisci Derek!”

    No, quella non era la pace.
    Quella voce fredda, perentoria, secca.
    Quello era Hotch.
    Il suo capo.
    Il sergente di ferro come si era definito una volta.
    Quello che non aveva esitato a dirgli che non avrebbe fatto il suo nome per una promozione se non avesse imparato a fidarsi maggiormente dei suoi colleghi.
    Dio se lo aveva odiato.
    Quanta voglia di rispondergli male, ma aveva ingoiato il suo orgoglio quel giorno.
    Lo avrebbe tirato fuori più avanti, in quel momento decise di non reagire d’impulso e fece bene.
    Passata la prima furibonda irritazione si ritrovò ad analizzare le ragioni di Hotch, continuava a non condividerle, ma sapeva che c’era un fondamento di verità in quello che gli aveva detto.
    Anche se i modi lasciavano a desiderare.
    Ma quello era Hotch, prendere o lasciare.

    Che ci fai nel mio inconscio? Diamine, preferivo mia madre e le mie sorelle lo sai? Di gran lunga!

    Un riso nervoso gli salì in gola.
    Ed apostrofò a male parole l’allucinazione che aveva davanti a se.
    “Senti, per venire qui a darmi il tormento senza nemmeno renderti utile è meglio se sparisci. Almeno Penelope mi fa sorridere. Intima a Reid di stare zitto, o ci prova, ma te: reagisci!
    Ma va a fan brodo va… non lo vedi che sono legato? LE-GA-TO… chiaro il concetto? Sono in trappola!
    Fammi un favore: evapora agente speciale supervisore Hotchner!”

    E nel dirlo aveva serrato i pugni, e stretto la mascella.
    Mentre lo faceva sentì una fitta e perse di nuovo conoscenza.
    Ma ebbe la sensazione, un secondo prima di svenire, che le cinghie si fossero allentate.
    Se Reid non se ne fosse accorto forse la volta seguente sarebbe riuscito a liberarsi.
    La rabbia verso Hotch a qualcosa era servita.

    Forse.

    Continua...


    Non è uno spoiler

    SPOILER (click to view)
    Visto che il prologo era proprio breve, faccio come per l'altra fanfic e vi servo subito il primo capitolo.
    Che buona, vero? :rolleyes:


    Edited by rabb-it - 25/5/2010, 01:59
     
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  3. rabb-it
     
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    Secondo Capitolo



    Forse era successo qualcosa, mentre era privo di conoscenza.
    Quello era stato il pensiero di Derek quando aprendo gli occhi vide che era in un posto diverso, luminoso, caldo, accogliente.
    Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma dovevano averlo liberato, era la sola spiegazione logica.
    Non sentiva più le cinghie, era steso su un morbido letto.
    Il dolore alla testa lo obbligò a distogliere lo sguardo dalla luce che entrava dalla finestra alla sua destra, ma lo sforzo era superiore alle sue forze.
    Si limitò a chiudere gli occhi, per riaprirli appena sentì un singhiozzo.
    Sua madre era lì a fianco.

    Appena lo vide muoversi la donna premette il pulsante di chiamata che era poggiato sul cuscino.
    Piangeva, e gli carezzava il viso.
    “Derek, va tutto bene, stai calmo, è finita!”
    Cercò di risponderle, ma la voce non gli usciva.
    Voleva capire cosa fosse avvenuto, come avessero fatto a trovarlo.
    L’arrivo dell’infermiere e del dottore obbligò la donna ad allontanarsi dal capezzale del figlio.
    Il medico gli pose delle domande, non ne capiva il senso.
    Era agitato.
    Voleva alzarsi, voleva capire, troppe cose gli stavano affollando la mente, era confuso.
    Poi sbarrò gli occhi, fermo sulla porta vide Reid.
    Voleva gridare.
    “È stato lui!”

    Ma rimase una voce del suo pensiero.
    Il suo panico venne frainteso.
    “Signor Morgan si calmi, presto riuscirà di nuovo a parlare normalmente, ora ci permetta di visitarla”.
    La testa prese a pulsargli dolorosamente, Reid era calmo e tranquillo, Derek lo guardò fisso con astio.
    Vide un’espressione di stupore sul volto del suo aguzzino.
    Come se non si aspettasse quella sua reazione.
    Cosa credeva, mi fossi scordato quello che ha fatto?

    Reid si morse lievemente il labbro inferiore, nervoso ed impacciato.
    Si ricorda ed è furioso.
    Cosa mi aspettavo?Veramente credevo che avrebbe scordato ogni cosa?


    Continua...
     
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  4. rabb-it
     
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    SPOILER (click to view)
    Indecisa se postare o meno sono ricorsa al lancio della moneta, dopo aver domandato consiglio in quattro chiacchiere.
    Testa pubblicavo, croce no.
    Era uscita testa, quindi eccovi il capitolo.


    Terzo capitolo



    Cosa era successo?
    Era la domanda che assillava Derek, se avevano trovato dove Reid lo teneva nascosto dovevano anche aver scoperto cosa gli aveva fatto, era impossibile che lo lasciassero libero di circolare.
    A meno che non sia riuscito a farmi trovare senza far sapere che era grazie a lui che sto in queste condizioni, ma pensa veramente di cavarsela?
    Da quando si era ripreso dalla sedazione , era stata fatta per calmarlo la sera prima, non aveva aperto gli occhi temeva che lo sedassero nuovamente, però il dolore era atroce.
    Diverse volte era stato tentato di gridare, ma doveva aspettare.
    Attendeva che a trovarlo passassero Hotch o Garcia a cui fare domande.
    Loro avrebbero impedito al medico di sedarlo.
    Appena avesse sentito le loro voci, e non quelle di sua madre e delle sue due sorelle, allora avrebbe aperto gli occhi.
    Le sentiva parlare e la loro vicinanza era rasserenante, sapeva che non poteva accadergli niente di male.
    “Ha dormito?”
    “Tutta la notte, lo hanno sedato dopo che al risveglio era troppo agitato, dicono che sia normale con quello che ha passato, più tardi dovrebbe essere più calmo, poi con quelle bruciature la sedazione era il minimo.”
    “Ti hanno spiegato cosa è successo?”
    “No, so che erano in servizio, mi ha telefonato il suo capo e sono corsa in ospedale, Scusate se non vi ho avvisate subito, ma sono andata nel pallone quando ho sentito che era ferito gravemente.”
    “Mamma non ti preoccupare, ci ha chiamato JJ quando ha capito che eri venuta da sola, l’importante è che lui stia bene, il resto non ha alcuna importanza.”
    Lottava Derek, contro la voglia di dire loro che erano state la sua ancora di salvezza, che senza di loro non avrebbe resistito, temeva che come prima non gli uscissero le parole, che lo addormentassero di nuovo, non poteva permetterlo.
    Poi quelle voci.

    “Posso entrare?”
    “Vieni, vieni dentro, credo che si stia per svegliare, il dottore ha detto che l’effetto sarebbe durato circa dodici ore e ne sono passate quasi tredici, penso proprio che a breve riaprirà gli occhi.”
    “Che splendido suono quella parola, riaprirà gli occhi, voglio esserci, e dirgliene quattro per lo spavento che ci ha fatto prendere.”
    “Concordo, sentirà le sue.”
    “Le nostre vuoi dire.”
    Gli scappò da ridere, aprì gli occhi e si trovo davanti Penelope, Rossi e JJ, dietro di loro in silenzio e serio come al solito Hotch, ma gli vide un accenno di sorriso quando i loro sguardi si incrociarono.
    E gli sentì dire una sola parola: “Bentornato.”

    Reid non c’era.
    Lo sfiorò l’idea che fosse in carcere, ma poi gli venne in mente che lui non aveva ancora detto cosa aveva fatto, che fosse scappato?
    Sillabò a fatica il nome dell’ex-amico: “R-e-i-d?”

    Fu Penelope a rispondergli.
    “Non è qui.
    Ci ha detto cosa è successo, ora stai tranquillo.”

    Derek sbarrò gli occhi per lo stupore.
    Poi tentò ancora di parlare.
    “T-u-tt-o?
    “Sì ci ha raccontato ogni cosa, e capisco la tua rabbia ieri, ma adesso non pensarci, devi rimetterti e non serve che ti angusti, è stato un incidente.”
    Alla parola incidente Derek si infuriò.
    Ma le parole gli si accavallarono di nuovo nella mente, l’ansia stava riprendendo il sopravvento un’altra volta.
    Incidente col cavolo!
    “Calmati Derek, non risolvi niente agitandoti, a quello che è capitato penseremo poi, d’accordo?”

    Era stato Rossi a parlare, notando l’agitazione crescente del collega.
    Poi anche sua madre.
    “Derek, se rimani calmo ti riprenderai prima, ascoltaci.”

    Il tono supplichevole della madre ebbe effetto.
    Qualsiasi cosa abbia detto Reid io ora non posso spiegarmi, devo calmarmi, devo.
    E con la calma arrivò anche il raziocinio.
    Indicò il gesto di scrivere, e gli vennero passate carta e penna.
    Iniziò a scrivere, ma si rese conto che la sua mano non eseguiva quanto il suo cervello le ordinava, vedeva davanti a se degli scarabocchi scomposti.
    Penelope gli tolse i fogli dalle mani, quando vide che stava diventando frenetico nel cercare di scrivere.
    “Derek è una cosa passeggera, già non avevi una gran grafia prima, il coma ha lasciato il segno, abbi pazienza, vedrai che andrà meglio. Ti prego, guardami, andrà meglio.”
    “C-o-…”
    Non riuscì a terminare la parola.
    “Sì Derek, sei rimasto in coma qualche giorno, ci hai fatto temere il peggio. Mi hai fatto invecchiare di dieci anni, minimo.”
    L’ultima parola la donna l’aveva detta sorridendo all’indirizzo dell’amico, era in ansia all’idea che i danni cerebrali fossero peggio di quanto pronosticato dal medico, data la scarsa profondità del coma, non voleva che anche lui indugiasse sui suoi stessi pensieri.
    “Ora devi riposare, domani andrà meglio!”

