Just smile.

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  1. Antu_
     
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    “Corse al supermercato e strane reazioni”



    La settimana di Reid e Thompson trascorse senza lasciar loro un attimo di tranquillità, furono completamente sommersi dal lavoro. Madison si trovò nella spiacevole situazione di dover dimostrare più volte di meritare il posto nel reparto che le era stato offerto mentre Spencer si era spostato varie volte negli States insieme alla sua squadra per la cattura di serial killer; la classica settimana in parole povere. Per fortuna era arrivato il venerdì che per entrambi significava una possibile pausa dai propri impegni che accolsero con piacere.
    Madison era tornata a casa con una gran fame, si precipitò in cucina, aprì lo scaffale e a quel punto realizzò che non aveva altro che una scatola vuota di merendine.
    “Fantastico” disse ad alta, “Dovrò andare al supermercato”. Allora riprese la borsa e le chiavi dell’auto, stava mettendosi il cappotto quando il suo pensiero andò a Spencer Reid. “Chissà se ha bisogno di qualcosa…” pensò, in fin dei conti è così che si comportano i vicini, si aiutano a vicenda.
    Il cellulare di Reid squillò diverse volte a vuoto, Madison era sul punto di riattaccare quando la voce dell’agente risuonò dall’altro capo del telefono.
    “Maddie, dimmi!” disse lui, una volta uscito dalla sala conferenze dello Smithsonian dove si era recato per assistere ad un dibattito sulla teoria darwiniana.
    “Ciao..Stavo per andare a fare la spesa e mi chiedevo se avevi bisogno di qualcosa, non so un cartone di latte, un pacco di biscotti, la carta igienica, sai cose così” gli chiese la rossa.
    “Al dire il vero, dovrei fare la spesa anche io quindi non preoccuparti, ci penso io. Grazie comunque”, era stato un pensiero carino da parte sua chiedergli se aveva bisogno di qualcosa.
    “Allora andiamoci insieme, no?” gli propose lei con un tono un po’ infantile che fece ridere Spencer.
    “Il fatto che è ora sono ad una conferenza allo Smithsonian” le spiegò Spencer leggermente dispiaciuto.
    Madison si scusò subito con lui per averlo disturbato, lo stava per salutare quando il dottor Reid gli chiese di aspettarlo. “Quindici minuti e andiamo. Il tempo di tornare a casa” .
    “E la conferenza?”
    “Figurati, le cose più importanti sono già state dette e poi è importante anche mangiare, no?”, a quel punto riattaccò e si precipitò dentro la sala a prendere la giacca.

    “Allora da dove iniziamo?” domandò Madison al suo vicino alzandosi in punte di piedi per avere una panoramica più chiara dei vari reparti. “Controlliamo la lista, no?” suggerì lui cercando nella giacca il foglietto che aveva scarabocchiato di ritorno dallo Smithsonian.
    “Giusto!” esclamò lei annuendo, fu allora che prese il suo smartphone e cliccò sullo schermo. Il dottor Reid osservò la scena con espressione incerta chiedendole cosa stesse facendo.
    “Controllo la mia lista della spesa, no? Ho scaricato un’app apposita per questo tipo di cose. Lo sapevi che c’è praticamente un’app per tutto?” affermò lei divertita.
    Spencer rise e disse che si sarebbe presto aggiornato sulle ultime novità nel campo del mobile, poi insieme si diressero verso il reparto “frutta e ortaggi”.
    “Io ho i biscotti sulla lista” fece presente Madison mentre uscivano dal reparto. “Anche io”rispose Spencer.
    “Mmm..vediamo, eccoli” annunciò la rossa prendendo due scatole di cookies. “E quella sarebbe la tua idea di biscotti?” domandò con espressione quasi schifata al dottor Reid vedendolo stringere una confezione di biscotti di soia.
    “Cosa hanno di male? Sono leggeri e salutari” rispose alzando le spalle. Non capiva quale fosse il problema in quei biscotti.
    Madison roteò gli occhi e tolse la confezione di mano a Spencer. “Appunto! Non sei mica a dieta, anzi dovresti pure prendere qualche chilo” fece lei, poi prese una scatola di cookies al cioccolato e la lanciò nel carrello del dottor Reid. “Ecco così va meglio” disse soddisfatta.
    “La cioccolata fa bene, rende felici le persone quindi te ne prescrivo un po’ ”aggiunse sorridendo.
    “Lo so, il cioccolato, specialmente quello fondente, è un grande propulsore di serotonina, infatti quando si mangia un po’ di cioccolato fondente parte l’ormone del buonumore, tra l’altro...”affermò lui passando in modalità enciclopedia vivente.
    Madison gli ricordò, che avendo conseguito una laurea in medicina, era perfettamente a conoscenza delle proprietà del cioccolato e dei suoi effetti sulla serotonina, Spencer annuì e smise subito di parlare.
    Stavano andando verso il reparto dei latticini e derivati quando due ragazzini tagliarono loro la strada inseguendosi con i carrelli, Madison scoppiò a ridere di fronte alla reazione di Spencer che si era addossato contro lo scaffale sbiancato in viso dalla paura. “Avrebbero potuto romperci qualche osso” esagerò lui con tono stizzito notando Madison che stava quasi rotolandosi per terra dalle risate.
    “E come? Spingendoci su una piramide di confezioni di zucchero semolato?” lo scherzò lei una volta riuscita a smettere di ridere.
    “Dai! È divertente, anche io e mio fratello lo facevamo quelle rare volte che Nancy ci portava al supermercato con lei” continuò lei.
    “Nancy? Credevo che tua madre si chiamasse Natalie” domandò all’amica.
    “Si, infatti si chiama Natalie. Nancy era la nostra tata” tagliò corto Madison. “Allora ci stai? Gara all’ultimo carrello?” lo incalzò con espressione di sfida.
    Spencer disse che non se ne parlava, che loro erano persone adulte e non due ragazzini e che era meglio finire di fare la spesa perciò si avviò verso il banco frigo convinto che la sua vicina lo seguisse. Fu allora che sentì una specie di urlo di battaglia provenire dalle sue spalle e vide Madison sfrecciargli accanto. “Prova a prendermi” gli disse voltandosi verso di lui dopo averlo superato.
    A quel punto, Spencer prese la rincorsa e si lanciò nell’inseguimento senza pensarci, era stato sfidato e aveva il dovere di difendere il suo onore.
    La stava quasi per raggiungere quando la guardia giurata del supermercato si piazzò di fronte a loro ponendo fine alla loro corsa. “Questo è un supermercato non una pista di go-kart” li rimproverò l’uomo con tono severo.
    Spencer e Madison si scusarono con lui per il loro comportamento infantile, l’uomo annuì e si allontanò prima che i due scoppiassero a ridere per la scena a cui aveva appena assistito.
    Dopodiché si avviarono verso le casse, avevano finito la spesa e ad ogni modo la guardia giurata continuava a guardarli storto perciò pensarono che era meglio uscire il più in fretta possibile dal supermercato.

    “Spencer, tu hai una laurea in psicologia, no? Psicanalizzami!” affermò lei convinta di ritorno dal supermercato. Si buttò sul suo divano e indicò la poltrona accanto a lei, se la doveva psicanalizzare, doveva farlo come un vero psicologo.
    “Dovrei mettere a posto la spesa” tentò di giustificarsi Spencer, non aveva voglia di fare il profilo ad una sua amica, il subconscio lo faceva già senza che lo comandasse.
    “Metti la spesa nel mio frigo e poi la porti su. Dai, ti prego!” insistette lei sbattendo le ciglia per risultare più persuasiva.
    “Ok” si arrese, tanto non sarebbe riuscito a convincerla del contrario. Era evidente che fosse molto testarda.
    Mise la proprio spesa nel frigo di Madison e si sedette accanto a lei dopo aver acceso lo stereo scegliendo della musica classica per far rilassare l’amica.
    “Addirittura la musica? Facciamo le cose seriamente!” lo scherzò lei. Spencer sorrise e le chiese di chiudere gli occhi.
    “Concentrati sulla musica e fai un respiro profondo” le suggerì, Madison obbedì e a quel punto Spencer le disse di immaginare di essere in un viale e descriverglielo.
    “Sta tramontando il sole, alcuni raggi filtrano attraverso le chiome degli alberi. E’ autunno, ci sono tante foglie rosse e marroni per terra, io le calpesto. Però non sono io, cioè sono io da piccola” disse la rossa.
    “Vedi qualcos’altro oltre gli alberi?”
    “Si, un immenso prato verde e dei fiori bianchi.”
    “C’è qualcuno con te? Oppure sei da sola?” le domandò Spencer concentrandosi sulle parole dell’amica.
    Madison sorrise tenendo sempre gli occhi chiusi e gli rispose che era con suo fratello, Brian.
    “Perfetto, tuo fratello va via. Tu guardi per terra e trovi un rametto. Com’è e cosa fai?” chiese ancora una volta.
    “E’ piccolo e coperto di muschio verde. Lo butto per terra dopo averlo spezzato”
    Spencer annuì, poi le chiese di immaginare di vedere un tronco e di dirgli quale fosse la sua reazione.
    “E’ grosso e ha delle spine, occupa tutto lo spazio sul viale. Non riesco a superarlo, mi faccio male. Mi siedo per terra, non sono più piccola, piango. Perché non riesco a superarlo?” domandò con tono concitato. Si stava agitando per qualche motivo che Spencer non riuscì a spiegarsi, perciò le disse di lasciare il viale, si accertò che Madison si fosse rilassata e proseguì.
    “Ti trovi ora ad un bivio. Me lo descrivi?”
    Madison descrisse il bivio dicendo che c’era un'unica strada diretta a sinistra, non era un vero e proprio bivio, spiegò all’amico.
    Spencer le chiese di intraprendere la strada. “Sei arrivata in una piazza. C’è una statua, dov’è collocata e di chi è?
    “E’ spostata un po’ verso sinistra, è una donna è in punta di piedi e tende le bracca in avanti. Sembra quasi che stia ballando” disse imitando il movimento della statua con le braccia.
    Spencer le chiese di dire qualcosa alla statua, Madison rimase in silenzio e infine gli disse che non le veniva da dire nulla.
    “Va bene. Davanti a te c’è muro, riesci a vedere al di là di esso?”
    “No, è molto alto, ma riesco sentire delle voci, sono voci di bambini. Non ho voglia di andare al di là del muro però” rispose la giovane donna aggrottando la fronte.
    “Ci allontaniamo dal muro. Siamo su un’isola, è grande? Vedi altre isole?” le domandò Spencer, era quasi arrivato alla fine.
    “Non è troppo grande, io sono sulla riva seduta, guardo il mare. Non vedo altre isole”
    Infine Spencer le chiese di visualizzare un cubo, Madison ci pensò un attimo ma poi gli disse che il cubo lo teneva dentro la borsa che portava con sé.
    “Apri gli occhi. Abbiamo finito” disse Spencer spegnendo lo stereo. Madison si mise a sedere e domandò all’amico se fosse pazza oppure no, il dottor Reid scosse la testa. “No, non sei pazza. Stai tranquilla” la rassicurò e iniziò a raccontarle cosa aveva capito da quel breve esercizio che avevamo appena fatto insieme.
    “Hai immaginato un tipico paesaggio autunnale, significa che sei una persona un po’ malinconica, ma al tempo stesso romantica data la tua descrizione. Ti sei vista da piccola, il che significa che ricordi l’infanzia come un bel periodo” esordì Spencer mentre Madison ascoltava senza fiatare.
    “Quando ti ho chiesto se eri in compagnia, mi hai detto che eri con tuo fratello, questo indica che tu e lui avete stretto un legame molto forte e che è importante per te la sua presenza. Per quanto riguarda la tua persona, vedi te stessa come un’artista, infatti la statua eri tu e tu vedi te stessa come una ballerina”
    Quelle parole fecero ridere Madison che annuì dicendo che era vero. “Ti prego, continua” lo incoraggiò, quel profilo le piaceva.
    “Sull’isola eri seduta sulla riva, ciò significa che sei molto socievole, ti piace stringere nuove amicizie e circondarti di persone, anche se non ami stare troppo al centro dell’attenzione infatti la tua statua era spostata leggermente verso sinistra. Il fatto che non vedessi altre isole intorno a te indica che sei soddisfatta dalle scelte che hai compiuto finora riguardo i tuoi studi e il tuo lavoro. Ti piace cambiare e sei pronta a metterti in gioco dato che non visualizzavi un bivio ma una strada a sinistra che implica che hai una certa propensione al cambiamento” continuò Spencer.
    “Però quando ti ho chiesto di dire qualcosa alla tua statua, tu hai esitato ma alla fine non hai detto nulla, ciò sta a significare che non hai dialogo con te stessa, non ti interroghi, e ti proteggi tantissimo anche, infatti quando ti ho chiesto se vedevi il cubo, tu mi hai detto che lo tenevi in borsa, questo vuol dire che spesso tendi a chiuderti a riccio o che forse non ti piace farti vedere vulnerabile” sottolineò Spencer osservando attentamente la reazione di Madison che annuiva senza dire nulla.
    “Il muro rappresenta il tuo rapporto con la morte. Hai un rapporto sereno con essa, non ti fa paura, ma non ti senti ancora pronta e per qualche motivo la colleghi ai bambini. Hai subito qualche perdita da bambina? Magari è morto qualche persona a te cara quando era ancora un bambino?” le domandò Spencer, la giovane donna scosse la testa dicendo che non le era successo nulla dal genere e abbassò lo sguardo, stava mentendo. Tuttavia il dottor Reid preferì non indagare e continuò con la sua analisi.
    “I piccoli problemi, rappresentati dal rametto, li affronti in modo decisivo, non ti pongono in difficoltà. Invece i grandi problemi, simboleggiati dal tronco che ostruiva il passaggio, ti attanagliano, c’è qualcosa che ti tormenta, un grosso ostacolo che non riesci a superare. Forse è da quello che ti proteggi?”
    A quel punto Madison si rabbuiò, la sua espressione cambiò repentinamente. “Forse è meglio che vai. È tardi.” gli disse mentre si alzava in piedi, il dottor Reid la fissò per qualche secondo senza riuscire a capire perché lo stesse cacciando di casa all’improvviso.
    “Ho detto forse qualcosa che non va?” domandò lui con tono incerto. “No, non hai detto nulla. Ma è tardi e io mi sono ricordata che avevo delle cartelle da compilare, quindi...” rispose lei inventandosi una scusa che a cui Spencer non credé.
    Madison lo salutò di fretta e si chiuse in bagno, lasciando Spencer da solo in salotto, che si sbrigò a prendere la propria spesa e ad uscire dall’appartamento dell’amica.
    Stava per chiudere la porta di casa quando sentì l’acqua del rubinetto del bagno scorrere. Non seppe mai che l’amica lo avesse fatto perché non la sentisse piangere.