    “Q-u-a-n-d-o?”

    “Quando? Quando è successo? Pochi giorni fa, non temere non hai perso il superbowl!”
    Fu la battuta di Rossi per stemperare l’atmosfera.
    Non avrebbe voluto, non capiva ancora se aveva solo sognato quello che gli aveva fatto Reid o se era riuscito a farlo passare per un incidente, ma l’umorismo del collega ebbe la meglio e gli rispose con un sorriso tirato, o almeno lui credeva di avergli fatto un sorriso, gli era venuta una smorfia sgemba.
    Come non aveva il controllo delle mani, aveva anche dei problemi ai muscoli facciali, ma il medico aveva detto che erano cose di lieve entità recuperabili con alcune sedute fisioterapiche, se l’umore reggeva.
    Però non ne era consapevole e gli amici risposero al sorriso come se egli avesse fatto uno dei suoi soliti sorrisi, senza fargli capire quanto fossero sconvolti.

    Continua...

    Edited by rabb-it - 29/5/2010, 15:38
     
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  5. rabb-it
     
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    SPOILER (click to view)
    Due in un giorno? Eh... mi porto avanti per quando vi farò aspettare... che settimana prossima lavoro quindi... non sarò molto presente. Così non mi odierete troppo per l'attesa, forse!


    Quarto capitolo



    Sconvolti.
    Non c’era un altro termine per definire come si sentiva la squadra dopo gli ultimi avvenimenti.
    L’idea che Reid avesse mentito e che ci fosse dell’altro dietro a quanto era capitato a Derek li lasciò senza parole.
    Si era capito dalla reazione scomposta di Derek che non era stato un semplice incidente, ma cosa mai poteva essere capitato?
    Nessuno di loro era stato presente ai fatti, cosa poteva aver fatto infuriare così tanto Derek, e quando sarebbe stato in grado di spiegare loro l’accaduto?
    Ognuno di loro stava vagliando delle ipotesi, ma erano meramente campate in aria senza sapere la versione di Derek.
    Reid aveva detto quel mattino che non li avrebbe accompagnati all’ospedale, ritenendo che Derek fosse ancora furioso con lui per l’accaduto, e li invitò a non difenderlo dall’ira dell’amico – lasciate che si sfoghi – aveva detto.
    Entrarono negli uffici di Quantico, aspettandosi di trovarlo dietro alla sua scrivania nell’open space, ma non c’era.
    Non c’era nemmeno la sua fedele tracolla marrone.
    Non c’era niente di suo nell’open space.
    Il suo spazio alla scrivania era svuotato, ripulito.

    Hotchner lo chiamò immediatamente al cellulare per delle spiegazioni, ma ricevette l’atono messaggio di cellulare spento o non raggiungibile.
    Ordinò, anzi, intimò a Penelope di scovarlo.
    “Qualsiasi cosa sia successa va chiarita, non può comportarsi in questo modo!”

    Penelope si infilò rapidamente nel suo ufficio pieno di schermi e di tastiere ed iniziò la ricerca del genietto di Quantico.
    Non è assolutamente da Reid un comportamento del genere, cosa gli sta succedendo? Derek è il suo migliore amico!

    Rossi osservò la donna al lavoro per qualche istante, ricordava bene cosa le aveva detto una volta, aveva appena rintracciato un sospetto, e collegato i complici solo grazie alle sue ricerche e gli era uscito spontaneo un “Spero di non dovermi mai nascondere da te!”
    Ecco Reid si è ficcato in un bel guaio se non ha pensato alle conseguenze del suo gesto.
    Andarsene senza spiegazioni.
    Giovane, sarà meglio che tu abbia una buona spiegazione, l’umore del supervisore è… da graticola!

    JJ andò nel suo ufficio, rimase qualche istante assorta davanti alla fotografia del figlioletto, proprio la sera prima poco prima di andarsene a casa Reid, anzi Spence, si era fermato un po’ a parlare, rimirando proprio quella fotografia.
    Il ricordo si fece strada prepotente.
    Spencer teneva un gomito posato sulla scrivania e con una mano si tormentava i capelli, con la mano libera girellava la fotografia di Henry sovrappensiero.
    “Stanco? Dai Derek si è ripreso, vedrai andrà tutto bene.”
    “Non lo so, sai era uno sguardo pieno di odio quello che mi ha lanciato, ricorda bene cosa ho fatto, è solo colpa mia se è in quel letto.”
    “Vedrai che domani sarà più calmo, oggi si era appena svegliato, dagli tempo.”
    “Meglio che andiate solo voi domani, così non si agiterà inutilmente vedendomi.”
    “Spence…”
    “Dammi retta, andrò a trovarlo quando starà meglio, e potrà farmela pagare.”
    “Non fare così, non lo hai fatto apposta, gli incidenti succedono.”
    “Non lo so, forse volevo davvero fargli male!”
    “Spencer Reid, non dirlo nemmeno per scherzo.”
    “Sai…”
    “Cosa?”
    “Niente, vai a casa da Henry, da un abbraccio al mio figlioccio da parte mia.”
    “Potresti anche venirlo a trovare, stasera mi sa che non è il caso che resti da solo, sei troppo giù.”
    “No, sto bene, davvero, ora mi passa. Devo solo riposare un po’. A domani.”

    E invece era sparito.
    A che domani ti stavi riferendo, Spence?

    Emily si mise seduta alla sua scrivania, osservava quello spazio vuoto con mille domande che le ronzavano nella testa.
    Erano andati da soli a controllare la casa del sospettato.
    Avevano comunicato la loro posizione.
    Poi i contatti persi fino alla chiamata di Reid dall’ospedale.
    Angosciato, continuava a ripetere che era solo colpa sua.
    Ma colpa sua di cosa, gli incidenti accadono… o non era stato un incidente.
    Perché ora è sparito, sembra una fuga, cosa è successo in quella casa?
    Reid dove sei?

    Nessuna risposta dal cursore che continuava a lampeggiare sullo schermo del suo pc.

    Un cursore simile lo stava osservando Hotchner, era arrivato in fondo alla mail che Reid gli aveva inviato prima di sparire.
    Non credeva ai suoi occhi.
    Non poteva aver scritto Reid quelle righe.
    Non il Reid che conosceva da oltre sei anni, da quando facevano squadra con Gideon.
    Ricordava bene il ragazzino, anche se aveva già 24 anni era difficile non prenderlo per tale, che si domandava un po’ seccato perché Gideon lo chiamava sempre dottor Reid quando lo presentava e non agente, e lui che gli aveva spiegato che voleva che la gente lo prendesse sul serio e non per un ragazzino imberbe.
    Non poteva essere stato lui a scrivere quelle frasi, alcune totalmente prive di senso.
    O forse il senso lo avevano, mancava giusto la versione di Derek e il puzzle sarebbe stato completo.

    La sola idea di dove portava quel puzzle sembrava una pazzia.

    Continua...
     
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  6. rabb-it
     
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    Quinto capitolo



    Pazzia… era quindi arrivata?
    Il tanto temuto spauracchio della genetica, quella malattia materna da cui sperava di scampare, al diavolo il calcolo statistico.
    Non aveva altra spiegazione per quello che era successo.
    Aveva ferito un amico.
    Doveva venire a patti con quello che aveva fatto, ma come poteva farcela quando lui per primo non se ne capacitava.
    Quando quella mattina aveva visto Hotch e Rossi li aveva spediti da Derek, gli altri non erano nemmeno saliti in ufficio, e mentre loro erano fuori aveva scritto quelle febbrili veloci righe ad Hotchner.
    Non sapeva nemmeno se andavano bene come dimissioni, non era stato molto professionale, aveva scritto quello che sentiva esplodergli dentro, il senso di colpa lo stava distruggendo.
    E c’era solo un posto dove poteva andare.
    Un rifugio per un po’, solo un poco, sapeva bene che lo avrebbero trovato in fretta, ma aveva una mattinata di vantaggio, qualche ora di pace.
    Ma era pace quella?
    Non ci sta peggior giudice della nostra coscienza era stato scritto, mai cosa fu più vera, non c’erano posti dove nascondersi da se stessi.
    E lui lo sapeva meglio di molti altri.
    La sera prima tornato in ufficio, dopo quell’occhiata raggelante da parte di Derek, avrebbe voluto confidarsi con JJ, lei avrebbe capito.
    Quasi sicuramente.
    O almeno lo avrebbe rassicurato, già… per quello aveva taciuto.
    Non voleva sentirsi dire che non era colpa sua, che era stato un momento di follia, che potevano aiutarlo.
    No, non poteva confidarsi con JJ, ne con gli altri.
    Aveva faticato persino a mettere giù l’accaduto davanti al monitor, senza nessuno che gli badava, non avrebbe mai potuto affrontarli a viso.
    Cosa avrebbe fatto quando lo avrebbero costretto a farlo non lo sapeva, non ancora.
    Voleva solo ritardare il momento, posticipare l’inevitabile confronto.
    Non riusciva a pensare lucidamente, l’unico sprazzo di lucidità in quelle ore era consistito nello spegnere il cellulare, ben sapendo che trovandolo acceso Garcia lo avrebbe rintracciato appena glielo avessero chiesto, e pagare il biglietto in contanti, per non lasciare tracce con la carta di credito.
    L’unica traccia che poteva aver lasciato era il prelievo fatto poche ore prima, ma l’aveva fatto vicino agli uffici, ed ora ne era ben lontano.
    Appoggiò la testa indietro, facendo un profondo respiro.
    In quel momento uno scoppio ed uno scossone, il pullman su cui era seduto si inclinò pericolosamente di lato, avevano forato ed erano finiti nel fossato al lato della strada e le zolle erbose stavano andando troppo velocemente nella direzione del suo finestrino.
    O perlomeno quella era la sua percezione, anche se sapeva bene che stava avvenendo l’opposto, era il finestrino che stava per schiantarsi sul terreno.

    Finirà dunque tutto così?
    In un incidente su un pullman diretto a Las Vegas?


    Continua...
     
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  7. rabb-it
     
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    Sesto capitolo


    Las Vegas.
    Gli era venuto in mente di colpo, Reid non poteva che andare da sua madre, a cercare quel conforto di cui aveva bisogno in quel momento.
    Solo lei poteva aiutarlo a rimettere ordine nella babele di pensieri che si accavallavano nella mente del giovane.
    Dopo che era stata accusata di complicità nell’occultamento di un omicidio su cui avevano indagato tempo prima, era stata ricoverata nella casa di cura dove era ospite da anni, incarcerarla era fuori questione, lei non aveva fatto niente di male, testimone incolpevole della vendetta di un padre, e madre angosciata che potesse accadere la stessa cosa al figlio.
    Il crollo sarebbe arrivato negli anni, privando di fatto Reid dell’infanzia, anche grazie alla collaborazione o per meglio dire all’assenza del padre, che abbandonò moglie e figlio per non saper reggere al segreto che custodiva con la moglie.
    Ed il piccolo Spencer pagò il prezzo della debolezza del padre, se il detto le colpe dei padri ricadono sui figli ha un senso, nella famiglia Reid era questo.
    Non dovevano cercarlo, sapevano già dove si era diretto, lo disse al resto della squadra, Penelope disse che il suo nome non appariva in nessun volo diretto là.
    Stava proprio scappando da loro, non aveva preso l’aereo per lasciare meno tracce possibile, ma come poteva pensare che non avrebbero capito.
    Dette voce al suo pensiero.
    Ed ebbe la risposta che sperava di non sentire.
    “Vuole che lo troviamo, non sta scappando da noi, ma da se stesso.”
    “Lo so, è questo che mi spaventa, più di quello che forse è successo a Derek.”
    “Ma cosa è successo? Alla fine sappiamo solo che hanno catturato il soggetto ignoto, ormai ben poco ignoto. Che Derek è rimasto ferito, cosa sconvolge tanto Reid?”
    Hotch prese un foglio e lo passò a chi stava alla sua destra, che terminato di leggere lo dava al collega a fianco.
    Era lo stampato della mail di Reid.
    Vide lo stupore sui volti dei colleghi, si domandò se anche lui alla prima lettura non avesse trattenuto lo sconcerto per quelle righe.
    No, non lo aveva fatto, ma non c’erano stati testimoni.

    La prima a riprendersi fu JJ.
    “Ma siamo sicuri che lo ha scritto Reid, voglio dire…”
    “Non sembra proprio farina del suo sacco, è un delirio!”
    “Non ci credo, non può averlo fatto.”
    “Io invece temo di sì. Ha semplicemente avuto un crollo nervoso, sappiamo quante poche ore di sonno aveva accumulato in questi mesi, sappiamo quanto è stato sotto pressione, solo non vi abbiamo dato peso, perché lui è Reid.”
    “Semplicemente? Ti sembra una cosa semplice questa…è una follia.”
    “La follia lo spaventava a morte, per via della madre…”


    L’ultima frase era stata di Garcia, che ancora ricordava come una volta il genietto di Quantico, come lei lo chiamava, le avesse confidato che c’era una componente genetica nella schizofrenia. Vi aveva letto tutta l’angoscia di un figlio che spera che le statistiche negative non lo riguardassero.
    Quelle righe scomposte mettevano veramente paura.
    Ma continuava a ripetersi che non dormiva che poche ore da almeno una settimana, da quando Derek era stato ricoverato, e forse aveva solo bisogno di riposare per trovare lucidità.
    Non poteva e non voleva credere che fosse impazzito.
    Nessuno di loro era disposto ad arrendersi, non volevano perderlo.

    Il foglio stava al centro del tavolo, a debita distanza da ognuno di loro, come se cercassero di non vederlo, ma le parole scritte la sopra martellavano nella loro mente una dopo l’altra.

    Colpa era la più ricorrente.

    “Cosa farai?”
    Era stato Rossi a parlare, dopo alcuni minuti di totoale silenzio, rivolto ad Hotchner.
    “Per prima cosa voglio vederci chiaro, questa è una cosa che resta all’interno della squadra fino a che non sapremo i dettagli, da entrambi, di cosa è accaduto.
    Dobbiamo andare da Reid, prima che si cacci in guai peggiori nelle condizioni di stress in cui evidentemente si trova.”
    “Meglio levarla di torno allora.”
    Disse l’agente anziano ficcando quel foglio malefico nel tritadocumenti, tra gli sguardi di approvazione di tutti i presenti.
    “Sì, per ora è meglio così. Andiamo a Las Vegas, purtroppo dovremmo usare i mezzi tradizionali, non credo di poter spiegare l’utilizzo del jet senza un caso in corso in quella zona.”
    “E il fiato della Strauss sul collo è l’ultima cosa che ci serve.”
    “A lei penso io.”
    Disse JJ battagliera.
    Hotch abbozzò un sorriso stanco e tirato.
    “Il problema verrà dopo, quello che scopriremo potrebbe non piacerci, dobbiamo esserne preparati.”
    “Mi rifiuto di crederci fino a che non saranno tutti e due davanti a me a dirmi cosa è capitato!”
    Replicò l’altrettanto combattiva Penelope.
    “Concordo, mi rifiuto di pensare il peggio di Reid, nonostante quello che ha scritto lui stesso, evidentemente non era in se quando ha scritto quella mail.”
    Emily non era stata da meno.

    Rossi si volse verso Hotch e con un occhiata gli fece intendere che davanti a tre donne così decise non aveva nessuna intenzione di continuare ad insistere sul fatto che Reid poteva aver sbroccato, ci teneva alla pelle lui.
    “Probabilmente hanno ragione.”
    Hotch ricambiò lo sguardo.
    “Me lo auguro.”




    Dai rottami dell’autobus chi non era ferito avevano aiutato gli altri ad uscire dalle lamiere.
    Per fortuna non si era incendiato, e non c’erano state vittime, solo feriti lievi.
    Uno dei contusi era Reid.
    Era seduto insieme agli altri a bordo della strada quando un paramedico lo fece accomodare su di una barella e poi su un ambulanza.
    In stato confusionale non si accorse nemmeno che la sua tracolla era rimasta sul pullman, con i documenti, la pistola l’aveva lasciata a Quantico.
    Perse conoscenza mentre lo portavano all’ospedale, e per la prima volta da quasi una settimana il suo cervello conobbe un po’ d riposo, forzato.

    Continua...
     
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    Settimo capitolo



    Forzato, si sentiva come un condannato ai lavoro forzati.
    Quella era la sensazione mentre faceva fisioterapia.
    Era passato il logopedista per aiutarlo a capire come mai non riusciva a parlare, gli aveva detto che con degli esercizi avrebbe ripreso normalmente a dialogare con il prossimo, ma non doveva avere fretta, come per le mani, il loro controllo pareva ancora sfuggirgli.
    D’accordo era passato un solo giorno da quando aveva iniziato gli esercizi, ma lui con la pazienza e la calma aveva un contenzioso aperto e poi non se la poteva prendere calma.
    Non capiva quello che stava succedendo.
    Ora forse un minimo di libertà da quella prigione in cui il suo cervello lo aveva rinchiuso.
    Garcia gli aveva portato il portatile, se fosse riuscito a farsi obbedire almeno un minimo dalle dita, avrebbe digitato quello che sentiva l’impellenza di chiedere e dire.
    Ma le dita collaboravano a fatica, e persino le lettere sulla tastiera parevano sgorbi sconosciuti delle volte.
    Tutto ciò era snervante.
    La sua mente recepiva tutto, analizzava le stranezze che vedeva, i sorrisi tirati di Penelope e l’assenza degli altri, la sua voce che si abbassava al telefono, allontanandosi per non farlo sentire.
    Era tentato di scagliare a terra il portatile, per avere la sua attenzione, ma il cervello gli funzionava ancora abbastanza per fargli intendere che se le disintegrava il portatile la prossima cosa ad essere polverizzata sarebbe stato lui.
    Meglio trattenersi.
    E digitare faticosamente una dopo l’altra le lettere.

    xcosa sai, io mon do più cosa ticotdo e cosaa ho innaginato menyre ero in xoma, eid perché se ne è andato con aria colpevole, cosa è succesfdo?

    Due sole righe e stava sudando.
    Le mani gli tremavano per lo sforzo.
    Era terrorizzato all’idea che quello fosse il suo futuro, dicevano di no, che era un blocco temporaneo, ma non sapeva se poteva crederci o se volevano solo che si aggrappasse alla speranza di non essere rimasto invalido permanentemente.
    Spinse via il carrellino dove era posato il portatile, stando però attento a non esagerare.
    Si afferrò le mani stringendo forte le dita incrociandole.
    Ecco quello riusciva a farlo.
    Per il resto si sentiva totalmente impotente.

    Penelope, era uscita un secondo per non stargli addosso immaginando che lo snervasse sentirsi osservato, entrò nella stanza mentre stava strizzandosi le dita con rabbia,
    “Derek, no! Ti prego, ti farai male.”
    Corse a separare quel groviglio di dita, lo vide piangere ed ingoio le sue di lacrime, non se le poteva permettere, doveva essere forte per il suo amico, aveva bisogno di lei.
    Gli terse la fronte dal sudore e passo anche ad asciugargli il resto del volto, senza aggiungere una parola, buttò uno sguardo al video e tradotta la richiesta tra gli errori di digitazione, prese a raccontargli cosa sapeva.