    “Confessioni difficili”


    “Derek, capisci? E’ stato molto strana quella reazione” disse Reid all’amico dopo avergli raccontato del suo ultimo incontro con Madison. “Sinceramente non ne ho idea” ammise l’uomo, anche a lui era sembrata una reazione piuttosto esagerata, perciò rassicurò Spencer dicendogli che non era dovuta di certo a qualcosa che avesse detto.
    “Tu che sai di lei? Insomma non siete amici? Saprai pure qualcosa!” insistette il giovane, gli sembrava davvero assurdo che di quella ragazza lui non sapesse nulla, Derek roteò gli occhi, Spencer sapeva irritarlo come nessun altro.
    “Reid, te l’ho detto! Io non ne so nulla. Ho conosciuto Madison tempo fa quando lavorava con Derrick” gli raccontò per l’ennesima volta l’agente Morgan. “L’ultima volta che l’ho vista, eravamo a Baltimora per un caso a cui Derrick mi chiese di collaborare. Lei stava bene ed era fidanzata con un certo Mason. L’ho sentita per un po’ dopo quell’incontro e poi è sparita per quasi due anni finché non mi ha chiamato circa un mese fa per dirmi che si sarebbe trasferita a Washington.”
    “Questo è tutto ciò che so. Ma poi scusami, Reid, cosa importa? E’ una tua amica, mica una sospettata su cui devi indagare. Se ha qualche segreto di cui non ti vuole parlare, sono affari suoi” commentò Morgan sperando di riuscire a dissuadere il dottor Reid dalla “sete” di sapere. Spencer abbassò la testa, forse Morgan ha ragione, pensò.
    “Ora andiamo a prendere una delle tue tazze di zucchero con il caffè, magari sei in preda ad un calo di zuccheri” lo scherzò Derek prendendolo per le spalle perché venisse con lui e la smettesse di pensare al passato della dottoressa Thompson.
    Poco più tardi l’agente Morgan lasciò il genio del F.B.I. da solo dopo averlo informato che aveva delle cose da sbrigare con l’agente Rossi, il dottor Reid annuì e l’agente si allontanò dopo avergli intimato di smetterla di pensare a Thompson.
    Ma Spencer non ci riusciva, pensare per lui era come una droga, non poteva spegnere il cervello a piacimento. Ammetteva che non gli sarebbe affatto dispiaciuto, ma sapeva che era impossibile. Non ricordava un momento della sua, da quando aveva memoria, in cui non fosse stato accompagnato dai suoi pensieri; erano come ombre che lo seguivano, ombre irritanti e spesso dolorose.
    In quegli istanti, il giovane provava una forte attrazione nei confronti del passato di Thompson, voleva sapere tutto della giovane dottoressa; avvertiva lo stesso desiderio di conoscenza che lo attraversava quando stringeva un nuovo pesante manuale preso in biblioteca. Solo che Madison Thompson non era un manuale e non poteva essere aperta.
    Doveva concentrarsi su altro, era l’unico modo per distrarre i suoi pensieri della figura misteriosa della sua vicina di casa, perciò iniziò ad aggirarsi per l’open space, alla ricerca di qualcosa da fare.
    Fu allora che passò di fronte all’ufficio vuoto dell’analista informatica Garcia, sapeva che se avesse inserito il nome dell’amica in quei motori di ricerca, avrebbe scoperto tutto in pochi secondi e Madison non sarebbe stata più un punto interrogativo.
    La tentazione era troppo forte, ma sapeva che era sbagliato. Era dibattuto fra il suo desiderio di conoscere e la consapevolezza che si trattava di violazione della privacy; aveva appena messo un piede nell’ufficio di Garcia quando questa apparve alle sue spalle. “Reid che diavolo stai facendo nel mio santuario?” le chiese la bionda lanciando lo sguardo più cattivo di cui fosse capace. Spencer trasalì al sentire la sua voce e farfugliò che stava semplicemente passando di lì e si frettò ad andarsene, ma Garcia lo prese per un braccio e lo trascinò dentro.
    “Che volevi fare? Qualcosa di illegale? Ci sono, volevi entrare nei database della CIA!” esclamò la donna puntandogli il dito indice contro.
    “No, Garcia, nulla di illegale… Io volevo avere informazioni su una persona” mormorò Spencer con tono imbarazzato, si sentiva come un bambino sorpreso a rubare dei biscotti in un supermercato.
    “Volevi sapere di tuo padre?” gli chiese lei mettendogli una mano sulla spalla per incoraggiarlo; Spencer scosse la testa e confessò che si trattava di Madison. L’amica lo guardò incerta e gli domandò perché fosse così curioso al punto da voler utilizzare il suo super computer per sapere qualcosa di più, Spencer fece spallucce e rimase in silenzio.
    “Reid, il miglior modo per conoscere qualcuno è dargli il tempo di svelarsi” gli spiegò Garcia con tono materno. “Vedrai che non esistesse nulla di più bello di qualcuno che si confida con te e ti racconta i suoi segreti e paure, proprio come tu hai fatto con noi” continuò la donna rivolgendogli un sorriso che fu ricambiato.
    Spencer gli diede ragione e poi uscì dall’ufficio di Penelope; era ancora curioso ma si promise di non cedere. Avrebbe aspettato che fosse Madison a parlargli, anche se questo poteva significare non venire mai a conoscenza del suo passato.

    Per diversi giorni successivi al loro ultimo incontro, Spencer tentò di contattare Madison senza successo. Provò persino a bussare alla sua porta, ma nessuno gli aprì; alla fine dovette cedere, era evidente che la giovane dottoressa non volesse vederlo o sentirlo perciò era inutile insistere nonostante la cosa lo rendesse piuttosto triste.
    Una sera mentre leggeva un libro, qualcuno bussò alla sua porta.
    “Madison!” esclamò con un po’ troppo entusiasmo che non lasciò alcun dubbio riguardo il piacere che aveva provato vedendola davanti a lui. “Ciao” farfugliò la ragazza rimanendo sulla porta, Spencer si fece da parte e la invitò ad entrare.
    “Scusami” dissero entrambi all’unisono, sorrisero per l’accaduto. “Parlo prima io se non ti spiace” disse stavolta la giovane donna, Spencer annuì e rimase ad ascoltarla dopo essersi accomodato sul divano.
    “Mi dispiace per l’altro giorno. Ho esagerato.” esordì lei, dal tono si capiva che fosse davvero dispiaciuta di quanto successo. “E’ solo che ciò che hai detto, ha risvegliato in me brutti ricordi, e..”
    Spencer annuì e le disse che se ne voleva parlare, lui era disposto ad ascoltarla, Madison sorrise e accettò; si sentiva a suo agio con il dottor Reid perciò le venne quasi naturale, superata la ritrosia iniziale a lasciarsi andare, confidarsi con lui.
    Fece una pausa e quando si sentì pronta, raccontò a Spencer cosa fosse successo. “Qualche anno fa, sono caduta in anoressia. Ne avevo sofferto anche al liceo, ma ero sempre riuscita a controllarmi, solo che quella volta la ricaduta fu molto forte e i miei genitori furono costretti a ricoverarmi in una clinica per disturbi alimentari, al Sara Tobin nello stato di New York” confessò la ragazza.
    “Ero in preda ad una forte depressione, ricordo che i medici mi dissero che ero in pieno esaurimento nervoso, e che se avessi continuato a dare i numeri rischiavo di perdere la vita. Sapevano che, avendo una formazione medica, io fossi perfettamente in grado di capire a cosa stessi andando incontro punendomi in quel modo, ma pensavano che se mi avessero messo di fronte alla consapevolezza che pesavo a mala pena quaranta chili, avrei smesso di impormi quel digiuno forzato” continuò, Spencer notò che aveva gli occhi lucidi mentre parlava e inevitabilmente si commosse anche lui. Non riusciva ad immaginarsi una Madison così fragile, nonostante non la conoscesse da molto, gli era sembrata una persona molto sicura di sé e forte. D’istinto posò una mano sulla sua come per farle coraggio e la invitò a continuare il suo racconto se ne aveva ancora voglia.
    Madison annuì e si schiarì la gola cercando di dissolvere il grappolo che le si era formato.
    “Qualche mese dopo, uscii dalla clinica, non ero ancora guarita ma il peso non era più preoccupante e i medici pensarono che potesse essere una buona idea portarmi a casa. Ovviamente si rivelò un terribile sbaglio.- fece un’altra pausa per riuscire a controllare le proprie emozioni- Persi il controllo di nuovo e iniziai a bere, non ricordo un singolo giorno in cui non sia stata portata a casa in uno stato di semi incoscienza. I miei genitori furono costretti a portarmi nuovamente in clinica e fu allora che mi prese in cura il dottor Rhodes.”
    “Mi è stato accanto in ogni momento, mi ha ascoltata fino alla nausea incoraggiandomi in ogni modo perché ritrovassi la voglia di vivere che avevo perso. Ci vollero altri sei mesi perché mi riprendessi, ma il dottor Rhodes non smise di venirmi a trovare finché non trovai la forza di riprendere il controllo della mia vita e così uscii dalla clinica.”
    “Non bevo da allora e non ho più avuto ricadute, è passato quasi un anno e ormai non faccio nemmeno la cura contro la depressione che mi era stata prescritta”concluse Madison.
    “Scusami se non te ne ho parlato l’altro giorno, ma temevo che mi avresti giudicata e così..”si giustificò con la voce che tremava, aveva paura di averlo deluso. Spencer la interruppe dicendole che non lo avrebbe mai fatto e che la considerazione che aveva di lei non era cambiata di una virgola, anzi si era fortificata. Fu allora che Madison con un gesto impulsivo abbracciò il dottor Reid, che rimase per un attimo interdetto, ma rispose all’abbraccio e strinse la giovane che appoggiò la testa sul suo petto.
    Spencer chiuse gli occhi e sentì un profumo dolce di pesca e miele invadergli le narici. Rimasero in quella posizione per diversi secondi, poi Madison si staccò e sussurrò un grazie all’amico appena udibile.
    “Ti va se andiamo a fare una passeggiata?” propose Spencer, pensò che prendere un po’ di aria avrebbe fatto bene ad entrambi.
    Madison annuì e gli disse che le sembrava un’ottima idea, poi indossò il cardigan che Spencer le aveva prestato e uscirono di casa. Camminarono fianco a fianco per circa una ventina di minuti senza dirsi molto, si recarono al parco e senza accorgersi si presero per mano.
    “Guarda un mago!” esclamò indicando una folla radunata attorno un giovane vestito come uno stregone dei film su Merlino e la tavola rotonda, la giovane accelerò il passo e lasciò andare la mano di Spencer che in quel momento realizzò di averla stretta.
    Era sorpreso, si sentiva bene e per nulla imbarazzato, come se fosse una cosa normale e del tutto spontanea. “Quello non lo si può definire un mago” asserì il dottor Reid dopo aver osservato il presunto mago all’opera.
    “Agente Reid, lei pensa di poter fare di meglio?” lo incalzò alzando un sopracciglio, Spencer si avvicinò e sussurrò al suo orecchio di sapere di poter fare meglio e poi fece apparire davanti un fiore finto di colore blu, Madison applaudì e si mise il fiore fra i capelli. Nel frattempo il mago aveva terminato il trucco e chiese se c’era un volontario per quello successivo, il mago scrutò la folla guardando i ragazzini che si sbracciavano per essere scelti, stava per prendere uno di loro quando Spencer si fece avanti chiedendogli di prendere lui.
    “Costui vi vuole sfidare, mio giovane mago, perciò dovrà accettare l’offerta se non vuole perdere l’onore” esclamò la rossa rivolgendo un sorriso accattivante alla folla che si era girata verso di lei, convinta che si trattasse di una recita. Il mago sgranò gli occhi, non capiva cosa volessero quei due, ma concludere lo spettacolo in quel momento significava perdere le offerte perciò decise di lasciarli fare.
    “Bene, bene. Chi sei? Ti prego, presentati alla folla” domandò il mago con un gesto teatrale. “Sir Reid, a suo servizio” si presentò Reid e fece un inchino alla folla e presentando l’amica, che s’inchinò a sua volta, come lady Madison.
    “Non so che intenzioni abbiate, ma spero che non roviniate il mio spettacolo. Per te sarà solo un modo di colpire la ragazza, ma per me è la cena di stasera” sussurrò il giovane a Spencer quando si avvicinò. “Stai tranquillo, il tuo spettacolo è salvo e anche la cena” lo rassicurò Spencer, poi gli diede delle indicazioni che il giovane eseguì.
    Terminata l’esibizione, la folla esplose in un grande applauso, i due maghi si inchinarono. Mentre il mago passava fra la folla con il cappello per raccogliere le offerte, Spencer si allontanò per raggiungere l’amica che si complimentò con lui per la sua performance. “Grazie” disse ad entrambi il giovane mago, sollevò per qualche secondo il cappello che indossava e poi se ne andò.
    “Lady Madison le andrebbe di andare a cena? Conosco una taverna a pochi passi da qui” le chiese con tono cavalleresco. “Con immenso piacere, accetto il suo invito, sir Reid” gli rispose la rossa. Spencer offrì il braccio e insieme si avviarono verso il ristorante.

    Mentre rientravano dal ristorante furono sorpresi dalla pioggia che li costrinse a correre fino al palazzo.
    Madison giunta al portone si fermò a prendere fiato, stava ansimando. “Sono decisamente fuori allenamento” riconobbe quando fu in grado di parlare mentre Spencer la guardava divertito.
    In quel momento il cielo s’illuminò quasi fosse giorno e dei forti tuoni rimbombarono su tutta Washington. “Caspita, si è scatenato un brutto temporale” commentò Reid. “Meno male che siamo rientrati” aggiunse guardando fuori.
    Madison rimase muta, stava quasi tremando, aveva una paura matta dei temporali fin da quando era piccola, ma non voleva ammetterlo perciò fece finta di niente e si avviò per le scale preceduta dal dottor Reid.
    Giunti al secondo piano, il suo vicino la salutò, augurandole la buonanotte, ma Madison mentì dicendogli che aveva scordato le chiavi di casa nel suo appartamento e doveva salire a prenderle. “Sei sicura?” ribadì confuso l’amico. “Non mi pare di averle viste”
    Madison gli rispose che era sicurissima che fossero di sopra e insieme si avviarono verso l’appartamento di Spencer, non aveva alcuna intenzione di rimanere sola finché il temporale non fosse passato.
    “Le hai trovate?” domandò l’amico, Madison le fece cadere dalla tasca sul divano e poi le alzò facendo finta di averle trovate. “Erano finite fra i cuscini” spiegò.
    Reid le sorrise e le augurò nuovamente la buonanotte convinto che la sua vicina se ne sarebbe andata, Madison rimase sulla porta senza muoversi mentre il genietto la guardava. “Qualcosa non va?” le chiese.
    “Posso dormire con te stanotte?” gli domandò tutto d’un fiato, poi si portò una mano alla bocca; Spencer deglutì e per poco non gli andò la saliva di traverso, una domanda del genere non se l’aspettava minimamente.
    “No, Spence, aspetta. Non in quel senso…” spiegò la rossa mettendo una mano avanti. “Io ho paura dei temporali. Posso restare qui finché passa?”
    Spencer tirò un respiro di sollievo. “Certo, comunque dai, è solo della pioggia, che vuoi che succ..” non finì di dire la frase, che l’appartamento sprofondò nel buio, il temporale aveva fatto saltare la corrente nell’intero isolato.
    Reid lanciò un urlo e scattò in avanti verso Madison. “Che vuoi che succeda, eh?” protestò lei. “A quanto pare, il grande Reid non-ho-paura-dei-temporali ha paura del buio invece” lo accusò lei, non le piaceva essere presa in giro.
    Reid si scusò e le chiese di accompagnarlo in cucina a prendere delle candele, stavano raggiungendo la cucina quando sentirono un rumore alle spalle, d’istinto Madison si aggrappò a Reid che fece altrettanto, aveva decisamente troppo paura pure lui per fare lo spavaldo alla Derek Morgan. “Che cos’è stato?” domandò la rossa con un filo di voce. “Non lo so, ma propongo di rimanere in questa posizione finché non sarà tornata la luce” rispose lui, Madison annuì e strinse ancora di più al dottor Reid.
    Fu in quel momento la luce si accese, Reid si staccò da Madison che teneva gli occhi ancora chiusi. “Hey, era solo un libro. È caduto dalla libreria” le disse lui per farla calmare mostrandole il libro.
    “Posso comunque restare un altro po’ oppure mi cacci?” gli domandò facendo gli occhi da cucciola.
    Reid non riuscì a resistere a quello sguardo, e le disse che poteva restare finché il temporale non fosse passato, Madison gli stampò un bacio rumoroso sulla guancia e si lanciò sul divano. “Che facciamo? Ci guardiamo un film?” propose la ragazza.
    “Mmm...si! Star wars? Ti piace?”, l’amica fece una smorfia di disgusto sottolineando che odiava quella saga, cosa che dispiacque a Spencer, fan appassionato qual era.
    “Che ne dici se guardiamo qualcosa in streaming? Così scegliamo quello che vogliamo!” affermò Madison, sicura che fosse un’ottima idea.
    “Maddie, è illegale” ribadì Spencer. “Ma dai! Neanche fossimo della polizia!” protestò lei.
    “No, sono un agente del F.B.I., che, guarda caso, ha chiuso Megavideo qualche anno fa!” le ricordò lui, a quel punto Madison scoppiò a ridere e rinunciò. Dopo qualche minuto, Spencer si ricordò del dvd che gli era stato regalato qualche anno prima. “Ho un dvd. Dovrebbe essere una commedia, “Tutti pazzi per Mary” mi pare...”
    “Perfetto, Cameron mi piace!” esclamò lei accomodandosi i cuscini dietro la schiena. “Cameron?”
    “Si, Cameron Diaz, l’attrice del film! Charlie’s Angels, The Mask, la voce della principessa Fiona in Shrek …” citò i nomi i film della famosa attrice nella speranza che all’amico si accendesse una lampadina, ma questo continuò a non capire di chi si stesse parlando, Madison roteò gli occhi ed infine gli disse di mettere il film. Spencer obbedì e si sedette vicino a lei mentre fuori continuava a piovere a dirotto.
    Spencer rise per una battuta e si girò verso Madison commentandola quando si rese conto che l’amica si era addormentata, perciò spense la tv e le diede una leggera scossa perché si svegliasse. “Maddie… Il temporale è passato, vuoi che ti accompagni giù?” le domandò una volta che la rossa aprì gli occhi.
    “E’ finito il film?” gli domandò con la voce impastata dal sonno. “Non proprio, ma tu eri più interessata a intrattenere rapporti con Morfeo che a guardarlo, perciò ho spento” rispose divertito Spencer aggiungendo che si era addormentata proprio sulla scena più bella.
    Madison si alzò dal divano e con gli occhi ancori chiusi gli diede un bacio sulla guancia per augurarle la buonanotte sfiorando involontariamente troppo da vicino l’angolo della bocca di Reid, le cui guancia avvamparono, provocando una risata alla vicina.
    “Sembri un ragazzino che ha ricevuto il suo primo bacio” lo scherzò lei.
    Spencer la guardò storto. “Torna nel mondo di Morfeo, stai dicendo troppe cavolate” replicò risentito.
    Madison rise ancora una volta e si avviò verso la porta. “Comunque Mary sceglie Ted alla fine” disse lei svelando il finale prima di lasciare l’amico, che le tirò un cuscino addosso accusandola di avergli rovinato il film, colpendo però la porta che era stata velocemente chiusa dalla ragazza.