    “L’ultimo caso che ricordi con precisione?”
    Fece l’elenco dei loro ultimi casi i dettagli salienti, quando ricordava ancora bene faceva un segno affermativo, ma l’ultimo era nebbia totale.
    Prese a spiegargli.

    Avevano dovuto dividere la squadra, c’erano due piste probabili, e forse anche un complice.
    Lei coadiuvava la squadra da Quantico, Hotchner era con Prentiss a verificare la prima pista, JJ era con Rossi a controllare quella che dava più noia dal punto di vista dei media, che ignoravano del complice, quello di cui si stavano occupando lui e Reid.
    Ad un certo punto avevano perso i collegamenti, c’era stato un black out dei ripetitori a Washington, e lei aveva dovuto aspettare che trovassero modo di mettersi in contatto per vie tradizionali, i cari vecchi telefoni a filo.
    Poche ore, ma per molti fu il caos, per fortuna anche per il soggetto ignoto e il suo complice, che finirono nella rete , catturati proprio da Derek e Reid, ma quando fu tutto finito e tornarono i contatti loro due erano introvabili, almeno per mezza giornata, poi rintracciarono Reid, era in ospedale ci aveva portato Derek.
    Non sapevano cosa fosse accaduto, ma lui era gravemente ferito alla testa, aveva un piede rotto e svariate ustioni di media entità alle gambe.
    Reid continuava a ripetere che era stata tutta colpa sua.
    E non avrebbe mai mollato il suo capezzale, continuando a supplicarlo di mettersi a prenderlo in giro.

    “Fine del riassunto, ti ricorda qualcosa?”

    Un cenno di diniego fu la sola risposta.
    Lui ricordava giorni e giorni di torture, ma se era rimasto in coma una settimana forse la cosa si spiegava.
    Specialmente se Reid gli dava il tormento per farlo svegliare.
    Era stato un sogno, era successo un incidente, di cui Reid si addossava la colpa, Dio sapeva perché.
    Era stato un incidente, tutto si spiegava.
    Reid non lo aveva torturato.

    Il sollievo era tale che non si domandò la ragione di quell’esagerato senso di colpa, non gli interessava, era troppo contento che i suoi ricordi fossero solo incubi.
    Penelope notò il cambiamento nell’espressione di Derek, forse non ricordava, ma di certo non era più furibondo con Reid, qualsiasi cosa avesse fatto non doveva essere grave.

    Le cose si sarebbero aggiustate.

    Continua...
     
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    Ottavo capitolo



    “Aggiustate, può stare tranquillo sono tutte integre le sue ossa.”
    Con quella frase un medico del pronto soccorso dei sobborghi di LasVegas lo aveva dimesso.
    Sperava che la sua conoscenza medica fosse migliore di quella della lingua, ma si sentiva quasi bene, quindi era ottimista sulla diagnosi, sperando gli avessero fatto delle lastre mentre dormiva e non si fossero affidati alla mera osservazione.
    Aveva dormito come un sasso tutta la notte, e nessuno lo aveva disturbato.
    Una volta sveglio l’amara sorpresa, niente documenti, niente soldi, niente cellulare.
    Poco male, si disse che avrebbe solo dovuto trovare un telefono e chiamare…
    …i fatti degli ultimi due giorni gli piombarono addosso mentre accendeva il cervello, al secondo caffè offerto da una delle infermiere presenti in pronto soccorso, aveva staccato dal turno e si era intenerita a vedere quel giovane un po’ trasandato con l’aria di non sapere dove stava e come ci era finito.
    Chi posso chiamare? Ho rotto i ponti con tutti.
    Sono solo.

    Per la prima volta da una settimana vedeva con nitidezza cosa aveva combinato la settimana precedente.
    Come se stesse osservando tutto dall’alto, uno dopo l’altro gli avvenimenti che lo avevano portato a quel punto si dipanarono davanti a lui.
    Mentre in tutta la settimana, con la preoccupazione per la vita di Derek aveva guardato solo il presente, atterrito dal futuro, ora dava uno sguardo al passato.
    Era ad un passo dalla dissociazione, ma stavolta a differenza del giorno prima non ne era spaventato, aveva capito che si era fatto travolgere e non aveva ragionato lucidamente, non stava impazzendo era solo troppo stanco.
    Troppo concentrato sul qui ed ora per capire il prima e il poi.

    Prima.

    Lui e Derek avevano appena consegnato ai poliziotti di Albuquerque i due pericolosi serial killer che avevano inseguito per tre stati, i contatti con Garcia non erano ancora stati ripristinati, ma avevano sentito David ed erano d’accordo che ognuno sarebbe rientrato con i suoi mezzi, riunione il mattino seguente a Quantico per stendere i rapporti, Hotchner per una volta aveva concesso mezza giornata di pausa, più per le distanze reciproche che per reale desiderio.
    Derek lo aveva convinto a starsene a zonzo per una sera, avrebbero preso il volo all’alba e sarebbero stati a Washington in tempo per fare rapporto.
    Era indeciso, ma l’amico aveva fatto un paio di battute sul fatto che non si godeva la vita e non gliela voleva dare vinta.
    Maledizione, avessi dato retta al mio lato petulante e preciso tutto questo non sarebbe accaduto.
    Promemoria, non dare mai più retta a Derek… se me ne darà l’occasione.

    Ovviamente per prendersi pausa dovevano essere irreperibili, e visto che il capo ha detto pausa non ci sta niente di male a spegnere i telefoni.
    E così andarono a zonzo in quel del Nuovo Messico, niente follie particolari, mezza giornata libera passata a non pensare.
    Almeno per Derek, lui continuava a stressarsi ed a stressare con quello che forse potevano fare se rientravano prima.
    Ad un certo punto Derek non potendone più lo aveva preso a male parole, niente di che lo prendeva spesso in giro per il suo carattere strano.
    Ma qualcosa gli fece saltare i nervi.
    Un riferimento involontario a disturbi mentali, che a Morgan non sarebbe mai uscito se avesse pensato a cosa stava dicendo, ma era parecchio su di giri e a volte le parole escono prima che si abbia il tempo di pensarle, specie se si ha bevuto, e Reid si tramutò in una furia.
    Una furia che contro un colosso della stazza di Derek Morgan avrebbe avuto l’effetto di una tempesta in un bicchiere d’acqua, un po’ d’acqua sul piano d’appoggio si asciuga e via.

    Ma gli imprevisti a volte ci mettono lo zampino e proprio nel momento in cui Reid lo colpiva, Derek stava spostando il peso da un piede all’altro, già malfermo per la sbronza che si era preso, venne colto di sorpresa dalla reazione scomposta di Reid, erano nei pressi di una scalinata, Spencer senza rendersi pienamente conto di quello che stava accadendo vide l’amico rovinare giù.
    Sì sentì nitidamente il crak di un osso spezzato, forse più di uno.
    In fondo alla scalinata c’era uno di quei baracchini di hot dog, il baracchino rovescio addosso alle gambe di Derek parte del contenuto.
    Quello che si sarebbe dovuto risolvere con una risata da parte di Derek mentre respingeva il colpo di Reid, a cui era scemata di botto tutta la furia, stava diventando una tragedia, mentre il sangue formava una pozza a lato della testa di Derek.

    Ricordava di aver gridato, chiamato i soccorsi, tamponato la ferita alla testa, preso dell’acqua per spegnere le ustioni.
    Al pronto soccorso, richiesto anzi ordinato, le lezioni involontarie di Hotch erano state apprese per semplice osmosi, che gli fossero fatte TAC e elettroencefalogrammi.
    Poi i contatti con gli altri, lui che non riusciva a spiegare coerentemente l’accaduto, loro che sapevano solo che c'era stato un incidente, e lui che non ce la faceva a spiegare che dalla scalinata ce lo aveva spinto lui e non era caduto da solo per la sbronza.

    I giorni passati al suo capezzale, accorgersi di quando l’antidolorifico smetteva di fare effetto e ordinare che gliene dessero ancora, pretendere di essere presente ad uno degli elettroencefalogrammi per vedere le reazioni nervose quando gli parlava.
    Lo scoramento all’idea che poteva non svegliarsi mai più.
    Penelope che lo sgridava di farsi sentire da Derek a dire certe cose, Hotch che gli ordina di reagire e Derek che dopo una settimana in cui rispondeva solo agli stimoli dolorosi, facendo presagire il peggio, reagisce, serrà i pugni, stringe la mascella e non è una questione nervosa, è una reazione alle parole di Hotch.
    Il risveglio, l’afasia e quello sguardo.
    Di odio.

    Lo avrebbe affrontato, ora era lucido, aveva riposato.
    Era stato un incidente.
    Un maledetto, stupido incidente.
    Davide aveva atterrato Golia, ma senza volerlo.
    Ed ora forse lo avrebbe aiutato a rialzarsi.
    Se glielo avesse permesso.

    Continua...forse.


    SPOILER (click to view)
    Spiego il forse.

    Ci sono ancora un paio di capitoli, almeno abbozzati sulla carta, ma ora come ora non mi viene proprio di passarli al pc, quindi teoricamente ci sono ancora un paio di cose da chiarire, ma non so quando... senza ironia stavolta.
    Solo non mi andava di lasciarvi troppo in attesa di questo ottavo, che in fondo potrebbe anche essere una conclusione, forse.

    Per l'admin, se non vado avanti, avverto, diciamo entro un mese, aspetta a spostarla nella zona ff a capitoli terminate, grazie.
     
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    Nono capitolo



    Permesso?
    Domandò JJ, aprendo la porta dopo aver bussato alla stanza di Diane Reid; la donna era seduta sulla poltroncina davanti alla finestra, un immancabile libro in mano, alzò la testa ed osservo confusa la persona davanti a lei, domandandosi dove l’aveva già vista quella biondina simpatica che le sorrideva senza entrare nella stanza.
    “Entri pure”
    Poi vide la donna mora alle sue spalle, e ricordò, erano colleghi di suo figlio.
    Si alzò in piedi.
    “Voi lavorate con il mio Spencer, gli è forse successo qualcosa?”
    Domandò la donna, ora non solo confusa, ma anche un po’ spaventata.
    JJ le si fece incontro rassicurante.
    “No, non gli è successo niente.”
    “Lei è una pessima bugiarda lo sa? Cosa è capitato?”
    Emily e JJ si scambiarono un’occhiata, meglio dirle la verità, o almeno una sua parte.

    Iniziò Emily.
    “Si è assentato senza permesso dal lavoro. Speravamo fosse qui.”
    “Le dispiace se lo stiamo ad aspettare un poco? Vorremmo evitargli guai con il nostro superiore.”
    “Ma lui sta bene?”
    “Sì, ha solo voluto staccare un poco la spina, e davamo per scontato che si sia diretto da lei.”
    “E siete preoccupati, perché non è da lui andarsene senza dire niente.”
    Riprese JJ.
    “Esattamente, ma risolveremo tutto, vedrà.”
    “Spencer è fortunato ad aver dei così buoni colleghi.”
    “Siamo noi quelli fortunati ad averlo come collega ed amico.”

    Diane si rimise seduta, riprese in mano il libro che aveva poggiato sul bracciolo della poltrona e tornò a leggere.
    Come se avesse bisogno di estraniarsi dalla realtà che la circondava.
    Forse erano i farmaci, forse la malattia, ma JJ ed Emily avevano la netta sensazione che di lì a poco avrebbe anche potuto ritornare a domandare a loro cosa ci facevano nella sua stanza.
    Dimentica di quanto appena avvenuto.
    Si misero sedute ad aspettare.
    Con in testa un solo pensiero, che la parola che avrebbero usato per Spencer non sarebbe mai stata fortunato.


    Fortunato?
    Doveva sentirsi fortunato.
    Quello che gli avevano appena detto i medici mandava Derek su tutte le furie, ma sapeva che gli stavano solo dicendo la verità.
    L’ennesima visita.
    L’ennesimo parere.
    “È stato fortunato giovanotto!”

    Una gran voglia di dirgli che era un uomo fatto da un pezzo, e che giovanotto proprio non gli si addiceva.
    Una gran rabbia di non farcela ancora a superare l’afasia.
    Sapeva che per pochi millimetri la sua lesione poteva essere irreversibile, ma gliela stavano ripetendo troppe volte quella parola. Ormai la odiava.
    Un'altra volta e sarebbe sbottato, anche se non sapeva bene come.
    Pareva però che i medici ne avessero avuto a sufficienza per quel giorno, erano salvi.
    Fuori loro dentro Penelope.
    “Ho sentito gli altri, Reid non è dalla madre, tu non hai idea di dove potrebbe essere?”
    Gli aveva spiegato che se ne era andato, senza dirgli della lettera, e che erano andati a cercarlo.
    Derek cercò di pensare dove poteva essersi diretto Reid, ma anche a lui veniva in mente solo la madre.
    “P-o-l…”
    Lo sconforto.
    “Sì, Rossi ed Hotch si stanno dirigendo dalla polizia, io devo controllare se ci sono stati incidenti.”
    Una fitta colse Derek, forse lo scuotere la testa non era stata una buona idea, Penelope se ne accorse e lo aiutò a stendersi.
    Le rivolse uno sguardo colmo di gratitudine, e lei gli sorrise… e fu così che li sorprese Kevin.

    “Permesso?”
    “Ciao Kevin, non mi avevi avvisato che saresti venuto.”
    “Non sapevo di doverlo fare. Scusa.”
    “Kevin… non ora… ti prego.”
    Derek osservò lo scambio in silenzio.
    Sapeva che Kevin era geloso della sua amicizia con Garcia, gelosia insensata, ma comprensibile.
    I doppi sensi che si scambiavano continuamente lui e la donna avrebbero messo a dura prova chiunque, e mesi prima avevano anche condiviso una stanza anche se lui aveva dormito sul pavimento.
    Ma da quel momento era diventato molto vigile nei suoi confronti.
    Per un attimo non era più nella stanza con i due che si scambiavano occhiate ansiose, si rivide in Alaska mentre consolava Penelope di quello che aveva dovuto sopportare in quei giorni, vedersi morire una persona davanti, senza il filtro che di solito le forniva stare dietro agli schermi.
    Forse la gelosia di Kevin non era per niente insensata, da fuori il rapporto tra lui e Penelope poteva benissimo dare da pensare.
    Tornò a presente e ricambiò il saluto dell’uomo.
    Che dopo i normali convenevoli di una visita in ospedale fece capire alla sua donna che le voleva parlare un attimo da solo.
    Uscirono dalla stanza.

    “Ho fatto la ricerca che hai chiesto, un incidente vicino Las Vegas, la polizia ha i suoi effetti personali.”

    Continua...
     
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    Decimo capitolo



    “Effetti personali? Va bene, ho capito.”
    Hotch riagganciò e voltandosi verso il collega spiegò quello che Garcia gli aveva appena comunicato.
    “Ha detto che nella stazione di polizia dove ci stiamo dirigendo hanno registrato la presenza di alcune cose di proprietà del dottor Spencer Reid, in seguito ad un incidente in cui è stato coinvolto un autobus.”
    “E gli ospedali?”
    “Ha verificato, non risulta ricoverato da nessuna parte, forse perché privo di documenti.”
    “Dannazione!”
    Non servivano altre parole per spiegarsi a vicenda la frustrazione all’idea che gli fosse capitato qualcosa, non bastava Derek in ospedale. Ora forse anche Reid.
    Arrivarono alla centrale di polizia e fu con somma sorpresa che videro Spencer scendere da un automobile.
    Non li aveva visti, stava ringraziando l’infermiera che lo aveva accompagnato fino a lì a riprendersi la tracolla.
    “Sei stata molto gentile, se aspetti un attimo posso almeno pagarti i caffè che mi hai pagato prima.”
    “Non è necessario, eri in difficoltà, e mi hai fatto pensare a mio marito. Ti somiglia sai, lui ora è via in missione e vorrei che se ha bisogno ci fosse qualcuno ad aiutarlo, riguardati e salutami Washington D.C., siamo stati stanziati lì per anni prima di venire ad ovest.”
    “Grazie ancora, e buona fortuna.”
    La donna gli sorrise, ricambiando l’augurio, e se ne andò.
    Avrebbe preso un autobus per raggiungere sua madre, o noleggiato un auto, per prima cosa doveva farsi ridare le sue cose.
    Si voltò nella direzione dell’ingresso e… a momenti andò a sbattere contro Hotch fermo esattamente dietro di lui.
    Rossi era un paio di passi indietro.
    “…Hotch… io…”

    “Tu… ci devi un paio di spiegazioni, ma prima… come stai?”
    Chiese l’agente notando ecchimosi e tagli sul volto del giovane.
    “Non è nulla, il pullman su cui stavo si è rovesciato e… non mi ricordo con esattezza mi sono svegliato in ospedale questa mattina. Hai letto la mail?”
    “Quale mail?”
    Gli disse Hotch con un aria fintamente stupita.
    Rossi non batté ciglio, mentre Hotch proseguiva.
    “Ah dici la bozza del rapporto sui fatti della settimana scorsa che mi hai inviato per sbaglio prima di correggerla?”
    “Ecco… io… una volta mi hai detto che se avessi messo in pericolo la squadra mi avresti licenziato. E io ho messo Derek in pericolo, lo ho quasi ucciso!”
    “Quella volta mi riferivo ben ad altro, e spero che non sia questo il caso. Eravate in azione tu e Derek quando lo hai messo in pericolo?”
    “No, ma lo ho spinto io dalle scale da cui è caduto, Hotch!”
    “Volevi ucciderlo?”
    “NO! È stato un dannato incidente, non mi ero accorto del pericolo della scalinata e gli ho dato uno spintone, io…”

    Reid si fermò, notando come Rossi stesse sogghignando, dopo che Hotch aveva posto quella domanda assurda, poi guardò meglio il suo superiore e vide che pure lui tratteneva a stento un sorriso.
    “Tu… mi stai prendendo in giro!”
    “Solo un po’. Le spiegazioni ce le dovrai dare sul serio, ma sul fatto che con Derek fosse capitata una tragica fatalità in cui eri più coinvolto di quanto avessi ammesso con noi, mi era già venuto in mente, anche per una cosa che mi ha detto JJ mentre stavamo venendo qui. Andiamo a prendere le tue cose.”

    I due uomini si voltarono e presero a salire i tre gradini che portavano alla porta, Reid rimase un istante ad osservarli, erano corsi lì a cercarlo.
    I suoi amici.
    Si guardò un attimo in giro, come stupito che ci fossero solo loro due.
    Hotch e Rossi si accorsero di non averlo alle spalle.
    Lo guardarono osservare in giro.
    “Sono da tua madre, quando ci hanno detto che non eri da lei, noi ci siamo diretti qui. Con l’aiuto di Garcia.”
    Disse Rossi.
    “Da mia madre…”
    “…sai com’è dovevano salvarti dalle ire del tuo superiore.”
    Terminò Hotch, ridendo apertamente.