    “Doppio appuntamento”




    “E’ arrivato un ragazzo questa mattina, Tom Collins, ha 27 anni, fa il cameriere in un ristorante di classe “Chez Martin” dichiarò il dottor Brown entrando nella sala in cui erano riuniti i suoi collaboratori.
    “Caspita! Si farà delle belle mance in quel posto” commentò Perkins, attirando su di sé gli sguardi storti dei colleghi, era solito interrompere per fare dei commenti del tutto fuori luogo, il dottore alzò le mani in segno di scusa e promise di non dire più nulla.
    “Il ragazzo è stato portato in pronto soccorso dalla sua fidanzata dopo che ha vomitato sangue per una buona mezz’ora” continuò Brown mentre i tre lo ascoltavano prestando la massima attenzione.
    “Qual è la diagnosi dei medici del PS?” domandò la dottoressa Andrews riportando la conversazione su Tom Collins.
    “Il medico del PS che lo ha visitato non ha la più pallida idea di cosa possa averlo colpito.” riferì Brown mostrando la cartella che il medico del PS aveva scarabocchiato.
    “Andate lui e cercate di scoprire quanto più possibile.” continuò l’uomo, i tre scattarono in piedi e si avviarono verso la porta. Prima che Madison potesse uscire dalla sala, il dottor Brown si rivolse a lei: “Thompson, tu rimani qui. Ho un altro caso per te”.
    “Un caso da sola?” domandò stranita lei, era entrata a far parte del team da poco più di mese, non si sentiva ancora in grado di affrontare un caso senza il supporto dei suoi colleghi. “Sono sicuro che te la caverai” affermò con sicurezza il dottor Brown, infine consegnò la cartella a Madison, che ancora incredula continuava a fissarlo, e uscì anche lui per raggiungere i suoi collaboratori.
    Madison si sedette sul tavolo e aprì la cartella; la paziente era una ragazzina di 14 anni residente nella città di Washington, era stata portata in ospedale in preda a forti allucinazioni e febbre alta.
    “Si tratterà di qualche malattia infettiva” pensò Madison ad una prima lettura delle analisi del sangue. Uscì dalla sala anche lei e si recò dalla giovane paziente.
    “Salve, sono la dottoressa Thompson” si presentò entrando nella stanza, subito i genitori si avvicinarono e le chiesero se sapeva cosa avesse.
    “Purtroppo no, le analisi ancora non sono arrivate. Ma ho il sospetto che si tratti di qualche infezione, vedrete che sarà una cosa da nulla” li tranquillizzò Madison, poi controllo i parametri della ragazzina che le sembrarono apparentemente normali e si congedò dopo aver fatto qualche domanda alla ragazzina, che la raccontò di essere stata in campeggio di recente. Mentre raggiungeva di nuovo la sala, un’infermiera la raggiunse consegnandole il resto delle analisi, “Il dottor Brown gliele manda, ha detto che si era scordato di portargliele” spiegò prima di allontanarsi.
    Madison le diede un’occhiata alle altre analisi che lo stesso dottor Brown aveva ordinato quella mattina stessa, che le confermarono quanto aveva dedotto; si trattava di un’infezione da batterio che poteva essere stato contrattato facilmente durante la sua escursione. Tuttavia le allucinazioni erano un sintomo anomalo che non riusciva ancora a spiegarsi, stava ricostruendo la cartella che aveva letto un’ora prima nella sua testa quando entrò nella sala dove i suoi colleghi discutevano del caso loro assegnato.
    “Abbiamo fatto ogni possibile analisi, non riesco a capire” disse Brown continuando a rileggere la cartella “Non so, c’è qualcosa che non mi convince” sottolineò Perkins.
    “Thompson, tu che ne pensi? Cosa può essere?” chiese alla nuova collaboratrice che con aria assente continuava a pensare al suo caso. “Uh, non saprei. Un tumore?” ipotizzò lei, Jennifer spiegò che quell’ipotesi era stata scartata. “E se fosse avvelenamento da radiazioni?”
    “La sua fidanzata non presenta alcun sintomo, come può essere lui soggetto ad avvelenamento da radiazioni, e lei no?” insistette Jennifer.
    “Magari è dovuto all’ambiente in cui lavora” suggerì Madison, a quel punto il dottor Brown inviò i due collaboratori a visitare il noto ristorante francese.
    “Come va con il caso?” le domandò il dottor Brown non appena rimasero da soli. “Bene, ho scoperto che si tratta di un’infezione da batterio. Insomma, un po’ di medicine e starà bene” rispose Madison, anche se non era convinta, non era ancora riuscita a dare una spiegazione alle allucinazioni.
    “Ma le allucinazioni? A cosa sarebbero dovute? Non può essere solo a causa della febbre alta” replicò il dottor Brown, la giovane dottoressa rispose che anche lei era dubbiosa e così il dottor Brown le suggerì una tac, “Se si tratta di un problema a livello neurologico, di sicuro così lo saprai” poi uscì, aveva un appuntamento con il direttore dell’ospedale.

    Madison spiegò ai genitori che doveva sottoporre la figlia ad una tac, descrisse il tipo d’esame alla ragazzina, che non ne aveva mai sostenuto uno e la condusse nella sala mentre i genitori aspettavano fuori.
    “Ci siamo, che il cervello ci illumini la strada” disse il tecnico che svolgeva lo studio insieme a Madison, un uomo molto strano ma simpatico. “Stai ferma, mi raccomando. Ci vorranno solo pochi minuti” raccomandò la dottoressa Thompson alla ragazzina che urlò un “ok” da dentro il macchinario.
    Dopo circa cinque minuti, la causa delle allucinazioni della paziente fu chiara. “Oh no” affermò Madison non appena si accorse che si tratta di tumore al cervello in fase terminale.
    Il tecnico spense il microfono e fece uscire la ragazzina che fu accompagnata dai genitori da un’infermiera. “Difficile dare le brutte notizie, eh?” le domandò l’uomo notando l’espressione rammaricata di Madison.
    “Difficile soprattutto quando si tratta di una ragazzina di 14 anni e tu non lo hai mai fatto” rispose lei, appoggiò la testa contro il muro, si sentiva sconfitta anche se sapeva che non era di certo colpa sua.
    “Dovrai occupartene tu per forza? Oppure magari il dottor Brown può dare la notizia alla famiglia?”
    “Non so, forse il dottor Brown può farlo, anche se il caso è mio.” Si illuse Madison, poi si congedò dal tecnico e andò a parlare con il dottor Brown evitando i genitori della ragazzina affinché non le venissero rivolte altre domande.

    “Avevi ragione tu Thompson. Si trattava di avvelenamento da radiazioni. A quanto pare il ristorante francese non aveva alcun problema, ma il paziente era stato di recente licenziato dal ristorante dopo un litigio con un cliente e, di nascosto dalla fidanzata, si era procurato un altro lavoro a nero, poco sicuro in una fabbrica, dove è entrato in esposizione alle radiazioni” le riferì il dottor Brown non appena la vide.
    “La mia paziente ha un tumore al cervello, le rimangono circa 2 settimane di vita” disse lei ignorando quanto le aveva detto il dottor Brown.
    “Brutto affare. I genitori come l’hanno presa?” le domandò l’uomo, Madison gli confessò che non aveva ancora parlato con loro e che sperava che fosse lui a farlo.
    “Non si può fare Thompson, questo è il tuo caso e la tua paziente. Te ne dovrai occupare tu” rispose freddo il suo capo. Fu in quel momento che Madison capì che il dottor Brown era a conoscenza del tumore della sua paziente. “Tu lo sapevi!” lo accusò.
    “No, non lo sapevo. L’ho pensato, ma non ne avevo la certezza” ammise lui. “Thompson, il nostro lavoro a volte ci richiede di dare notizie che mai vorremmo dare, ma purtroppo noi siamo i dottori e non ci possiamo tirare indietro” la confortò notando l’espressione smarrita di Madison.
    “Madison non sarà né la prima e né l’ultima, purtroppo, paziente a cui dovrai fare una simile comunicazione. Ti ci dovrai abituare perciò ora vai e parla con loro”
    Madison sospirò, sapeva che era inutile discutere con il dottor Brown quindi smise di provarci e gli disse che lo avrebbe fatto. “In ogni caso, ottimo lavoro. Hai risolto due casi oggi” si complimentò l’uomo prima che uscisse dalla sala.
    Madison si girò e abbozzò un sorriso. “Uno avrei preferito non risolverlo” rispose, poi chiuse la porta e si avviò a passo sostenuto verso la stanza della quattordicenne.
    Intravide la propria immagine riflessa alla vetrata della stanza; “Sembro un fantasma!” si disse guardandosi, si ravvivò i capelli e si pizzicò le guancie perché avessero un colorito diverso dal bianco pallido, infine fece un respiro profondo e richiamò l’attenzione dei genitori affinché uscissero dalla stanza.
    “Dottoressa? Qualcosa non va?” domandò il padre della paziente notando l’espressione sconsolata della giovane.
    “Signori Field, mi dispiace, non è facile quello che sto per dirvi. Vostra figlia ha un tumore al cervello, è in fase terminale. Non possiamo fare più nulla”
    Madison poté vedere come possa per qualcuno crollare tutto in pochi secondi, e si sentì colpevole dell’accaduto, come l’antagonista di una fiaba che cospira contro la coppia per impedire il lieto fine. Tutto si svolse rapidamente, la madre scoppiò in singhiozzi, le mancava il respiro perciò fu costretta ad allontanarsi con il sostegno di un’infermiera, che si prese subito cura della donna. Il padre rimase in silenzio davanti a Madison, che provò a dargli in qualche modo conforto sottolineando più volte che loro non avevano colpe e che c’era alcun modo per loro di venirne a conoscenza prima di quel momento. L’uomo annuì con scarsa convinzione e si scusò dicendole che doveva raggiungere la moglie; Madison sentì i suoi occhi inumidire e una mano posarsi sulla spalla, era il dottor Brown. “Non è colpa tua, anzi non è colpa di nessuno” la confortò l’uomo, capiva come si potesse sentire in quei momenti. Aveva esperienza sul campo, ma dare la brutta notizia che cambia la vita non diventa mai facile, neanche dopo anni di esperienza.
    “Ora vado a casa” gli comunicò Madison poi consegnò la cartella che il dottor Brown prese subito in custodia ed infine lo salutò.
    Non si preoccupò nemmeno di cambiarsi, voleva solo uscire dall’ospedale. Era seduta sul sedile della sua auto, con le mani posate sul volante e lo sguardo fisso in avanti quando il suo cellulare prese a squillare. Controllò il display e lesse il nome della sua vecchia compagna del college, Paget, che l’aveva ospitata nelle sue prime settimane a Washington.
    “Hey dolcezza” la salutò con tono un po’ smorto. “Maddie, tutto ok? Sembri un po’, come dire, morta?” risuonò la voce squillante dell’amica.
    “Ehm.. si. È stata una lunga e brutta giornata, tutto qui” spiegò velocemente. “Bene, allora la mia proposta non potrà che farti piacere”. Madison rimase un attimo incerta, le proposte di Paget avevano sempre a che fare con due cose: lo shopping e le feste.
    “Andiamo ad una festa” annunciò vittoriosa confermando la seconda ipotesi della giovane dottoressa, che immaginò l’amica mentre faceva il suo solito sorriso malizioso. Per Paget andare ad una festa significava anche rimorchiare.
    “Non so se sono dell’umore adatto”. Provò a giustificarsi, ma non c’era nulla da fare, l’amica aveva deciso: quella sera sarebbero uscite e non avrebbe rinunciato finché Madison non avesse accettato.
    Dopo diversi minuti d’insistenze, Thompson accettò. “Mi passi a prendere tu alle dieci? La mia macchina languisce dal meccanico” chiese Paget prima di chiudere la conversazione.
    “Certo”. Riattaccò e mise in moto il veicolo.