    Reid non sapeva se era più sconvolto all’idea che sua madre ora si stava sicuramente preoccupando per lui, o se a sconvolgerlo fosse il fatto che in poco più di un paio di minuti aveva assistito a ben due momenti di umorismo targati Hotchner.
    E Rossi sembrava stupito quanto il giovane.
    Una volta passi, ma due nello stesso giorno sono da annotare sul calendario.
    Istintivamente ad entrambi venne in mente di domandare al capo se stava bene, ma se lo tennero per se. Va bene che era di buonumore una volta appurato che Reid stava bene, però meglio non approfittarne.

    Reid raggiunse gli uomini in cima alle scale ed entrarono nella centrale, dove riprese possesso della sua tracolla.
    Poco dopo uscirono e si diressero verso la macchina che avevano preso a noleggio quel mattino, non era uno dei loro comodi suv neri, quelli erano forniti quanto erano in servizio, ora erano decisamente fuori servizio, e si erano arrangiati con gli autonoleggi.
    Reid osservò per qualche istante la vettura grigia davanti a lui.
    “Vi ho messi nei casini con il vicedirettore?”
    “No, per quello che ne sa lei stiamo tutti a casa per qualche giorno in pausa, dopo l’incidente di Derek è la prima volta che gliene abbiamo chiesto il permesso, non ha fiatato.”
    “Strano.”
    “Diciamo che un nostro comune amico vi ha messo una buona parola.”
    “Dice chi penso io?”
    Domandò Reid voltandosi verso Rossi.
    “Non saprei, preferisco non sapere i dettagli dei loschi maneggi del nostro capo.”
    Rossi si riferiva al loro collega, una specie di leggenda dell’Effebiai, a cui Hotch aveva dato una mano, e che era in ottimi rapporti con la Strauss, a differenza loro.
    Il capo in questione scosse piano la testa, evitando di rispondere ad entrambi.
    E la tenne bassa, per non far vedere che stava di nuovo ridendo.
    Si era sentito teso per tutta la giornata, e nel momento in cui si era trovato Reid malconcio, ed aveva capito che stava meglio, aveva sentito la tensione sciogliersi.
    Poi sarebbero arrivati i problemi, con le spiegazioni e i chiarimenti, ma ora si godeva l’attimo di pace.

    Continua...
     
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    Undicesimo capitolo



    Pace.
    Era la parola conclusiva del libro che stava leggendo.
    Ora avrebbe dovuto metterlo via, ed affrontare di nuovo quelle donne.
    L’ansia di quello che poteva essere capitato a Spencer non le aveva dato tregua un solo istante, ma il libro le aveva evitato conversazioni imbarazzanti. I libri erano il suo filtro sul mondo.
    Almeno quando non c’era in ballo la vita di suo figlio.
    Lei sapeva bene di essere la madre schizofrenica di un agente dell’efbiai, sapeva quanto il lavoro importasse per suo figlio.
    Era stato il più giovane agente assunto all’agenzia, era stato il più giovane in un sacco di cose il suo Spencer.
    Era dovuto crescere in fretta, anche a causa sua, e non solo per il Quoziente Intellettivo altissimo.
    Aveva dovuto prendere decisioni dolorose da solo, senza un padre; ora pareva che solo non fosse più.
    La cosa la rasserenava. Almeno in parte. Era complicato a volte, essere lei.

    Alzò lo sguardo sulla donna bionda che le era vicina, quella che per prima era entrata nella stanza.

    “Non dovreste chiamare gli altri e domandare loro se hanno scoperto qualcosa?”
    JJ rimase stupita, credeva che non avesse nemmeno visto Hotch e Rossi che erano rimasti fuori dalla porta e si erano diretti alla polizia appena avevano capito che Spence non era lì con la madre.
    Lei ed Emily avevano fatto un cenno, per non mandare troppo in ansia la donna, ma lei li aveva visti.
    Il tempo di riprendersi dallo stupore per il silenzio della donna, durante l’ora che avevano passato in sua compagnia, e il telefono di JJ prese a squillare.
    Poche parole, un sorriso.
    E potè tranquillizzarla.

    “Lo hanno trovato, sta bene, stanno venendo qui.”
    Le passo il telefono.
    “Spencer? Stai bene tesoro, cosa è capitato? Va bene, ne parleremo poi. Sì, sto tranquilla, ora.”
    Sorrise serena.
    Ora che aveva sentito la sua voce l’ansia che l’attanagliava si era disciolta, evaporata.
    Adesso sì che l’ultima parola del libro aveva senso anche per lei.
    E poco importava di non sapere cosa era successo, l’importante era che stesse bene.
    Il resto sarebbe venuto poi. E forse nemmeno l’avrebbe riguardata.

    Ridiede il telefono a JJ e andò a mettere il libro nel suo posto sulla piccola libreria.
    Emily rimase a guardarla senza una parola.
    Domandandosi come avesse fatto a tenersi per se i dubbi e le domande, visto che si era accorta anche degli altri.
    A volte era difficile capire a cosa stesse pensando il genietto, ora sapeva da chi aveva preso.
    Imperscrutabili Reid.
    Guardò JJ e le due donne si scambiarono un sorriso di sollievo all’idea di stare per risolvere tutto.
    Forse.

    Continua...

    Edited by rabb-it - 9/7/2010, 21:41
     
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  13. rabb-it
     
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    Dodicesimo capitolo



    Forse era il caso di prendersi una pausa.
    Era il pensiero dell’agente Hotchner, mentre osservava il figlio correre avanti alla ricerca del dolce in compagnia dei cugini.
    Jessica e il marito stavano finendo di fare la spesa, il suo contributo era stato un po’ scarso.
    Troppo preso dal pensiero della discussione di quel mattino per concentrarsi su dettagli culinari come abbinamenti tra il pesce e un buon vino bianco.
    E non riusciva a non pensare ai risvolti peggiori del suo mestiere, tenendo costantemente d’occhio Jack, ma non voleva trasmettergli ansia, per cui lo lasciava allontanare.
    Con dentro il terrore peggiore di qualsiasi genitore, decuplicato dal fatto di conoscere per lavoro alcune tra le peggiori aberrazioni del genere umano.
    No, gli serviva una pausa, doveva staccare o Jack sarebbe cresciuto nel terrore e quello Haley non glielo avrebbe perdonato.
    Ma dopo quel mattino la pausa era ancora lontana.
    Non dopo quella lite.
    Troppe cose erano state dette, c’erano dei punti che dovevano essere chiariti prima che potesse lasciare la squadra per qualche giorno.

    Erano passati quasi tre mesi dall’incidente di Derek.
    E Derek voleva tornare in azione.
    L’afasia era alle spalle, aveva ritrovato coordinazione ed aveva superato brillantemente i colloqui con lo psicologo per l’abilitazione al servizio.
    I mesi di terapia riabilitativa e il riposo avevano dato i suoi frutti, ma lui quel mattino gli aveva impedito di tornare al lavoro.
    E l’uomo si era infuriato, erano settimane che si sentiva pronto e non si aspettava un rifiuto da parte sua, e non glielo aveva nascosto.
    Erano volate parole grosse.
    A causa dell’esplosione di rabbia di Derek aveva chiuso il discorso con una semplice frase:
    “Se un semplice -stai a riposo ancora una settimana- ti scatena in questo modo, forse dovrei pensare che sei stato un ottimo attore nei colloqui con lo psicologo.”
    Ma Derek Morgan non ci stava a vedersi etichettato come impulsivo e rimandato a casa in silenzio, ed aveva esagerato.
    “Strano, sullo psicologo avevo fatto un discorso simile a Dave quando TU volevi rientrare dopo poco più di un mese, dall’aggressione di Foyet, e si è visto il risultato!”
    Un silenzio di gelo era sceso nello studio.
    Per alcuni lunghi interminabili minuti rimasero fermi ed immobili, consapevoli del peso delle parole dette.
    Hotch prese una busta che era sulla scrivania ed iniziò ad aprirla con il tagliacarte, il rumore era appena percettibile, ma in quel silenzio veniva ingigantito a dismisura.
    “…io…”
    Iniziò Derek leggermente imbarazzato, cosciente di essersi fatto prendere dall’ira per la mancata riammissione in servizio. Non capiva le ragioni di quel suo costante ostruzionismo.
    Era da quando era rientrato a mezzo servizio, che si sentiva sotto esame, non ne poteva più.
    “Tu, hai solo detto la verità, avrei dovuto prendermi più tempo, ma Foyet non me lo ha lasciato, e non voglio che tu ripeta il mio errore.”
    “Io non sono stato aggredito.”
    “Ti ci è voluto un mese intero per spiegarci gli incubi in cui vedevi Reid torturarti, non serve una laurea per dirti che certe cose non si superano facilmente.”
    “Ma io so che non lo ha fatto.”
    “È stato comunque lui la causa del tuo ricovero, del coma, della riabilitazione. Dovrete lavorare insieme, e io non ve lo lascerò fare fino a che non sarò completamente certo che vi siete lasciati l’esperienza alle spalle.”
    “Sta alle mie spalle da un pezzo, solo tu sembri non accorgertene e vorrei capirne la ragione. È per quello che gli ho detto quando ero ubriaco? Mi ha detto che nemmeno se lo ricorda!”
    “Una settimana Derek, stai fuori dall’azione un’altra settimana, poi ne riparleremo!”
    “E poi ce ne sarà un’altra ed un’altra ancora. IO STO BENE MALEDIZIONE!”
    Ed era uscito sbattendosi la porta alle spalle.
    Senza dargli il tempo di replicare, non che avesse altro da dirgli per placarlo, anzi, forse era stato un bene.
    Erano stati tutti alla larga dal suo ufficio.
    Probabilmente davano ragione a Derek e credevano che stesse esagerando.
    Forse non avrebbero condiviso i modi e i toni, ma certamente il concetto sì, e visto con distacco non sapeva dargli torto nemmeno lui.
    Quando Erin Strauss gli aveva offerto il prepensionamento era stato tentato di buttarla fuori da casa sua a calci, il suo autocontrollo l’aveva salvata, anche se era certo che la donna non se ne era resa conto.
    Capiva bene la frustrazione di Derek, ma era altrettanto sicuro di essere nel giusto ad agire in quel modo, chissà… magari anche la Strauss lo era quel giorno.

    Pessimo paragone.
    Tornò al presente. Vide Jessica voltarsi ansiosa. C’erano entrambi i suoi due figli con lei, ma dov’era Jack?
    Un gelo improvviso calò su di lui.
    Jessica mormorò alcune parole.
    Ne percepì solo alcune, come se non fosse lì, come aveva potuto distrarsi al punto di perdere di vista il suo bambino.
    Scaffale dolci…in fondo…
    Una voce dall’altroparlante scandì il suo nome.
    “Jack Hotchner è alla cassa 14 ad aspettare il suo papà.”

    La cassa 14 venne raggiunta in un baleno.
    Jack era voltato verso la cassiera che si era messa davanti a lui accovacciata e gli stava facendo vedere i tasti del microfono, lei lo indicò al bambino, che si voltò sorridente ed era abbastanza vicino per farsi sentire a rispondere.
    “Sì, lui è il mio papà”
    Il cuore riprese i suoi battiti normali, ringraziò la donna che si era occupata di avvertirli, poi osservò Jack guardarsi in giro.
    Sembrava cercasse qualcuno, non badò a sua zia Jessica a pochi metri da loro.
    Il suo sguardo scorreva lungo gli scaffali, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
    “Jack, cosa è successo?”
    Il bambino deglutì un paio di volte, poi spiegò.
    “Non ho più visto i cuginetti e non eravate dove vi eravate fermati prima, così sono venuto dalla cassiera ed ho chiesto di chiamarti. Ma…”
    Le lacrime ora scorrevano sulle piccole guance del bambino, senza che Hotch avesse idea di cosa gli fosse capitato, erano trascorsi pochi minuti, meno di cinque, cosa poteva essere accaduto in quel breve lasso di tempo per spaventarlo tanto?
    Lo strinse a se. E il piccolo mormorò qualcos’altro.
    “…aveva detto che c’era la mamma…Voglio la mamma!”
    Nascose il volto stringendosi forte al suo babbo e pianse tutte le lacrime di rabbia all’idea che la sua mamma non era arrivata lì a consolarlo.
    Hotch notò il pallore sul volto della cassiera.
    “…Oddio… è colpa mia, ho visto che vi avvicinavate – disse indicando anche Jessica – e gli ho detto che stavano arrivando mamma e papà….oddio mi dispiace.”
    Jack continuava a singhiozzare inconsolabile.
    Hotch disse alla cassiera che lei non poteva sapere, e che la sua era stata una frase normalissima.
    Jessica si avvicinò per prendere il piccolo, ma lui fece segno di no con la testa e si strinse ancora di più al padre.
    Il marito di Jessica disse che avrebbero portato la spesa a casa ed avrebbero iniziato a preparare la cena, come concordato, intanto che lui stava un poco con Jack.
    Un cenno di assenso fu la sola risposta di Hotch.
    Se non mi fossi perso a pensare al lavoro, se fossi stato più presente, se… Calmati.
    Si impose.
    Il suo bambino aveva bisogno di lui, ora doveva trovare le parole giuste, per calmarlo e per fargli capire che sua madre avrebbe fatto qualsiasi cosa per essere lì con lui.
    Andarono a sedersi su di una panchina, appena fuori dal centro commerciale c’era un piccolo parco.
    Rimasero seduti lì a lungo, padre e figlio a parlare, di Haley, del fatto che avrebbe voluto essere lì, ma non poteva, di come viveva nei loro ricordi.
    Ad un certo punto al suo piccolo ometto venne in mente una cosa.
    “Credo che la signorina alla cassa si sia spaventata. Sai è stata tanto gentile, mi diceva che non dovevo preoccuparmi, che saresti arrivato subito.”
    “Forse sì, ma credo abbia capito che non volevi spaventarla.”
    “Però le dovrei dire che ora sto meglio.”
    “Vuoi rientrare per dirglielo?”
    Era orgoglioso di lui, passata la burrasca si preoccupava per gli altri, come sarebbe stata fiera Haley di vederlo.
    “Sì, poi andiamo a cenare con gli zii, però!”
    E si diresse a passo spedito verso l’ingresso del centro commerciale.
    Hotch fece appena in tempo a seguirlo, non era certo tipo da lunghi tentennamenti suo figlio, altro moto di orgoglio. Altro ricordo agrodolce di cosa lui ed Haley avrebbero voluto per Jack. Serenità e sicurezza.

    La cassiera era ancora alla cassa numero 14, dava l’impressione di aver pianto anche lei, e videro che staccava dal turno.
    “Signora, sto bene.”
    Disse semplicemente Jack arrivandole vicino.
    “Oh, ciao piccolo. Felice di rivederti.”
    Lanciò un occhiata ad Hotch, colma di scuse.
    “Doveva succedere prima o poi, meglio che sia accaduto quando io ero presente, due assenze sono peggio di una.”
    “Lo so bene. Auguri, per tutto.”
    La frase era stata accompagnata da un lampo di dolore che passo fugace nello sguardo.
    Tese la mano ad Hotch, la strinse, poi si abbassò a dare un buffetto sulla guancia a Jack.
    “Un bravo ometto, è venuto subito alla cassa a dire di chiamarla, a volte ci arrivano piccini in lacrime da cui facciamo persino fatica a ad ottenere il nome tanto sono spaventati. Lui no, preciso e convinto: mi chiamo Jack potete dire al mio papà di venire qui?”
    “Ed eccomi, così la prossima volta imparo a non perderlo di vista.”
    “Credo sia scientificamente impossibile non perderli mai di vista, parola di ex-babysitter!”
    “Ora capisco la pratica!”
    “Sissignore, consumato mestiere.”
    “Il mio papà invece cattura i cattivi!” Intervenne Jack con orgoglio.
    “Un poliziotto, ora si capiscono un paio di cosette.”
    “Già una specie, ma non fanno corsi per imparare a fare i genitori.”
    “Sa cosa diceva sempre mio padre? Coi figli se fai sbagli, se non fai sbagli! Si va a tentativi.”
    “Questa è saggezza, forse i corsi li dovrebbe tenere suo padre, ho idea che avrebbe il tutto esaurito.”

    Continua...

    SPOILER (click to view)
    Questa cosa mi frullava in testa da un po', praticamente quando ho iniziato a scrivere questa mi era venuta in mente l'idea per una piccola oneshot solo su jack e il padre.
    Ma volevo prima finire "Quando", solo che ogni tanto mi tornava in mente, così me ne sono liberata... forse.
     
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    Capitolo 13



    “Esaurito, io ti dico che è esaurito!”
    “Non si chiama più esaurimento Derek…”
    “Senti chiamalo come ti pare, non ha ragioni per non farmi tornare in servizio, non di logiche almeno. Ho passato i test. Ho di nuovo il totale controllo dei miei riflessi. Trovami una sola ragione logica per non riammettermi in servizio.”
    “Ti fidi di Hotch? Io sì, e se ritiene che ti serva una settimana di riposo extra io fossi in te ne approfitterei.” Disse Rossi.
    “Oh ma lo sto facendo, mi sto prendendo la prima sbronza da quando mi hanno dimesso due mesi fa. Non è approfittarne questo? Ah… tenete me e Reid lontani dalle scale, grazie.”
    “Non fa ridere per niente.”
    Fu il lapidario commento di Spencer, ma non aveva finito.
    “Forse è per questo che Hotch non vuole che torni in servizio, ha capito che sei ancora arrabbiato con me e vuole che prima lo ammetti.”
    Derek non era così ubriaco da non percepire l’ansia nella voce dell’amico.
    “Vuoi sapere con chi sono veramente arrabbiato? Con l’idiota che si specchia al di là del bancone –disse indicandosi con il bicchiere di birra mezzo vuoto che aveva in mano- che non è stato attento a dove metteva i piedi e a cosa diceva la lingua. Devo essermi impegnato parecchio per farti irritare al punto di spintonarmi, ma non vuoi dirmi cosa ho detto di tanto terribile. E non ci credo che non te lo ricordi. Dici che è stato un incidente, dimmi cosa ti ho detto.”
    Emily e Rossi osservarono in silenzio lo scambio tra i due, la donna aveva notato l’uomo che stava bevendo da solo, e senza esitazione aveva avvertito gli altri di raggiungerla.
    Rossi era arrivato per primo, ed insieme avevano cercato di calmare l’ira dell’uomo, poi era arrivato Reid.
    Penelope non era ancora arrivata, JJ stava entrando in quel momento nel locale.
    In tempo per vedere Reid cercare una risposta plausibile su quello che era capitato.
    Lui non era sicuro che conoscere i dettagli avrebbe migliorato l’umore di Derek.
    Forse avrei solo dovuto dargli ragione, quando diceva che Hotch era irragionevole e lasciar cadere il discorso, ma ora è tardi. Mi ha messo con le spalle al muro.
    In senso solo metaforico, per fortuna.
    “Era una cosa sciocca, fossi stato più riposato non me la sarei presa tanto.”
    “Visto che te la ricordi. Sputa il rospo!”
    “Derek, lascialo stare, non siete stati abbastanza male in questi mesi, perché rivangare?”
    “Perché voglio sapere. Cosa sa Hotch che io ignoro. Perché io davvero non me lo ricordo! Maledizione. Perché tu ad Hotch lo hai detto, vero?”
    Spencer si concentrò su una goccia di condensa che stava scivolando lungo il suo bicchiere di analcolico.
    Come ogni persona in cura per una dipendenza doveva evitare gli alcolici, che possono causarne di altro tipo.
    In quel momento sentiva un gran bisogno di qualcosa di forte, ma sapeva che non poteva.
    Deglutì un paio di volte.
    Poi fissò Derek, a lungo, e prese a parlare.
    “Sì, Hotch lo sa. Ho dovuto dirgli tutto. E gli ho chiesto di non dirtelo, visto che non ricordavi mi sembrava la cosa migliore. Eri ubriaco e io ti avevo irritato, come so fare sempre molto bene. Te ne sei uscito con una cosa che mi ha fatto infuriare. Ma onestamente preferirei dimenticarmela pure io.”
    “Dopo che me l’avrai detta ce la potremo dimenticare entrambi.”