    Era appena scesa dall’auto quando vide il dottor Reid intento a rovistare nella sua tracolla alla ricerca di qualcosa davanti al portone del palazzo. “Perso qualcosa?” gli domandò arrivata dietro alle sue spalle.
    Spencer si girò e le sorrise. “Le chiavi, mi sa che le ho scordate” le disse senza smettere di cercarle.
    “Dai, ti apro io”. Aprì il portone ed insieme si avviarono per le scale. “Tutto bene?” domandò lui dopo aver notato l’ espressione assente della vicina.
    “Ho detto ad una ragazzina di 14 anni che ha due settimane di vita” rispose d’un fiato. Spencer annuì e non fece commenti, anche lui detestava dare quel genere di notizie, per sua fortuna nella maggior parte dei casi, se ne occupava JJ, ma quelle poche volte che era toccato a lui dare la brutta notizia si era sentito a pezzi dopo.
    Arrivati al secondo piano, Madison si scusò con lui dicendogli che aveva un appuntamento e che doveva essere pronta nel giro di due ore. “Un appuntamento?” chiese Spencer curioso. Non pensava che si frequentasse con qualcuno e quell’annuncio lo sorprese.
    “Sì, con un’amica” riferì la giovane, a quel punto lo salutò nuovamente ed entrò nel suo appartamento.
    Spencer continuò a salire le scale, senza smettere di pensare al presunto appuntamento della vicina; gli aveva detto che si trattava di un’amica, e se gli avesse mentito?
    “Che importa se mi ha mentito? Sono affari suoi se ha una storia” disse a se stesso mentre cercava la chiave di riserva sotto uno dei vasi di piante che teneva nell’ingresso. “Parli da solo, ragazzo?” gli domandò il signor Chester divertito mentre tirava una boccata di fumo dalla pipa, stava annaffiando le proprie piante. Spencer trasalì al sentire la sua voce e rimase in silenzio, il vecchio vicino lo metteva sempre in imbarazzo.
    L’uomo scosse la testa e tirò un sospiro. “Le donne, eh? Difficile vivere con loro, ma forse è ancora più difficile vivere senza” dichiarò il signor Chester con tono un po’ malinconico.
    “Lei è sposato signor Chester?” si trovò a domandargli Spencer, fu una domanda di getto. Non aveva mai parlato con il vicino, a parte quella volta dei muffin.
    “Si, lo ero. Con Sue, una donna meravigliosa la mia Sue”. Spencer notò una punta di nostalgia nella voce del vicino, doveva averla amata moltissimo. “E’ morta cinque anni fa. La leucemia me l’ha portata via”
    “Mi dispiace” gli disse il giovane. Il signor Chester fece spallucce e gli rivolse un sorriso.
    “Allora è la misteriosa giovane dei muffin a darti problemi?”
    Il dottor Reid aprì la bocca per negare, ma le parole gli rimasero intrappolate in gola, perciò annuì, d’altronde che senso aveva negare la cosa?
    Il vecchio gli fece l’occhiolino. “E’ molto carina, dovresti provarci”, infine gli disse che era arrivato il momento della medicina e rientrò in casa, seguito da Spencer che entrò nel suo appartamento.
    Posò la tracolla sul divano e si precipitò sul telefono. “Morgan, hai impegni stasera?” domandò all’agente senza dargli nemmeno il tempo di rispondergli.
    “Wow, che è successo?” lo scherzò incredulo Derek, una simile iniziativa non era usuale da parte del dottor Reid.
    “Allora usciamo?” ripeté Reid ignorando la domanda di Derek, che accettò informandolo che sarebbe passato a prenderlo per le dieci.
    “Chissà che intenzioni ha” si chiese Derek dopo aver chiuso la telefonata, poi andò a farsi una doccia. Doveva mettersi in tiro, aveva ottimi presentimenti per quella serata.

    Un’ora dopo la bizzarra chiamata di Spencer al suo collega, Madison bussava alla porta dell’amica con una ciocca di capelli in mano. “Sei in anticipo di mezz’ora” le disse l’amica dopo averle aperto in accappatoio.
    “Lo so, mi devi applicare queste”. Scosse le extensions davanti al viso ed entrò.
    “Meglio il vestito rosso con lo scollo a v o quello nero paillettato?” le domandò Paget mostrando i due vestiti appoggiati sul letto all’amica.
    “Paillette” affermò Madison, che si accomodò sulla sedia davanti alla toeletta dell’amica mentre questa si cambiava.
    Si guardò allo specchio, non era molto soddisfatta del modo in cui si era truccata, ma non aveva voglia di rifarlo perciò decise di accontentarsi. “Ho esagerato con il trucco?” chiese all’amica quando apparve dietro di lei.
    “Sei perfetta”. Le sorrise e iniziò a spazzolare i capelli dell’amica all’indietro per racchiuderli in una coda di cavallo.
    Le applicò le extensions e poi la voltò verso di lei. “Sai che cosa ti ci vuole? A parte un uomo, ovviamente”
    Madison fece una smorfia, odiava Paget quando s’intrometteva nei suoi love affairs, anche se ammetteva che non aveva tutti i torti.
    “Un po’ di rossetto rosso!” esclamò l’amica, poi prese il rossetto e con un pennellino glielo applicò sulle labbra.
    “Magnifica” le fece un sorriso malizioso e l’aiutò ad alzarsi. “Oggi vedrai che il mondo sarà ai tuoi piedi, anzi ai nostri” dichiarò mentre Madison rideva.
    “Che la serata abbia inizio” disse Madison mentre metteva in moto l’auto. Paget accese lo stereo e lanciò uno sguardo d’intesa all’amica. “No, tesoro, che la caccia abbia inizio” la corresse.

    Non appena arrivarono alla festa, furono adocchiate da un gruppetto di tre trentenni che si avvicinarono offrendo loro qualcosa da bere, che entrambe rifiutarono. “Allora ragazze di dove siete?” chiese uno di loro, non erano intenzionati a mollare la presa.
    Paget rispose per entrambe dicendo che abitavano a Washington ma che in realtà nessuna di loro due era nativa del posto, la conversazione andò avanti per un po’ senza la partecipazione di Madison che scrutava il locale alla ricerca di una via di fuga; quel gruppetto non le ispirava affatto simpatia.
    Fu in quel momento che intravide l’agente Morgan e il suo vicino entrare nel locale, che notarono subito la dottoressa a loro volta. “Proprio nel momento giusto!” pensò, entrambi la salutarono da lontano e Madison fece segno di avvicinarsi con un cenno del capo. Derek intuì immediatamente che doveva intervenire per allontanare gli ospiti indesiderati.
    “Ragazze qualcosa non va?” domandò Derek con tono protettivo quando fu davanti a loro. Il trio non appena vide l’agente Morgan si scusò dicendo che non stavano facendo nulla per poi dileguarsi rapidamente fra la folla.
    “Hey! chi vi ha chiamato?” urlò Paget, poi si voltò per continuare la ramanzina che le morì in gola quando fu davanti all’agente Morgan. “Chi sono i tuoi amici, Maddie?” domandò all’amica lanciando uno sguardo malizioso all’agente di colore. “Lui è Derek Morgan, il mio amico, ricordi? E lui è il mio vicino di casa, Spencer. Sono colleghi, lavorano entrambi per l’F.B.I.” li presentò Madison.
    Paget offrì la mano all’agente Morgan, che gliela baciò, ignorando del tutto Spencer, sul cui volto si dipinse un’espressione stranita che fece ridere Madison. “Piacere” sussurrò Derek con voce suadente.
    “Io sono Paget, una ex compagna di college di Madison” si presentò da sola la giovane donna senza dare il tempo a Madison per farlo. “Anche tu sei un medico?” le domandò Spencer ignorando gli sguardi intensi fra i due.
    “Oh no, ho abbandonato il college, ora faccio l’educatrice di bambini” disse in risposta alla domanda del dottor Reid senza smettere però di fissare il suo collega. “Soprattutto di bambini cattivi” aggiunse mordicchiandosi le labbra mentre l’agente Morgan le sorrideva.
    “Ok, forse è meglio che andiamo a prendere qualcosa da bere” affermò Madison dopo aver notato gli sguardi che si lanciavano i due, prese per un braccio il dottor Reid che protestava perché lui non voleva nulla da bere.
    “Va bene, non bere niente però lasciali da soli” gli disse all’orecchio Madison quando furono lontani dai due che nel frattempo si erano spostati verso uno dei tanti divani che arredavano la sala.
    “Perché?”. Non capiva il motivo di quella riservatezza, non si conoscevano nemmeno.
    “Davvero non lo hai capito?” domandò lei scandalizzata. Possibile che non avesse capito?
    Reid scosse la testa, rivelando di essere più confuso di prima. “Paget ci ha provato spudoratamente con Derek e lui sembra che ci sta” gli spiegò incredula che non avesse colto le intenzioni dell’amica, era stata così esplicita. “Davvero non lo avevi capito?”
    Spencer annuì riconoscendo che non era molto bravo a decifrare quei tipi di comportamenti, Madison rise. “Svegliati allora!” lo scherzò dandoli una leggera spinta, poi si sedette ad uno degli sgabelli del bancone del bar invitandolo a seguirla e ordinò una birra per entrambi.
    “Vedi la tizia seduta al terzo sgabello? Ti sta fissando da quando ti sei seduto!” gli disse mentre sorseggiava la birra indicandola il mignolo in modo che la donna non se ne accorgesse.
    “Ma chi quella mora?” le chiese sporgendosi in maniera troppo evidente e attirando su di sé gli sguardi della donna.
    Madison lo guardò storto e lo rimproverò . “Si, lei. Non ti sporgere troppo però”
    “Secondo me pensa che stiamo insieme” disse divertita. “Facciamoglielo credere, sempre se non ti interessa”
    Spencer scosse la testa, e le domandò cosa intendesse fare. “Ora vedrai” rispose la rossa e si alzò diretta verso la donna che la guardava di sottecchi.
    Madison le porse una fotocamera che prese dalla borsa. “Scusami, ti spiace fare una foto una foto a me e al mio fidanzato?”
    “Certo, nessun problema”. Le strappò la fotocamera di mano e si alzò dallo sgabello.
    “Amore, vieni” lo chiamò Madison, Spencer scosse la testa pensando che la sua vicina fosse una pazza.
    Quando fu accanto a lei, la giovane dottoressa gli prese un braccio e lo posò attorno alle spalle, mentre lei lo abbracciava in vita. “Vado?” domandò stizzita la donna sbattendo un piede come per sottolineare che aveva fretta.
    Madison annuì e, non appena la donna scattò la foto, stampò un bacio sulla guancia di Reid; “Va bene?” chiese ai due porgendo la fotocamera a Madison che si era sciolta dalla posa assunta.
    “E’ perfetta, grazie”. La donna fece un cenno con la mano e tornò a sedersi.
    “Andiamo via?” propose Madison mentre rimetteva la fotocamera dentro la pochette.
    “Ma io sono in macchina con Derek”
    “Non credo che ti convenga aspettarlo. Ti darò un passaggio io”. Poi uscirono insieme dal locale e si avviarono verso il corso principale.
    “Ho davvero una gran fame” disse Madison mentre passeggiavano. “Ho voglia di dolci” aggiunse dopo una breve pausa di riflessione.
    “Mmm, ci dovrebbe essere un bar aperto tutta la notte a pochi isolati di qui, se vuoi, ci andiamo” le propose Spencer, Madison annuì entusiasta e lo prese a braccetto.

    “Secondo te passeranno la notte insieme?” domandò Spencer all’amica pentendosi quasi subito di averlo fatto mentre aspettavano le loro ordinazioni seduti ad un tavolino. Madison fece spallucce. “Può darsi, chi lo sa”
    Nel frattempo, la cameriera posò sul tavolino due fette di cheesecake al cioccolato guarnito con sciroppo di fragole.
    Madison prese la forchetta e l’affondò subito nel dessert. “Gnam! E’ squisito” esclamò dopo aver dato il primo morso.
    Spencer le sorrise, sembrava una bambina in quel momento. “Certe volte mi chiedo come faccia, io non ci riesco” disse il giovane, Madison gli domandò se stesse sempre parlando di Derek e il suo vicino annuì.
    Madison posò la forchetta abbandonando per un attimo lo squisito dessert. “Spencer, prima hai avuto la dimostrazione che anche tu fai colpo! E chissà quante volte sarà successo senza che tu te ne accorgessi”
    Notò l’espressione poco convinta dell’amico che continuava a giocare con il proprio cheesecake, allora si alzò e si sedette accanto a lui, che abbassò la testa evitando di guardarla negli occhi.
    “Hey, guardami”, Spencer si girò e Madison le mostrò la fotografia che aveva scattato prima al locale.
    “Guardati! Sei carino e hai davvero un bel sorriso, più bello di quello di Derek” gli disse, non stava mentendo, lo pensava veramente.
    Spencer arrossì, non riceveva un complimento dai tempi delle telefonate con Maeve, ricordo che lo rattristì, ma preferì fare finta di nulla. Non voleva parlarne con Madison in quel momento.
    “Anche tu sei molto bella”. Le fece un complimento a sua volta.
    “Ma quello lo sapevo già” lo scherzò lei, tornando a sedersi al suo posto. “Ora possiamo goderci questa delizia senza farci più ingrippi mentali?”.
    Spencer annuì divertito e promise che avrebbe fatto del suo meglio, poi prese la forchetta e assaggiò il dolce. “Hai ragione, è buonissimo!” esclamò deliziato. “Dobbiamo ordinare assolutamente un'altra fetta”
    Convennero entrambi che quello era il cheesecake più buono di sempre, e che quel bar d’ora in avanti sarebbe diventato il loro preferito. “Sarà il nostro posto” disse Madison mettendogli un abbraccio attorno al collo mentre uscivano dal locale, e infine s’incamminarono verso casa insieme.


    “Per il piacere di uccidere (parte 1)”



    “Che diavolo di suoneria hai?” domandò Paget a Derek mentre questi con gli occhi ancora chiusi cercava il cellulare tastando il comodino. “Rispondi, ti prego” lo esortò la donna; la mattina era il momento della giornata che odiava di più ed essere svegliata da una suoneria improbabile non lo rendeva di certo migliore.
    Avevano passato una magnifica notte insieme e Derek progettava di passare un’altra magnifica mattinata, ma quella chiamata di sabato mattina aveva rovinato i suoi piani. Aprì gli occhi rassegnato e si alzò di controvoglia offrendo lo spettacolo di se stesso con indosso soltanto i boxer a Paget che in quel momento pensò che forse quella mattina non era poi così male.
    “Agente Morgan” rispose serio l’uomo di colore dopo che riuscì a trovare il cellulare nascosto sotto i suoi stessi vestiti. “Arrivo”. Riattaccò e iniziò a vestirsi. “Hey, cosa fai? Mi piaceva guardarti” affermò la mora mordendosi un labbro.
    “Mi dispiace, piccola. Ma devo scappare”. Finì di vestirsi e lanciò un bacio in direzione di Paget che continuava a lamentarsi.
    “Chiamami!” urlò lei per poi tornare a sonnecchiare mentre l’agente Morgan usciva dalla casa della sua nuova conquista.