    Emily fece un cenno agli altri e si allontanarono di qualche metro, per lasciare a Reid la privacy necessaria, il barista era impegnato altrove e il locale era semivuoto.
    Osservarono Derek trasalire mentre Reid spiegava.
    Scosse la testa come incredulo davanti a quello che gli stava dicendo Spencer.
    Non erano certi che entrambi avrebbero dimenticato, ma almeno non ci sarebbero state zone d’ombra, che sembravano irritare profondamente Morgan.

    Arrivò Penelope, che vedendoli discosti dai due uomini capì al volo la situazione ed andò nella loro direzione.
    “L’ennesimo chiarimento? Quando finirà questa storia?”
    “Quando Hotch farà tornare Derek in servizio attivo, non prima, penso.”
    “Non saprei, forse lui esagera, ma un pensierino a mandare in vacanza Hotch io ce lo farei. In questi mesi la mancanza dell’appoggio di Derek si è fatta sentire, e non dimentichiamoci che un certo vicedirettore non perde occasione per rimarcarlo. E per distaccare JJ presso altre unità, come non fossimo già abbastanza sotto organico.”
    Emily e Rossi non potevano essere più chiari.
    I bastoni tra le ruote all’unità la Strauss li aveva sempre messi, ma negli ultimi due mesi si era applicata parecchio, JJ sospirò pensando a quello che sapeva, e che non poteva ancora condividere con gli altri.
    Era una situazione insostenibile.
    Troppe crepe nell’unità da quando c’era stato l’incidente.
    Dovevano trovare una soluzione.

    Derek sì alzò dal suo posto al bancone ed uscì all’aperto.
    Reid lo seguì, facendo cenno agli altri di rimanere dov’erano.
    Li osservarono parlarsi ancora concitatamente dalla finestra. Erano un po’ in ansia, ma Reid era parso tranquillo del fatto suo.
    Videro Derek portarsi una mano davanti agli occhi. Reid gliela fece abbassare.
    Scuotendo la testa davanti alla caparbietà del giovane, Derek lo strinse a se in un abbraccio fraterno.
    Forse il chiarimento c’era stato, forse la fine della storia era arrivata.

    SPOILER (click to view)
    E invece no! Continua... :B):
     
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    Capitolo 14


    Arrivata, era a casa. Finalmente.
    Stava uscendo dall’ufficio quando aveva ricevuto la chiamata di Emily, aveva avvisato Will che avrebbe fatto tardi, lui le aveva detto di non preoccuparsi.
    Ma appena le cose erano state chiarite tra Derek e Spence li aveva salutati e se ne era corsa a casa.
    Non solo per la voglia di rivedere marito e figlio, ma anche per non poter essere sincera con loro e non aver voglia di mentire. L’avevano salutata tutti sorridendo.
    Solo Garcia l’aveva guardata un po’ in modo strano.
    Come se sapesse perché scappava.
    E non sarebbe nemmeno strano, lei sa spesso quello che succede. Quasi come Rossi, sono i migliori informatori sulle voci di corridoio, da sempre. Ma forse stavolta aspettano che ne parli io.

    Will stava preparando Henry per cenare, seggiolino agganciato alla tavola e pasto in tavola.
    “Ciao, mi spiace. Crisi in corso.”
    “Tranquilla, abbiamo appena preparato, vieni a sederti. La crisi riguarda le ultime novità? Se la sono presa a male?”
    “No, non lo sanno ancora, il vicedirettore deve ancora parlarne con Hotch. E non ho avuto il coraggio di dirlo io per prima.”
    “Sai che a saperlo da lei la prenderanno peggio. Dovresti prepararli alla cosa.”
    “Non ce la faccio Will, ne abbiamo passate troppe. Mi sembra di tradirli. Sono anche loro la mia famiglia per certi versi.”
    “Lo so, e per questo penso che dovresti prendere tu la decisione di informarli che stai per...”
    Lei lo interruppe irritata.
    “… non voglio, so che devo farlo d’accordo, ma non ci riesco.”
    Lui le prese una mano e giocherellò con l’anello che la donna portava al dito.
    “Potrebbero anche finire con l’essere contenti per te.”
    “So che lo saranno, ne sono certa, ma fino a che la Strauss non ufficializzerà la cosa con Hotch, io preferirei non ne sapessero niente. Anche se…”
    Le strinse un poco la mano, come ad invitarla a continuare.
    “…anche se penso inizino a girare le prime voci.”
    “Fermale sul nascere, al diavolo il vicedirettore, sono più di sei anni che lavori con loro, non si meritano di saperlo da pettegolezzi.”
    “Hai ragione. Domani parlerò con Hotch.”
    Ecco lo aveva detto, domani, era decisa.
    Si sentiva già più leggera.
    Iniziarono a cenare, ridendo con il loro bambino.
    Sereni.

    L’indomani JJ bussò con decisione all’ufficio della Strauss.
    “Si accomodi, ho visto il suo messaggio, è una cosa molto urgente?”
    “Vorrei mettere al corrente i miei colleghi, o perlomeno il supervisore Hotchner di quello che sta per succedere, non intendo mancarle di rispetto, ma la situazione per me sta diventando insostenibile.”
    “Non le avevo detto chiaramente che ne avrei parlato io? Entro la settimana terremo la riunione in cui spiegherò ogni cosa.”
    “Lei era stata chiarissima, sono io che preferirei potergliene parlare prima che lo sappiano dalle voci che stanno già iniziando a girare.”
    “Capisco, va bene, lo dica pure all’agente Hotchner. Ma non agli altri. Le voci sono solo voci, fino a che non vengono confermate.”
    Salutò ed uscì.

    Una mezza vittoria. Toccava accontentarsi.
    Era intenzionata a dirlo in ogni caso a Hotch, ma era meglio poterlo fare senza disobbedire ad un ordine diretto.
    Entrò nell’open space, si diresse al suo ufficio, prese alcune cartelline che doveva far approvare ad Hotch, erano il suo alibi per andare in ufficio senza destare domande.
    Sorrise ai colleghi che incrociava.
    Un'altra bussata, stavolta meno decisa.
    Hotch era al telefono, le fece cenno di entrare.
    Terminò la conversazione e prese le cartelle che lei gli porgeva.
    “Hotch, dovrei parlarti di una cosa, se hai un momento.”
    “Certo dimmi.”
    L’uomo firmò rapidamente e chiuse i fascicoli, e lei ebbe tutta la sua attenzione.
    “Ecco sai che da qualche tempo il vicedirettore mi manda anche a seguire altre unità. Nella prossima riunione… ecco… io…”
    Hotch fraintese la sua esitazione.
    “Vuoi che le parli e le chieda di smetterla? È nelle mie intenzioni. Non ha senso che ci privi di un elemento della squadra per le sue lotte contro di me.”
    “Hotch… no. Non farlo. È diverso.”
    “JJ… spiegati meglio.”
    “Mi ha proposto per un nuovo incarico, questo prevede che io segua le varie squadre solo dagli uffici, sai cosa vuol dire…”
    “Una promozione! Congratulazioni JJ!”
    L’uomo si alzò in piedi e le porse la mano per congratularsi.
    Lei ricambiò la stretta, Hotch l’aveva presa bene.
    “Non so… mi sembra di abbandonarvi. Non è ancora ufficiale fino alla riunione, ha presentato domanda di prepensionamento la persona che gestiva il livello superiore e la Strauss ha fatto il mio nome per il posto vacante.”
    “Sei la persona giusta, certo per noi sarà un bel guaio. Ma sono contento per te.”
    “Il fatto del guaio, prima quando hai detto che la Strauss mette i bastoni tra le ruote, confesso che questa promozione mi sembra più un dispetto a voi che un premio a me… avrò un sacco di grattacapi in più”
    “Sui grattacapi non so darti torto, ma il dispetto no. Doveva scegliere un sostituto ed ha scelto la migliore, non è così autolesionista il vicedirettore.”
    “Mi ha chiesto di dirlo solo a te, voleva dirlo lei nella riunione, ma io non ce la facevo più a sentire gli altri che…”
    Sì fermò rendendosi conto che lui forse tutte le lamentele degli altri non le conosceva.
    Lui si rese conto che c’era qualcosa che JJ non voleva dire, e non indagò. Sospettava potesse entrarci la lite del giorno prima con Derek e preferiva non avere conferme.

    Un toc toc alla porta.
    Rossi che entra.
    “Le voci di corridoio sono vere allora? Stai per mollare l’unità.”
    “Dave, ma come…”
    “La porta era aperta e tu non hai parlato a bassa voce nel farle le congratulazioni, sto nell’ufficio a fianco te lo ricordi?”
    JJ guardò Hotch che fissava Rossi come se volesse capire da dove gli arrivava tutta quella comaritudine.
    “Prossima volta chiuderò la porta, altro che voci di corridoio. Comunque sì a breve ci lascia, ma se va avanti così potrebbe anche andare al posto della Strauss.”
    “Uh dimmi dove si firma per la petizione: Voglio JJ direttore.”

    JJ scosse il capo ridendo per la solerzia con cui Dave aveva raccolto l’idea balzana di Hotch.

    Continua...
     
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