    Le porte dell’ascensore si aprirono su un’open space vuoto e silenzioso, Morgan gettò un’occhiata verso l’ufficio di Hotch e notò la figura del loro agente supervisore china sulla scrivania. In quel momento le porte dell’ascensore si aprirono nuovamente, erano Reid e l’agente Rossi. “Fatto le ore piccole ieri?” domandò l’agente di origini italiane notando l’espressione assonnata dell’agente di colore che annuì. “Una notte senza precedenti, ma forse non sono stato il solo” aggiunse, indicò Spencer e fece l’occhiolino a Rossi che rise guardando il dottor Reid che arrossì violentemente e scappò dicendo ai due che aveva bisogno di una tazza di caffè.
    “Reid, che ti prende? Scappi?” domandò Morgan seguendolo in cucina. “No, nulla. Volevo il caffè, vedi?” indicò la tazza e cominciò a sorseggiare il caffè che era bollente e gli bruciò la lingua.
    Derek rise. “Dalla tua reazione sembrerebbe il contrario. E in ogni caso sei sparito ieri sera, non che non mi abbia fatto piacere, se mi capisci… -fece una breve pausa e Spencer annuì- ma mi chiedevo che fine avessi fatto”
    Reid posò la tazza sul tavolino. “Siamo andati via, abbiamo mangiato del cheesecake e siamo tornati a casa. Tutto qui”
    “Tutto qui?” domandò poco convinto l’uomo di colore fissando l’amico per cercare di capire se mentiva. Il dottor Reid fece spallucce e ribadì quanto aveva riferito.
    “La richiamerai?” gli domandò Spencer mentre si recavano nell’0pen space. “Penso di si, mi piace Paget”
    “Ragazzi, dobbiamo correre in sala riunioni, Hotch e JJ sono già lì” li informò Rossi interrompendo la loro conversazione.
    Penelope fece il suo ingresso in sala riunioni sfoggiando un vestito di un insolito colore giallo e con fiore abbinato fra i capelli. “Allora, queste sono le foto che sono state scattate poco fa della polizia di Las Vegas. Io mi rifiuto di guardarle” dichiarò rimanendo sempre di spalle al proiettore.
    “Sono stati trovati tre corpi finora. Abby Brooks, 35 anni, insegnante nella scuola elementare O’ Roarke di Las Vegas, Mark Humphrey, 53 anni, cardiologo nell’ospedale Sunrise della città e Jonathan Ramirez, 27 anni, cameriere in uno dei tanti casinò” introdusse il caso JJ mentre scorrevano le immagini sul proiettore.
    “La vittimologia è confusa. Queste persone non sembrano avere nulla in comune, se non la città di residenza” commentò Reid, leggendo velocemente le informazioni ricavate sulla vita delle tre vittime.
    “Sembra che vengano scelte a caso. Quindi lo scopo potrebbe essere uccidere per il piacere di farlo?” ipotizzò il giovane.
    “Può darsi. Del modus operandi che sappiamo?” domandò Rossi. “Annie Brooks è stata uccisa con un colpo di pistola alla tempia dopo essere stata torturata e picchiata, riportava segni di bruciature di sigaretta, nonché lividi, su tutto il corpo, specialmente sui seni” illustrò JJ mostrando lei le immagini del corpo deturpato di Brooks. Garcia fece un’espressione di disgusto e uscì dalla sala.
    “Mark Humphrey è morto dissanguato dopo che si è amputato un braccio” continuò la bionda, stava per terminare la propria narrazione con il caso di Ramirez quando Derek la interruppe.
    “Aspetta, si è amputato un braccio?” domandò l’agente Morgan con evidente stupore, JJ annuì e spiegò che era stato dedotto dal medico legale dopo aver considerato l’angolazione con cui era stata compiuta l’amputazione.
    “Questo è pure sadismo. Magari la vittima sperava che amputandosi il braccio sarebbe riuscito a fuggire?” suggerì Blake dopo una breve riflessione, ipotesi che sembrò trovare l’accordo dei suoi colleghi.
    “Infine Jonathan Ramirez è morto per asfissia. È stato soffocato con una busta di plastica, come potete vedere. Il medico legale nel rapporto ha aggiunto che non ha rilevato alcun segno di tortura sul corpo” terminò il proprio racconto JJ.
    Reid rabbrividì. “A parte Ramirez, le altre due vittime sono state evidentemente uccise da un soggetto violento, che prova piacere nell’infliggere dolore. Ma qualcosa mi dice che non si tratti della stessa persona. La prima vittima è stata torturata, mentre la seconda è stata costretta ad auto infliggersi dolore. L’SI in quel caso era spettatore e carnefice, mentre nel primo caso era solo il carnefice” espose la propria tesi il giovane agente.
    “Non può trattarsi della stessa persona. Anche il modo in cui è stato uccisa la prima vittima è strano; un colpo di pistola è molto impersonale, dopo una simile tortura. Come se provasse piacere nella tortura, ma non nell’uccisione in sé e per sé. Invece la seconda vittima si è spenta poco a poco e se la teoria di Reid è valida, molto probabilmente l’SI era rimasto lì a guardarla.” dedusse Rossi.
    “Quindi siamo di fronte a trio di assassini?” domandò JJ stupita.
    “E’ probabile. Decolliamo fra un quarto d’ora” annunciò Hotch.


    “I nostri assassini sembrano invece avere un punto d’accordo nel modo in cui si sbarazzano dei corpi. Tutte e tre le vittime sono state rinvenute nella propria auto nel posto in cui sono state viste vive per l’ultima volta questa mattina” spiegò Rossi mentre erano seduti sui divani del jet privato diretto a Las Vegas.
    “Quindi i nostri assassini le catturano e una volta uccise le riportano nel luogo della cattura. Dove sono state trovate le vittime?” chiese Hotch a Garcia che era in collegamento con loro.
    “Ramirez nel parcheggio del casinò dove lavorava, Brooks fuori da un supermercato, dentro la sua auto sono state trovate le buste della spesa, e infine Humphrey è stato trovato fuori da un teatro. E’ stato rinvenuto un biglietto dello spettacolo “Madame Bovary”, attualmente in scena nel teatro e opera che io detesto, a dire il vero non sopporto proprio quel tipo di..”
    “Garcia” la richiamò Hotch distogliendola dal suo monologo. “Scusi signore. Dicevo che è stato trovato un biglietto nella sua giacca” concluse la donna. “Secondo le dichiarazioni dei parenti delle vittime, Brooks era solita fare la spesa il venerdì dopo il lavoro, usciva ogni giorno alle 18,30, ma ieri dei colleghi hanno riferito che è rimasta almeno fino alle venti in ufficio, mentre Ramirez aveva finito il proprio turno di lavoro alle 22,30 e lo spettacolo di Humphrey era finito alle 21,40” lesse Blake.
    “Bene, Garcia fatti mandare le registrazioni possibili dei luoghi del ritrovamento e analizzale, magari riusciamo ad individuare qualcosa di strano.” ordinò Hotch all’analista informatica che si mise subito al lavoro.
    “JJ dovrai parlare con i parenti delle vittime, chissà che loro non sappiano qualcosa di più che magari è sfuggito in un primo colloquio” disse Hotch, la donna annuì.
    “Reid e Rossi, voi due andate dal medico legale, mentre Morgan e Blake andranno sulla scena del ritrovamento del corpo. Cominceremo dalla prima vittima” finì di smistare i propri agenti e rimase in silenzio.
    Un brutto presentimento s’insinuava nella testa dell’agente supervisore della B.A.U.

    Nel frattempo, lontano dalla squadra della B.A.U e dagli oscuri pensieri che si facevano strada nella mente di Aaron Hotchner, la dottoressa Thompson si versava una tazza di caffè. Si era svegliata da poco, quella mattina era intenzionata a fare un po’ di jogging; la corsetta del giorno del temporale con il suo vicino l’aveva messa di fronte alla consapevolezza che era decisamente fuori allenamento quindi doveva assolutamente rimediare.
    Aveva appena finito di cambiarsi quando il citofonò suonò. “Chi è?” chiese con stupore, non riceveva molte visite nel suo appartamento.
    “Sono Paget, Thompson. Mi apri?” rispose l’amica mora con la sua solita voce squillante. “Subito” e premette il tasto per l’apertura del citofono.
    Qualche minuto più tardi, l’amica entrò nell’appartamento e saltò sulla poltrona. “Io adoro i tuoi amici” esclamò una volta ottenuta l’attenzione totale di Madison.
    “Nottata piacevole?” dedusse Madison dato l’entusiasmo percepibile nella voce dell’amica che annuì.
    “Stamattina però è fuggito di tutta fretta” si lamentò la donna incrociando le braccia per evidenziare la sua delusione.
    “Sarà andato a lavorare. E’ un agente dell’F.B.I., per loro non esistono i festivi” rispose andando in cucina.
    “Vuoi una tazza di caffè?” urlò dalla cucina, Paget accettò e si alzò per raggiungere l’amica.
    “Tu invece che hai fatto? Sei stata con il biondino?” le domandò con un tono leggermente malizioso.
    “No, Paget, non sono stata con il biondino” rispose stizzita la rossa.
    Paget rise e le domandò se per caso aveva lei la sua fotocamera. “Si, si. È qui” confermò Madison e andò a prenderla nella pochette. “Eccola” gliela porse e tornò a sedersi sulla sedia di fronte all’amica.
    “Hai scattato una foto! Sai, siete carini insieme” affermò l’amica guardando la fotografia che avevano scattato i due la sera prima. “C’è qualcosa in ognuno di voi che ricorda qualcosa dell’altro” proseguì concentrandosi sulla fotografia.
    Madison rise. “Come sei poetica” la scherzò, Paget fece una smorfia e mise la fotocamera nella borsa.
    “Credi che mi chiamerà il tuo amico?” le domandò tornando seria.
    “Derek? Perché non dovrebbe?”
    “Non lo so, magari non gli interesso. Tu sei sua amica! Che tipo è? Non è che sei stata insieme a lui, vero?” chiese sporgendosi verso di lei con espressione minacciosa.
    “No, tranquilla. Tra me e Derek non c’è stato mai niente, a parte una sincera amicizia. Ci siamo conosciuti qualche anno fa quando io lavoravo con Derrick” spiegò l’amica.
    Paget sospirò pensando a Derrick. “Ah, l’agente Derrick! Un gran figo”.
    Madison scosse la testa, ammettendo però che aveva ragione. “Dovevi metterti insieme a lui e non insieme a quel bastardo di Van der Meer” sottolineò l’amica che ancora nutriva un profondo odio nei confronti dell’ex fidanzato della giovane dottoressa.
    “Mason è stato un errore” riconobbe Madison, che si era rabbuiata pensando al suo ex. “Ma ormai è tutto passato, e comunque Derrick non faceva a caso mio” ribadì sperando che con quell’affermazione la conversazione si sarebbe conclusa.
    Paget annuì e non disse più nulla intuendo che l’amica non gradiva che s’intraprendesse di nuovo l’argomento.
    “Andiamo a correre?” le propose Madison che non si era dimenticata dei suoi buoni propositi per quella mattinata.
    “Mai!” disse l’amica quasi scandalizzata per la proposta di Thompson.
    “Dai, una passeggiata almeno” insistette la rossa facendo un sorriso che sperava fosse abbastanza persuasivo.
    “Che ne dici di una colazione al bar?” propose a sua volta l’amica, Madison rise e accettò la proposta, dopo tutto non aveva così tanta voglia di correre.

    “Quindi la nostra vittima è stata catturata qui, l’SI probabilmente l’ha sorpresa alle spalle mentre sistemava la spesa nel bagagliaio” ipotizzò Blake imitando il gesto che la donna avrebbe potuto fare prima di venire rapita.
    “Magari l’SI le ha puntato una pistola per costringerla ad andare con loro, forse la stessa con cui è stata uccisa” suggerì a sua volta l’agente Morgan, Blake annuì.
    il cellulare di Morgan prese a squillare, era Garcia con delle informazioni sul caso. “Bambolina, illuminami” disse l’agente una volta risposto al telefono.
    “Cioccolatino, ho qualcosa per te. Dopo aver passato a rassegna le registrazioni dei video sorveglianza del supermercato e del casinò, posso dirti che ho notato qualcosa di strano. Entrambe le vittime sono seguite all’uscita da due uomini che, a mio avviso, sono gli stessi” lo informò Garcia. “Purtroppo nessuna delle due videocamere inquadra il parcheggio, quindi non so dirvi nulla su come sia avvenuta l’aggressione” aggiunse rammaricata.
    “Sei sicura, Garcia?” le domandò Blake dopo averla ascoltata attentamente. “Sicurissima, mia cara agente” affermò l’analista informatica. “Ho già inviato sui vostri tablet i video. Ora continuo le mie ricerche sul teatro. A dopo, amori miei”. Derek riattaccò. “Chiamiamo Hotch” disse alla collega e si mise subito in comunicazione.
    “Hotch , forse sappiamo chi sono due dei tre rapitori” esordì Morgan non appena riuscì a rintracciare Hotch al cellulare mentre Blake guidava il veicolo di ritorno alla centrale.
    “Garcia ha individuato una coppia seguire sia Ramirez che Brooks mentre si recavano alla propria auto. Anche a me sembrano le stesse persone” spiegò Derek che aveva finito di guardare i video.
    “Perfetto, sappiamo altro?” domandò Hotch con tono serio dopo aver appresso le informazioni dei due agenti.
    Morgan rispose che per il momento non sapevamo nient’altro e Hotch riattaccò dopo aver detto loro che li aspettava alla centrale.
    “Agente Hotchner, è arrivata la perizia balistica.” Un agente gli porse una busta gialla e si allontanò lasciando Aaron a leggere il documento.
    “Di che pistola si tratta?” domandò Rossi che nel frattempo era rientrato dalla visita al medico legale insieme a Reid.
    “Sembra una pistola a tamburo dei primi del ottocento” rispose l’agente senza nascondere il suo stupore per la stranezza dell’arma utilizzata.
    “Si tratta del primo “revolver”, fu prodotto da Samuel Colt, che prendendo spunto dalle multicanna “Pepperbox” presentò il brevetto di un’arma “a rotazione del tamburo” nel 1836” spiegò Reid ai due. “E’ da collezione, ricercatissima dai collezionisti moderni e di sicuro molto difficile, penso impossibile, da procurarsi ricorrendo al mercato nero. Gli S.I. dovevano avere a disposizione ingenti somme di denaro e averla ottenuta per vie legali” ipotizzò il giovane.
    “Quindi è un’arma che può essere stata acquistata rivolgendosi ad un collezionista di antiquariato oppure tramite un’asta magari?” domandò Rossi, Spencer annuì dicendo che era un’ipotesi del tutto probabile.
    “Chiama Garcia e dille di cercare se si è tenuta un’asta o se qualche negozio di antiquariato ha venduto una simile arma di recente” ordinò Hotch a Spencer che si allontanò per chiamare l’analista informatica .
    “Dal medico legale cosa avete saputo?” chiese Hotch a Rossi.
    “Non molto. A quanto pare, il medico legale ha rinvenuto del DNA femminile sul corpo di Ramirez, è probabile che abbia un rapporto sessuale prima di morire. Purtroppo non è stato possibile identificare di chi sia il DNA, ma non combacia con quello della fidanzata di Ramirez”
    “Quindi il terzo S.I. potrebbe essere una donna?” dedusse Hotch, l’agente Rossi fece spallucce, quel caso cominciava a diventare complicato.
    “Garcia ha trovato qualcosa!” annunciò Reid tornando dai due. Mise in vivavoce la donna e l’esortò a parlare.
    “Allora la bella pistola che avrebbe sparato a Brooks dal costo di 90.000 dollari sarebbe stata venduta nella casa d’asta Hastings mercoledì pomeriggio, insieme ad una lista di oggetti improbabili e dal valore, a quanto pare, inestimabile” comunicò ai tre. “Hai l’indirizzo?” le domandò Hotch.
    “Si, l’ho inviato ora stesso, chiedete di Ronald Mills”. Chiuse la conversazione e tornò a digitare sulla tastiera.
    “Rossi, Reid andate a parlare con il signor Mills sicuramente avrà una qualche ricevuta della vendita. Magari avremo un nome” disse ai due che uscirono dalla centrale diretti alla casa d’asta Hastings.


    “Certo che ricordo quella pistola” affermò Ronald Mills, il proprietario della casa d’asta, dopo aver inforcato gli occhiali e guardato la fotografia. “E’ valsa alla mia cliente 90.000 dollari, eravamo partiti da un’offerta iniziale di 15.000” aggiunse mentre si dirigeva verso il proprio ufficio seguito dai due agenti.
    “Ricorda a chi l’ha venduta?” domandò Rossi prendendo posto in una delle comode poltrone in pelle vera che arredavano il suntuoso ufficio del signor Mills. “Certo, è quella la parte più curiosa” rispose l’uomo che si versò un bicchiere di scotch, l’offrì anche ai due agenti che però rifiutarono. “Siamo in servizio” si giustificò Rossi.
    “Bene, vi dicevo. Ad avere acquistato la pistola sono due uomini, sui 35 anni presumo. Hanno pagato in contanti e avevano fretta ad impossessarsi della pistola. Uno di loro è rimasto al telefono per tutto il tempo. Credo che non fossero loro i reali acquirenti” spiegò l’uomo, Reid gli chiese se era frequente una simile situazione.
    “Al dire il vero, si. Sa, gli oggetti che noi mettiamo all’asta vengono spesso acquistati da importanti famiglie, i cui patrimoni dovevano essere oggetto di una dichiarazione molto dettagliata, soprattutto perché si tratta oggetti il cui acquisto sarà registrato necessariamente quando compiuto dal proprietario vero, se invece ad acquistare è un’altra persona, l’oggetto non compare e nessuno può ricondurlo al reale proprietario” chiarì l’uomo, seguito attentamente dai due agenti.
    Rossi annuì. “La ringrazio. Sa dirmi il nome del soggetto che ha acquistato la pistola?”
    L’uomo prese un foglio e dopo aver dato una breve occhiata, riferì il nome in questione. “Finn Emerson”
    I due uomini si congedarono dopo aver nuovamente ringraziato il signor Mills.
    “Garcia, abbiamo un nome per te. Finn Emerson” le riferì Reid mentre salivano nuovamente in auto.
    “Perfetto. Vediamo… Finn Emerson” fece una breve pausa “Mmm, mi sa che l’unico modo a vostra disposizione per interloquire con il signor Emerson è tramite una tavola ouija. Emerson è morto cinque anni in un incidente d’aiuto”
    Il dottor Reid la ringraziò e riattaccò. “Hanno dato un nome falso”
    “Prevedibile” affermò Rossi, che si mise in contatto con Hotch per informarlo di quanto appresso.
    “Hotch, mi dispiace, ma è stato un buco nell’acqua. Hanno dato un nome falso alla casa d’asta Hastings” riferì velocemente Rossi.
    “Forse noi abbiamo una pista. Blake ha parlato con un testimone al supermercato, ha detto che le sembrava che i due uomini siano scesi da un furgone bianco” spiegò Hotch. “Ho già chiamato Garcia per dirle di procurarsi le video registrazioni della banca all’angolo della strada, chissà che riusciamo ad individuare il veicolo”
    “Perfetto, teneteci informati. Noi stiamo rientrando in centrale”

    “Garcia ha individuato la targa del furgone tramite le registrazioni messe a disposizione dalla banca. Ci sta mandando i dati” annunciò Blake quando i due agenti rientrarono in centrale.
    “Daniel Smith, 36 anni, originario di Little Rock, Arkansas. Precedenti per rapina a mano armata, estorsione e furti con scasso” lesse JJ. “Un curriculum di tutto rispetto” commentò ironico Rossi.
    “Attualmente abita al numero 17 di Fremont st assieme a suo fratello Timothy di 31 anni “ li informò JJ.
    “Lui ha precedenti?” le chiese Rossi. “A quanto pare è pulito” rispose la bionda dopo una breve occhiata.
    “Andiamo a prenderli” affermò Morgan che fu accompagnato da Rossi.
    “Spencer tutto bene?” gli domandò Blake quando rimasero soli. Aveva notato che il giovane era piuttosto taciturno quando erano arrivati nella città del peccato. “Si, tutto ok. Venire qui ha sempre questo impatto su di me, non è mai facile” le spiegò alludendo al suo passato.
    Blake annuì e gli chiese se ne voleva parlare, Spencer scosse la testa, preferiva evitare di intraprendere quel discorso e andò a versarsi un’altra tazza di caffè.

    “Siete stati ripresi nei video sorveglianza di due posti diversi inseguendo due delle tre vittime ritrovate questa mattina, mentre il vostro furgone compare nella registrazione di una banca vicino al teatro dove è stato visto Humphrey vivo per l’ultima volta, io direi che non è una coincidenza” affermò Morgan con tono sufficientemente serio per intimorire i due uomini.
    “Quindi? Questo è un paese libero” lo sfidò Daniel fissando imperterrito l’agente di colore; il fratello teneva lo sguardo basso e muoveva nervosamente il piede sinistro, comportamento che non sfuggì all’agente Hotchner che osservava l’interrogatorio al di là del vetro.
    “Da Daniel non otterremo molto, l’anello debole è suo fratello”commentò all’agente Blake. “Dobbiamo separarli” suggerì la donna all’agente che entrò nella stanza.
    “Possiamo andare?” domandò Daniel sul cui viso si dipinse un’espressione beffarda.
    “Non ancora, dobbiamo verificare i vostri alibi” lo informò Hotch mantenendo un tono calmo. “Suo fratello però viene con me”
    Timothy sgranò gli occhi e deglutì, il fratello gli mise una mano sulla coscia per incoraggiarlo. “Stai tranquillo, noi non abbiamo fatto nulla”
    “Questo lo vedremo, signor Smith” disse Hotch mentre con suo fratello usciva dallo stanzino.
    “Siete fuori strada se pensate che noi abbiamo a che fare con gli omicidi di questi tre” insistette Daniel quando fu rimasto da solo con l’agente Morgan.
    “Scommetto però che se portiamo una tua foto al proprietario della casa d’asta Hastings verrai sicuramente identificato come acquirente di questa pistola” lo intimidì Derek mostrando una foto dall’arma a Smith che cambiò espressione. “Non avete la pistola. Non potete dimostrare che a sparare sia stato io o mio fratello” si tradì Smith svelando un dettaglio che l’agente non aveva riferito.
    “Io non ti ho mai detto che non avevamo l’arma del delitto” rispose Derek con soddisfazione. A quel punto si alzò e uscì dalla stanza.
    “Non abbiamo niente. Anche se possiamo dimostrare che loro hanno acquistato la pistola, non possiamo dimostrare che abbia sparato uno di loro” disse Morgan a Blake.
    “Con il fratello come sta andando? Hotch ha ottenuto qualcosa?”
    “Niente, per il momento. Hotch prova a metterlo sotto pressione, ma non dice nulla. È muto” le riferì la donna.
    “Ragazzi, venite. Garcia ha trovato un video interessante. Potrebbe essere l’omicidio di Brooks” li richiamò Reid.
    I tre agenti riconobbero subito Abby Brooks, era legata con delle catene che stringevano i piedi e le mani ad una sedia completamente nuda, aveva gli occhi bendati.
    “Ti prego, ho due bambini piccoli. Ti prometto che non dirò nulla. Non mi uccidere” lo implorò la donna fra i singhiozzi. Si sentì la voce di un uomo che rideva dicendole che era troppo tardi per lei, poi apparve un figura nera davanti alla donna che sparò un colpo secco alla tempia. Il video s’interrompeva in quell’istante.
    “Mio dio” disse Blake che si portò una mano alla bocca dopo aver visto la scena. “Dove l’ha trovato?” chiese Morgan al dottor Reid.
    “Stava incrociando dei dati alla ricerca di qualche notizia sugli omicidi ieri notte, quando ha trovato questo. Purtroppo non le è stato possibile rintracciare l’indirizzo ip di chi ha caricato il video, ma ha detto di dare un’occhiata al sito”. Il giovane prese il pc che aveva con sé e digitò l’indirizzo che gli aveva fornito l’analista informatica.
    “E’ una chat?” domandò Blake mentre osservava le scritte comparse sullo schermo. “Commentano l’omicidio. Che cos’è questo “the dying game”?”
    “Chiamo Garcia, vediamo cosa sa dirci” rispose prontamente Morgan.
    “Dolcezza, sapevo che mi avresti chiamato. “The dying game” è un gioco di ruolo terrificante, ispirato al film ‘Hostel’ probabilmente” spiegò la donna prima ancora che Derek potesse chiederle qualcosa.
    “I partecipanti acquistano delle persone per poter fare quello che desiderano, incluso ucciderle. Comprano la loro vita in pratica” continuò la donna.
    “Credevo che queste cose accadessero solo nei film di Tarantino” commentò uno dei poliziotti della centrale che aveva assistito alla chiamata.
    “Hostel, il film a cui si ispira questo gioco, è tratto da una storia vera comunque” disse Spencer attirando su di sé lo sguardo disgustato del poliziotto.
    “Come si partecipa a questo ‘gioco’?” domandò Derek all’analista incerto di poter definire gioco quell’atrocità.
    “I partecipanti acquistano le proprie vittime tramite un sito online, che è stato oscurato momentaneamente, le cifre arrivano a sfiorare anche i 250.000 mila dollari” riferì la donna che continuava a leggere dati sul terribile gioco.
    “Non capisco, che ruolo hanno i fratelli Smith? È evidente che non sia stato uno di loro ad uccidere Abby Brooks e non credo che siano loro ad organizzare questa sorte di olocausto” affermò il dottor Reid evidentemente confuso.
    “Devono lavorare per qualcuno. Forse loro devono incaricarsi di catturare le vittime” ipotizzò Morgan, che interruppe la conversazione con Garcia dicendola di continuare a cercare ulteriori informazioni su “the dying game”.
    Infine si recarono da Hotch e Rossi per riferire gli ultimi agghiaccianti dettagli appresi. Il caso sembrava lontano da una possibile soluzione e la giornata stava volgendo a termine.


    “Per il piacere di uccidere (parte 2)”



    L’agente Hotchner guardava fisso il muro davanti a sé, ripensava alle informazioni ottenute, cercava di assegnare un ruolo ai fratelli Smith in quella strana faccenda, senza successo però.
    Aveva bisogno di un loro aiuto, ma Daniel Smith, il fratello maggiore, si rifiutava di parlare se non fosse stata garantita loro l’immunità mentre Timothy era troppo spaventato per confessare.
    “Dobbiamo metterlo ancora di più sotto pressione. Facciamogli vedere il filmato dell’uccisione di Abby Brooks, magari riusciamo a farlo parlare” suggerì Rossi mentre ricostruiva in mente una possibile dinamica degli omicidi.
    “Hotch, Rossi. Garcia ha trovato un’altra pista” annunciò Blake entrando nella stanza dove i due agenti erano riuniti, Reid entrò mettendo in vivavoce la bionda. “Sei in vivavoce, Garcia” l’avvisò il dottor Reid.
    “Signori” esordì la donna. “Chattando con quelli che erano collegati sul sito, gente davvero malata, se mi permettete, ho scoperto che l’organizzatore sarebbe un certo S.C., lo chiamano “Caronte” anche. Nessuno sa il suo nome però”
    “Caronte?” domandò Rossi non riuscendo a capire cosa c’entrasse il nome del famoso personaggio di Dante.
    “Si, come Caronte, lui traghetta le vittime verso l’Inferno, o almeno così lo hanno descritto” spiegò.
    “Azzeccato, direi” fu il commento del dottor Reid. “Bene, cerca altre informazioni su questo S.C., noi intanto vediamo se il nome di questo soggetto ricorda qualcosa ai fratelli Smith” le ordinò Hotch, l’analista informatica disse che avrebbe fatto del suo meglio e riattaccò.
    “Andiamo a parlare con Timothy” disse a Rossi che lo seguì nello stanzino degli interrogatori mentre il dottor Reid rimase fuori ad ascoltare l’interrogatorio assieme ad Alex.
    “Smith, abbiamo qualcosa da farti vedere” gli disse Rossi, dispose il portatile davanti al sospettato e aspettò che si avvisasse il filmato dopo aver premuto il tasto play.
    La reazione del minore dei fratelli Smith fu esattamente quella che i due agenti si aspettavano: Timothy si portò la testa fra le mani e scoppiò in singhiozzi quando il filmato si concluse. “Che cosa ho fatto?” ripeté più volte.
    “Timothy, se collabori, ti promettiamo che faremo qualcosa per te. Ma devi dirci chi c’è dietro tutto questo” lo rassicurò l’agente Hotchner, dalla reazione dell’uomo si capiva che voleva uscire da quella terribile situazione.
    “Se io ve lo dico, lui mi ucciderà. Conosce troppe persone”
    “Avrai la nostra protezione” affermò Rossi per invogliarlo a parlare. Il giovane si lasciò sfuggire una risatina isterica. “E quando sarò dentro? Come vi proteggerete?” chiese ai due agenti. “Mi dispiace, io non vi dirò niente”
    “Timothy, so che tu non volevi che succedesse nulla di tutto questo. Lo vedo nei tuoi occhi, ma se ti ostini a non parlare, questo gioco-fece una pausa per vedere la reazione del giovane che trasalì- non avrà mai fine e altre persone moriranno. È questo che vuoi?” provò a convincerlo l’agente supervisore della B.A.U., il giovane fece un respiro profondo che fece capire ai due che era pronto a parlare.
    Iniziò il proprio racconto con la voce e le mani tremanti. “Noi dovevamo catturare le vittime. Non avevamo idea di cosa facessero con loro, pensavamo che volessero solo spaventarle oppure avere rapporti sessuali con loro” fece una breve pausa per riprendere fiato. “Io avevo bisogno di soldi e Daniel mi disse che così avrei risolto tutti i miei problemi. Dovevo solo guidare, lui catturava”
    “Quando capii cosa c’era dietro, provai a tirarmi fuori, ma lui mi disse che ormai era troppo tardi, sapevo troppo, capite? Ero senza via d’uscita” urlò Timothy disperato senza smettere di singhiozzare.
    “Lui chi?” gli domandò Rossi, l’uomo scosse la testa, non lo poteva dire.
    “E’ S.C.?”, al sentire quelle iniziali l’uomo alzò la testa e guardò i due agenti. “Voi non sapete con chi avete a che fare” provò a intimorirli.
    “Credimi, è lui che non sa con chi ha a che fare” rispose Rossi, mentre Aaron fissava il giovane con espressione seria. “Dì il suo nome, ci penseremo noi”
    Timothy rimase in silenzio per qualche secondo. Gettò un’occhiata all’ultimo fotogramma dell’atroce filmato e infine parlò. “Si chiama Scott Cusack, è lui che organizza tutto mentre i suoi uomini scaricano i corpi. Per questo non sapemmo da subito cosa succedesse una volta che consegnavamo le vittime. Lo abbiamo capito guardando il telegiornale” confessò l’uomo.
    “Dove possiamo trovarlo?”
    “Non lo so, io non ci ho mai parlato. Era mio fratello a fare tutto. Mi aiuterete, vero?” li implorò Smith prima che i due uscissero dalla stanza.
    “Faremo il possibile” disse Rossi e uscì dalla stanza lasciando l’uomo da solo che si abbandonò ad un lungo pianto.
    Hotchner si diresse verso la stanza dell’interrogatorio dove veniva torchiato Daniel dall’agente Morgan da oltre mezz’ora. “Sappiamo tutto di Scott Cusack, ti conviene parlare” interruppe Hotch irrompendo nella stanza.
    Sul volto di Daniel si dipinse un’espressione di odio. “Quell’idiota ci farà ammazzare” urlò scattando in piedi e riferendosi al fratello minore.
    “Daniel, ti conviene calmarti. Non costringerci a fare qualcosa di brutto” lo minacciò Morgan.
    Daniel si risedette. “E quale sarebbe la differenza? Credi che Cusack sarà meno clemente? Forse mi conviene farmi uccidere da voi”
    Hotchner si sedette davanti a lui e lo costrinse a guardarlo. “Dove possiamo trovarlo?” ripeté la domanda fatta già al fratello Timothy.
    “Anche se riuscirete a trovarlo, non potrete fermarlo. Troppe persone sono invischiate per lasciarvi indagare. I pezzi grossi vi fermeranno subito” riferì l’uomo.
    “Sono invischiati dei politici nella faccenda?” domandò Hotchner. L’uomo annuì e disse loro che coinvolgeva gran parte della società bene di Las Vegas.
    “Dicci dove possiamo trovarlo, ci pensiamo noi al resto” lo invogliò Hotch.
    “Se ve lo dico, tirerete fuori dai guai mio fratello? Lui non c’entra nulla, io mi assumo tutta la colpa” richiese Smith in cambio dell’informazione. “Parlerò con il procuratore. Hai la mia parola” garantì Hotch, certo che avrebbe incontrato l’appoggio del procuratore Richardson.
    “Uno dei suoi scagnozzi gestisce un casinò sul boulevard. Tutte le notti organizza un torneo di poker, lo troverete certamente, ma non arriverete a lui facendo irruzione, scapperebbe molto prima che voi possiate mettere piede nel casinò. Per potergli parlare dovrete giocare con loro” suggerì Smith, poi diede il nome del casinò e i due agenti si congedarono promettendogli che avrebbero fatto il possibile perché il fratello venisse liberato.
    “Reid, stasera dovrai giocare” lo informò l’agente Hotchner dopo che riferì quanto confessato da Smith.
    Il dottor Reid deglutì. “Io? Scherzate vero?”
    Hotch spiegò che avrebbe dovuto garantirsi di giocare con lui faccia a faccia, quindi serviva qualcuno che sapesse giocare.
    “Hai anche l’accento del posto, questo faciliterà la tua copertura” aggiunse.
    “JJ sarà il tuo portafortuna” gli disse Rossi che concluse la spiegazione dell’operazione informando che anche lui e Morgan sarebbero entrati nel casinò fermandosi nel bar mentre Blake e Hotch assieme ad una squadra di SWAT avrebbero aspettato nel retro del casinò nel caso qualcosa fosse andato storto.
    Reid sospirò e annuì. “Posso farcela, o almeno lo spero”
    Stilarono gli ultimi dettagli dell’operazione, ultimando la copertura tanto di Reid quanto di JJ e partirono alla volta del casinò in una berlina nera.
    “Sei nervoso?” gli domandò JJ mentre Reid guidava in direzione del casinò. Reid si voltò verso di lei e non proferì parola. “Ok, sei nervoso” dedusse la bionda. “Andrà tutto bene, sei un genio. Il poker non sarà un problema” lo rassicurò poi.
    Arrivati al casinò, consegnarono le chiavi dell’auto ad uno dei parcheggiatori e fecero il loro ingresso. Mentre Morgan e Rossi arrivarono dieci minuti più tardi come progettato. “Abbiamo individuato il gruppo di scommettitori” informò JJ ai due tramite un microfono nascosto.
    Come stabilito, JJ si avvicinò a questi. “Vorremmo giocare” affermò la donna mettendo in mano ad uno di loro 25.000 dollari, la cifra minima per accendere al tavolo.
    L’uomo passò la mazzetta al suo compare, che annuì sottintendo che si trattasse di soldi veri dopo averli esaminati. Gettò un’occhiata ai due agenti, soffermandosi sulla scollatura di JJ, che strinse la mano di Reid per assicurarsi che mantenesse la calma. “Chi gioca dei due?”
    “Lui è il genio. Io sono il suo portafortuna” rispose maliziosa e fece un occhiolino all’uomo che con un gesto della mano li invitò ad accomodarsi al tavolo.
    “Chi abbiamo qui?” domandò un uomo dai capelli brizzolati ben vestito, puntò gli occhi celesti sulla coppia e chiese informazioni ad uno dei suoi uomini. JJ dedusse che doveva essere Scott Cusack, e gli sorrise.
    L’uomo annuì alle parole dell’uomo e poi si rivolse alla coppia. “Benvenuti. Iniziamo?”
    I partecipanti annuirono e le carte furono distribuite. L’aria si fece tesa, JJ scrutava l’ambiente alla ricerca di una via d’uscita nel caso la situazione fosse precipitata, mentre Spencer si concentrava sulla partita tentando di pensare il meno possibile alla sua condizione. Gli sudavano le mani, costrinse sé stesso a non perdere il controllo, era indispensabile ai fini della riuscita del piano che arrivasse in fondo alla partita.
    Man mano che il gioco procedeva, i partecipanti abbandonarono la partita e il tavolo finché non rimasero Spencer e Cusack, come progettato.
    “Adesso siamo solo io e te” disse Cusack per mettere pressione a Reid che deglutì.
    Il dottor Reid si fece coraggio e spostò tutte le fiches in avanti. “All in”
    Cusack si abbandonò ad una leggera risata. “Coraggioso” mosse anche le sue fiches e scoprì le proprie carte, certo di aver vinto. “Scala reale”
    “Mi dispiace, piccola” disse rivolgendosi a JJ che sgranò gli occhi, Cusack rise. A quel punto Spencer scoprì le carte, mostrando una scala a colori minima che batté la scala reale di Cusack, il quale rimase a bocca aperta, mentre JJ tirava un respiro di sollievo.
    “Complimenti” disse l’uomo dopodiché chiamò uno dei suoi uomini. “Accompagna i vincitori nel mio ufficio” gli ordinò, l’uomo annuì. Spencer e JJ balzarono in piedi, quella mossa non era stata prevista. Avrebbero dovuto improvvisare.
    “Il suo ufficio? Signore, quale onore ci riserva” disse JJ per dare un segnale a Morgan che lanciò un’occhiata a Rossi, era il momento di entrare in azione.
    I due si mossero lentamente, cercando di non dare troppo nell’occhio, pagarono il conto del bar e infine si diressero verso l’ingresso del privè dove si teneva il torneo, dopo aver informato Hotchner del cambio di piano.
    “Dovremmo vedere i nostri amici” comunicò Rossi alla guardia del corpo di Cusack.
    “Non credo sia possibile” rispose l’uomo mantenendo ferma la sua posizione.
    “Io invece dico di si” affermò Morgan poi lo atterrò con un colpo alla nuca, stendendo l’uomo che cadde in avanti svenuto.
    Il colpo sferrato da Morgan non sfuggì al secondo scagnozzo di Cusack che sguainò la pistola, puntandola verso JJ. “Fate un passo e la vostra amica è morta” minacciò Cusack.
    “Io non ne sarei così sicura” affermò JJ che colpì l’uomo con una gomitata allo stomaco, questi perse l’equilibrio e lasciò cadere la pistola che fu presto raccolta da Spencer, Cusack sparò un colpo in aria per attirare l’attenzione dei suoi uomini che si precipitarono nella stanza, e approfittando della distrazione dei federali tentò la fuga, che fu bloccata sul nascere dalla squadra di SWAT che entrò nella stanza seguito da Hotchner e dal capo del distretto di polizia.
    “Sei circondato, Cusack, ti conviene costituirti” gli disse Hotchner.
    L’uomo alzò le mani e fu presto ammanettato dal poliziotto, in seguito fu scortato in centrale dove ebbe inizio il suo interrogatorio.

    “Vi darò tutti i nomi che volete. Ma prima dovete garantirmi l’immunità” affermò Cusack con espressione beffarda.
    Morgan s’infuriò e scattò in piedi, Hotch lo fermò mentre il criminale rideva della reazione dell’agente.
    “Ne riparleremo più tardi” disse Hotchner e uscì dalla stanza portandosi con sé Morgan.
    “Dammi il via e ti giuro che lo faccio a pezzi” esclamò l’agente di colore guardando dentro la stanza.
    “Non sarà necessario. Possiamo incriminarlo grazie alla confessione dei fratelli Smith, al procuratore basterà” rispose l’agente Hotchner senza tuttavia placare la rabbia di Morgan.
    “Garcia ha trovato uno stabilimento a nome di Cusack, abbiamo inviato una squadra per verificare se quello è il luogo della casa delle torture” annunciò Rossi.
    I due agenti annuirono. “Dobbiamo avere i nomi, Hotch” insistette Morgan.
    L’agente supervisore si sedette nell’ufficio assegnatogli e si posò il mento fra le mani. “Se gli concediamo l’immunità, sarà liberato e uscirà da quest’ufficio come se nulla fosse successo”
    “Ma i nomi ci servono. Qualcuno dovrà rispondere dei tre omicidi” commentò Blake. “Controlliamo movimenti dei principali politici e impresari di Las Vegas” suggerì Reid.
    “Non possiamo farlo senza un mandato” fece presente Hotchner.
    Morgan fece spallucce. “Facciamoglielo fare a Garcia”
    “Non possiamo. Si tratta di facoltosi uomini di affari, avranno i migliori avvocati dalla loro parte, non potremo nemmeno trattenerli quando verranno a scoprire il modo in cui ci siamo procurati le prove incriminanti” chiarì Hotch.
    “Incastriamoli per qualcos’altro. Magari portandoli in centrale, Smith li potrà riconoscere e avremo un testimone” suggerì Rossi. Hotch si trovò d’accordo con la proposta dell’anziano agente e diede ordine all’analista informatica di mettersi al lavoro.
    Nel frattempo l’agente Hotchner andò a parlare con il procuratore per negoziare la libertà del fratello minore di Daniel, Timothy Smith. Non potevano fare nulla per il momento se non aspettare notizie da Penelope e sperare di aver qualcosa su cui lavorare dopo.
    Morgan assieme a JJ e Blake andarono a prendere qualcosa da mangiare, invitarono anche Rossi e Reid che rifiutarono l’invito dicendo che preferivano ritirarsi in albergo.
    Reid entrato nell’albergo si fece una lunga doccia, aveva bisogno di rilassarsi; era stata una missione piuttosto impegnativa, quella che l’aveva visto protagonista nelle ore precedenti.
    Era in piedi davanti alla finestra che fissava il viavai instancabile di turisti che da sempre contraddistingueva Las Vegas quando il suo cellulare iniziò a squillare.
    Rispose alla telefonata senza controllare chi fosse. “Pronto”
    “Spencer? Sono Madison. Tutto bene?” domandò la rossa, qualcosa nel tono dell’amico le suggerì che qualcosa non andava.
    “Al dire il vero no” rispose sincero. Aveva bisogno di sfogarsi e quella chiamata cascava a pennello.
    Spencer le raccontò del caso e dell’operazione che avevano condotto, mentre l’amica lo ascoltava attentamente.
    “Mio dio, ma è orribile” esclamò Madison dopo che Reid concluse il suo racconto. “Quei bastardi non la devono passare liscia” aggiunse.
    Spencer sospirò. “Non so se sarà così semplice” le confessò lui, l’esperienza acquisita nei suoi anni di lavoro gli aveva insegnato che i soldi possono coprire ogni cosa.
    “Troverete un modo” disse l’amica per incoraggiarlo, Spencer a quel punto le disse che era parecchio stanco e che aveva bisogno di dormire, si scusò con la giovane che lo rassicurò ancora una volta dicendo che sarebbe andato tutto bene, infine riattaccò e cadde immediatamente addormentato sul letto.

    La mattina dopo Hotch comunicò a suoi agenti che Garcia era riuscita ad individuare tre persone della società bene di Las Vegas, il cui alibi per la notte dell’omicidio era piuttosto incerto, e che erano state attirate in centrale con l’accusa di frode al fisco.
    “Sono Paul Steward, futuro candidato del partito democratico al congresso, Grace Keller, una delle donne più potenti di tutta Las Vegas, possiede alcuni degli hotel più lussuosi della città e Colin Lee, uno dei principali azionisti della Chrysler” riferì Hotcher.
    In quel momento uno dei poliziotti del distretto annunciò che i tre sospettati erano arrivati in centrale scortati dai loro avvocati, Spencer si affacciò per vedere in faccia i responsabili di quella strage e fu allora che vide qualcosa che lo lasciò senza parole.
    “Papà” farfugliò dopo aver visto su0 padre seguire il suo cliente Paul Steward. “Che ci fa lui qui?”
    “Reid, tuo padre è un avvocato. Cosa che vuoi ci faccia qui? Una partita a guardie e ladri?” rispose l’agente Morgan c0n tono sarcastico.
    Reid lo ignorò e si diresse verso suo padre. “Non vorrai sul serio difendere un assassino?” lo incalzò apparendo davanti a lui e indicando Steward che si girò verso il giovane rivolgendogli un’occhiata di disprezzo.
    “Reid, faccia presente all’agente che io non sono un assassino” disse al suo avvocato, William Reid deglutì e prese per il braccio il figlio. “Spencer, non scelgo io chi difendere” chiarì l’uomo sperando invano che suo figlio fosse comprensivo. “La tua posizione non cambia. Puoi sempre rifiutare” ribadì freddo Spencer svincolandosi dalla presa di suo padre.
    Suo padre scosse la testa di fronte alla reazione del figlio. “Credi che sia così facile?”
    “Si, lo è. Sai a volte ti penso e per qualche minuto mi viene voglia di chiamarti per chiederti come stai, ma poi mi vengono in mente tutte le tue mancanze di questi anni e mi rendo conto che chiamarti non ha proprio senso.” Quelle parole ferirono suo padre che per qualche secondo vacillò.
    “Se considero poi che ogni volta che ti incontro, mi dai un motivo in più per tenerti fuori dalla mia vita, beh a questo punto, sto decisamente meglio senza di te”.
    Detto ciò, Spencer se ne andò senza dare il tempo al padre di replicare, William provò ad andargli incontro ma l’agente Rossi lo richiamò dicendogli che il suo cliente si rifiutava di iniziare l’interrogatorio senza il suo avvocato, l’uomo annuì, fece un respiro profondo e seguì l’agente Rossi.

    Spencer uscito di corsa dalla centrale di polizia andò nell’unico posto dove in quella città poteva sentirsi al sicuro, ma soprattutto dall’unica persona che in tutta la sua vita, nonostante tutti gli spiacevoli momenti, lo aveva fatto sentire al sicuro: sua madre.
    Entrò nella clinica che ospitava sua madre da oltre un decennio e aspettò che un’infermiera lo accompagnasse dalla loro degente. “Spencer, che piacere vederti! Era da un po’ che non ci facevi visita, vero?” esclamò lo psichiatra di sua madre, Wyatt Crossman. “Salve, dottor Crossman. In effetti è un po’ che non vengo..” mormorò, non aveva molta voglia di conversare con lo stimato psichiatra, voleva solo parlare con sua mamma.
    “Ti accompagno io da Diana” gli disse l’uomo mettendo un braccio sulle spalle. “Sai, tua madre ha trovato un ottimo passatempo: scrivere. Ha riempito un sacco di quaderni ormai, io sono curioso di sapere cosa scrive, ma non lo vuole far vedere a nessuno” gli raccontò mentre raggiungevano la sala comune dove i pazienti trascorrevano la loro giornata impegnati in diverse attività.
    Spencer sorrise, gli fece piacere sapere che sua madre aveva ritrovato la voglia di scrivere come un tempo; erano anni che non scriveva nulla, a parte le lunghe lettere che erano soliti scambiarsi. “Vediamo se io riesco a leggere qualcosa” disse al dottor Crossman.
    “Eccola” affermò lo psichiatra avvicinandosi alla donna che era di spalle seduta su una sedia a dondolo guardando fuori la finestra. “Guardi, chi è venuto a trovarla” annunciò alla signora Reid che nel voltarsi s’illuminò vedendo il figlio.
    “Spencer!” lo chiamò, si alzò in piedi, ma il suo figlio la trattenne. “Stai pure seduta”
    “Bene, io vi lascio. Ci vediamo più tardi, signora Reid. Arrivederci Spencer” li salutò il dottore, Spencer ricambiò e avvicinò una sedia per stare accanto a sua madre.
    “Ti trovo meglio” disse alla madre che lo guardava senza smettere di sorridere. Era sempre felice quando Spencer veniva a trovarla; i giorni in quel luogo trascorrevano molto lentamente ed erano sempre contraddistinti da una stancante monotonia. Le visite del figlio, per suo spiacere poco frequenti, la rallegravano, erano il suo modo di ricordarle che fuori da quella clinica, che era ormai diventata la sua casa, esisteva un mondo e qualcuno che l’aveva a cuore. “Il dottor Crossman mi ha detto che hai ripreso a scrivere”
    Diana annuì e si sporse verso il figlio per sussurrarle qualcosa all’orecchio. “Lui è molto curioso, sbircia sempre quando passa davanti ai fogli. Io non voglio che legga”
    Spencer rise per quell’atteggiamento più adatto ad una cospirazione che ad una banale confessione.
    “Comunque si tratta di un romanzo” gli disse la donna tornando a comportarsi normalmente.
    “Di che parla?” domandò curioso Spencer. Ricordava ancora come fosse ieri i giorni trascorsi sul lettone di sua madre a leggere qualsiasi genere di storie, a parlare per ore; spesso sua madre le raccontava storie inventate che lo vedevano come protagonista, avventure ambientate in luoghi inesistenti, ricchi di storia e di emozioni.
    “Parla di un bambino prodigio e di una mamma un po’ problematica” gli rispose scombinandoli i capelli castani come quando era piccolo. Spencer sorrise, avrebbe dovuto intuire che si trattava di una storia che parlava di loro.
    Sua madre non poté fare a meno di notare che il figlio aveva un’aria triste. “Cosa hai Spencer?”
    Spencer provò a parlare, ma gli si formò un grappolo in gola che glielo impedì. Improvvisamente sentì il respiro bloccarsi e gli occhi inumidirsi, provò a ricacciare indietro le lacrime ma non ci riuscì. Si buttò tra le braccia di sua madre, che senza esitare lo strinse, e pianse tutte le lacrime che da tempo reprimeva.
    Pianse per suo padre, per Maeve, anche per sua madre, ma soprattutto per se stesso. Si sentiva sconfitto, solo, per la prima volta in tutta la sua vita nemmeno sua madre riuscì a colmare quel vuoto che lo divorava.
    “Perché deve essere tutto così difficile?” domandò a Diana fra le lacrime, la donna inevitabilmente si commosse nel vedere suo figlio così indifeso e vulnerabile.
    “Bambino mio, si sistemerà tutto. A tutto c’è un rimedio” lo incoraggiò sua madre. Prese il suo viso fra le mani e con i polpastrelli delicatamente asciugò le lacrime calde che scivolavano lungo il viso. “Ti manca tanto?” chiese sua madre alludendo a Maeve, di cui sapeva tutto. Suo figlio spesso gli aveva scritto di lei e della loro storia che sua madre aveva paragonato alla tragedia di Romeo e Giulietta.
    Spencer annuì, ma disse che non era solo per lei che si sentiva così triste, le raccontò dell’incontro con William e di quanto gli facesse male ogni volta vederlo.
    Diana sospirò, sapeva che per il figlio suo padre era una ferita inguaribile e si sentiva colpevole di non aver potuto far nulla per aiutarlo a superare la sua perdita, o per impedirla.
    “Io volevo soltanto che mi volesse bene” confessò Spencer tirando fuori quella verità che si trascinava dietro da quella notte in cui suo padre andò via senza una spiegazione. La madre gli posò un bacio sui capelli e lo trattenne ancora fra le sue braccia. “Lo so, Spencer”
    Rimasero abbracciati per ore, o forse solo per pochi minuti, Spencer non avrebbe saputo dirlo. Quando si calmò, salutò suo madre promettendole che sarebbe tornato presto.
    “Ti voglio bene” le disse prima di andare via, la madre gli diede un altro bacio. “Anche io, e così sarà per sempre”

    “Reid dove eri finito? Stai bene?” gli chiese Derek non appena lo vide entrare nella hall dell’albergo. Aveva provato a rintracciarlo per ore al cellulare senza ricevere una risposta o un sms.
    “Sto bene. Ero da mia madre”. Morgan annuì e rimase incerto davanti a lui senza sapere cosa dire o fare; gli era molto affezionato, lo considerava come parte della sua famiglia e in quanto tale il suo benessere gli stava davvero a cuore, ma spesso non sapeva come dimostrarglielo. Si domandava se fosse il caso di abbracciarlo, ma Spencer sciolse tutti i suoi dubbi.
    “Morgan non preoccuparti, non c’è bisogno che mi abbracci”, Derek rise per quell’affermazione. “Lo so, magari vorresti un abbraccio da una certa dottoressa Thompson” lo stuzzicò, Spencer sbuffò. “E’ solo un’amica, Derek”
    “Com’è finita con il caso?” gli chiese spostando la conversazione su un altro argomento.
    “Abbiamo incastrato la Keller con l’esame del DNA, anche Colin Lee non ha avuto scampo. Il suo alibi non ha retto e abbiamo trovato le sue impronte sulla pistola, la scientifica l’ha trovata abbandonata nello stabilimento, ricordi che Garcia ne aveva trovato uno a nome di Cusack?”
    Spencer annuì. “E per Paul Steward?”
    Derek scosse la testa lasciando capire a Reid che non c’era stato modo di incastrarlo. “Purtroppo il suo alibi è solido, e non c’era alcuna impronta o prova che confermasse la sua presenza nello stabilimento”
    Spencer sospirò, se non altro, nessuno avrebbe potuto dire che suo padre non fosse un bravo avvocato.
    “Tuo padre ti ha lasciato questa. È venuto qui in albergo poco fa” gli consegnò una lettera, riconobbe la scrittura di suo padre che somigliava vagamente alla sua e mise la lettera in tasca.
    “Sbrigati comunque, Hotch aveva fretta di tornare a Quantico. Si parte fra un’ora” gli riferì l’agente di colore, Spencer scattò in piedi e andò in camera a raccogliere i propri bagagli.
    Un altro caso era stato risolto, si tornava a casa. Che strana la parola “casa”. Si chiese se quella fosse veramente casa sua o se fosse solo un posto in cui posare le proprie cose in attesa di arrivare finalmente a casa?
    A quella domanda il dottor Reid non seppe rispondere.
    Durante tutto il viaggio di ritorno rimase seduto in disparte, nessuno dei suoi colleghi lo disturbò. Sapevano che voleva essere lasciato da solo e rispettavano la sua volontà. Arrivò nel suo appartamento intorno a mezzanotte, il suo stomaco implorava per ricevere del cibo che non riceveva da quasi ormai 12 dodici ore. Aprì il frigorifero che trovò praticamente vuoto, il contenuto era ridotto ad una scatoletta di tonno e una carota spezzata a metà; si chiese quando era stata l’ultima volta che aveva fatto la spesa, l’ultima volta risaliva all’uscita con Thompson, Spencer rise ripensando alla corsa con i carrelli e prese la scatola di tonno.
    La aprì e mangiò il suo contenuto direttamente dalla scatola, non aveva la forza nemmeno di svuotarla in un piatto, trovò sul tavolo una confezione di un pan bauletto e mangiò l’ultima fetta rimasta.
    Terminata la “cena”, si fece una doccia e andò a dormire. Prima di chiudere gli occhi ripensò alla lettera di suo padre che era rimasta nella tasca dove l’aveva lasciata senza essere letta, fu tentato dall’alzarsi per andarla a prendere, ma si sentiva troppo stanco per affrontarla e rimandò all’indomani.
    Infine, senza nemmeno accorgersi si addormentò.

    Madison si svegliò intorno alle sei di mattina, si sorprese di essere già in piedi a quell’ora dato che il suo turno in ospedale iniziava alle 9, e approfittò dell’occasione per andare a fare una corsetta.
    Bevve velocemente un bicchiere di succo d’arancia, mangiucchiò una mela e uscì. Fece un po’ di stretching prima di buttarsi nella corsa e poi partì, limitandosi a fare il giro dell’isolato un paio di volte seguendo un gruppetto di uomini e donne che presto la lasciarono indietro.
    “Basta per oggi” si disse inspirando a fondo e si avviò verso casa. Erano appena le sette e quarto quando finì di farsi la doccia, si sedette sulla poltrona senza sapere cosa fare, aveva ancora a disposizione più di un’ora prima di dover andare in ospedale.
    “Chissà Spencer …” si domandò, sapeva che il dottor Reid era rientrato perché aveva ritirato la posta, a quell’ora doveva essere certamente a casa perciò andò a disturbarlo.
    Bussò alla sua porta diverse volte senza che nessuno l’aprisse, era quasi tentata di riscendere a casa quando l’anziano vicino di casa di Spencer si affacciò dalla porta. “Oh la ragazza dei muffin” esclamò l’uomo, Madison lo guardò stranita e Chester rise. “Ti ho vista il giorno che hai portato i muffin” spiegò, la dottoressa sorrise e gli disse che si ricordava anche lei.
    “Guarda, sotto quel vaso c’è la chiave di riserva” le riferì indicando il vaso in questione. Madison si sorprese per quella proposta e s’imbarazzò.“Oh, io non credo sia il caso di entrare in casa sua così. Insomma io non sono mica la sua fidanzata …”
    Il vecchio rise, quella ragazza gli stava simpatica. “E ti piacerebbe esserlo?”
    Thompson sentì le sue guance avvampare, come non capitava da quando andava al liceo. “Io.. io..” farfugliò senza sapere cosa dire.
    Il signor Chester ancor di più rise di fronte a quella reazione. “Entra in casa, scommetto che quel giovanotto non avrà nulla da ridire”
    Dopo averle parlato, rientrò in casa lasciando Madison da sola sul pianerottolo. “Il signore ha ragione, non sto facendo nulla di male” si convinse la dottoressa, poi prese la chiave e aprì. “Spencer?” lo chiamò quando fu dentro.
    Tutte le finestre dell’appartamento erano chiuse, sul tavolino del salotto trovò la tracolla aperta, la prese e la sistemò nell’appendiabiti, fu allora che sentì il dottor Reid muoversi nel letto che cigolò leggermente. “Sta dormendo” disse a voce alta, fu tentata dallo andare a svegliare, ma non le sembrava giusto perciò decise di tornare a casa sua, si girò per andarsene quando sbatté contro il tavolino. “Maledizione” urlò massaggiandosi il piede dolorante.
    Spencer si svegliò di soprassalto all’urlo della dottoressa. “Chi c’è?” domandò spaventato e prendendo la pistola che teneva nel cassetto del comodino, si sollevò leggermente per vedere se notava qualcuno e vide Madison che a quel punto entrò nella sua stanza, ormai era sveglio.
    “Maddie” disse incredulo di vederla lì, posò di nuovo la pistola nel cassetto e si mise a sedere sul letto.
    “Scusami se mi sono permessa, non avrei dovuto, insomma ora sei libero di denunciarmi, magari mi prendi pure per una pazza stalker, ma il tuo vicino mi ha detto che non ti saresti arrabbiato, io mi sono fidata, in fin dei conti ho pensato, che male c’è?” parlò in fretta senza scandire le parole per via del nervosismo, Spencer scoppiò a ridere e la rassicurò dicendole che non l’avrebbe né denunciata e né considerata una “pazza stalker”.
    Madison si tranquillizzò e si sedette anche lei sul letto dopo aver chiesto il permesso al dottor Reid.
    “Com’è finita con il caso?” gli domandò. Spencer sospirò e le raccontò come si fossero svolti gli eventi, parlandole anche del padre, William.
    “Beh, Spence, tuo padre è un avvocato. Lo sai, anche il mio lo è, quindi figurati, capisco la sua situazione” provò a giustificarlo Madison. “Non lo dovresti giustificare” ribatté il dottor Reid con troppa enfasi che incuriosì Madison.
    “Mmm.. qualcosa mi dice che non sei arrabbiato con lui per questo caso” dedusse, il dottor Reid riconobbe che era vero. “Tra me e mio padre le cose non vanno molto bene…” esordì il giovane sistemando i capelli dietro l’orecchio come faceva sempre quando aveva difficoltà a raccontare qualcosa.
    “Lui è andato via quando io avevo dieci anni e da allora l’ho visto solo due volte: ieri e quattro anni fa” confessò, si sentì un po’ più sollevato.
    Madison sgranò gli occhi. “Caspita, frequenti le sue visite. Scusami, se sono indiscreta, ma perché è andato via?”
    “E’ andato via perché non riusciva a reggere la situazione, o almeno così ha detto” tagliò corto Spencer.
    “Reggere la situazione? Quale situazione?”
    Reid sospirò, fu tentato dal non dirle nulla, ma la verità è che aveva bisogno di parlarne con qualcuno e Madison era una sua amica dopo tutto.
    “La situazione con me, io non ero un bambino come gli altri, e lui non sapeva come gestirmi”
    Madison si scioccò nel sentire quell’affermazione, addirittura avvertì rabbia. “Non sapeva come gestirti? Ma stai scherzando? Cosa c’è da gestire in te? E poi sei esattamente come tutti gli altri!” esclamò.
    Spencer si sorprese nel vedere la reazione di Madison e capì che doveva starle molto più a cuore di quello che pensava.
    “Tua madre?” gli domandò la giovane dottoressa, voleva sapere se almeno un genitore si fosse comportato come si deve. “Mia madre mi è sempre stata vicino, ma purtroppo soffre di schizofrenia. Quando ho compiuto 18 anni, l’ho costretta a ricoverarsi, io le volevo bene, ma non potevo più prendermi cura di lei.”
    Madison annuì, aveva fatto la cosa giusta, ma suo padre …
    “Quindi tuo padre ti ha lasciato da solo pur sapendo che tua mamma non si sarebbe potuta prendere cura di te pienamente?”. A quel punto era decisamente arrabbiata, come può un padre fare qualcosa di simile?
    “Spencer, tuo padre ha sbagliato e fai bene ad esserti arrabbiato. Tu eri suo figlio e ti ha lasciato da solo pur sapendo che tu avevi bisogno di lui e non è giusto”
    Spencer sentì le lacrime pungergli gli occhi ma le ricacciò indietro, Madison si accorse del suo stato e gli andò vicino.
    “Un padre non dovrebbe mai abbandonare suo figlio, neanche se è “difficile” da gestire, cosa che tu non sei” gli disse prendendogli il viso fra le mani. Spencer sorrise timidamente, e rimase immobile.
    “Mi ha scritto una lettera” le riferì, Madison sollevò un sopracciglio. “Che ti ha scritto?”
    Il dottor Reid alzò le spalle confessando di non averla ancora letta. “Dovresti farlo” lo incoraggiò lei. “Sai, anche io sarei arrabbiata e farei esattamente come te, ma nella vita a volte bisogna anche saper perdonare”
    Spencer le disse che lo sapeva, e le promise che l’avrebbe letta. A quel punto la dottoressa dovette salutarlo, doveva correre in ospedale, Spencer le disse che non doveva preoccuparsi e Madison gli stampò un bacio sulla guancia promettendogli che l’avrebbe chiamato nel pomeriggio prima di uscire dall’appartamento.

    Più tardi quella stessa mattinata, Madison prese il cellulare e compose il suo numero di suo padre, James Elliot Thompson. “Mads! Che bello sentirti! Come stai?” le rispose entusiasta il padre, da quando era a Washington lui era quello che soffriva di più della sua mancanza. “New York non è la stessa senza di te, quando torni? Le nostre paperelle ti aspettano!”disse alludendo alle papere del laghetto del Central Park a cui davano da mangiare tutte le domeniche.
    “Solo le paperelle?” lo stuzzicò la figlia. “Anche io” confessò l’uomo ridendo.
    “Verrò presto, promesso. Ma ti chiamavo per un’altra questione” rispose tornando seria. Il padre gli disse che era tutto orecchie e la invitò a parlare.
    “Ho uno scoop e ti piacerà. Riguarda uno dei futuri candidati del partito democratico al congresso …” iniziò il racconto la giovane. Quella storia doveva saltare fuori e suo padre era la persona giusta.

    James E. Thompson non fu l’unico padre a ricevere una chiamata quella mattina. Anche Spencer decise di telefonare a suo padre dopo aver letto la lettera che William gli aveva scritto, in cui confessava che anche lui soffriva per la sua assenza, che capiva quanto lui dovesse essere arrabbiato perché non si era comportato come un padre, e perché nonostante glielo avesse già detto in precedenza, non aveva fatto nulla per rimediare. “Ora ho capito che io voglio essere presente nella vita e voglio che tu sia presente anche nella mia. Mi manchi Spencer, per quanto possa essere difficile crederlo, mi fa male vedere coppie di padri e figli camminare per strada sapendo che anche io potrei essere come loro, ma che per colpa mia non è così. Spero che tu possa perdonarmi, e che mi consenta di venire da te qualche volta..”
    Queste erano le parole con cui aveva deciso di concludere quella lettera che commosse Spencer nonostante si fosse promesso che doveva rimanere impassibile, vinse la ritrosia che provava nel telefonargli e alla fine compose il suo numero.
    “Pronto” rispose suo padre con voce stanca. “Sono Spencer” si presentò il giovane facendo una lunga pausa.
    “Ho letto la tua lettera, io credo che vada bene, cioè va bene se tu vuoi venire qui a Washington, io..” pronunciò la frase in modo piuttosto confuso. Non sapeva bene cosa dire.
    Suo padre si emozionò nel sentirglielo dire. “Grazie” fu tutto ciò che gli disse, non aveva bisogno di dirgli più nulla.
    Suo figlio gli aveva dato una seconda opportunità ed era tutto ciò che contava.

     
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