Just smile.

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  1. Antu_
     
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    “New Orleans, I love you”




    Erano passati diversi giorni dal ritorno della squadra della B.A.U da Las Vegas, Hotch non aveva avuto modo di parlare con Spencer da allora e quando lo vide da solo nell’open space seduto alla propria scrivania ne approfittò per fare una chiacchierata con il più giovane dei suoi agenti.
    “Buongiorno Spencer” lo salutò l’uomo sorprendendo Reid nel sentirlo chiamarlo per nome, non lo aveva mai fatto prima. “Mi sta per licenziare?” fu il primo pensiero che balenò in testa al giovane, d’altronde Hotch non era il tipo da quattro chiacchiere in compagnia quindi non immaginava altre motivazioni per quell’improvvisa comparsa.
    L’agente Hotchner notò il disagio del genio del F.B.I. che stava cominciando a sudare e si sforzò di sorridere per apparire un po’ più amichevole, cosa che rese ancora più nervoso Spencer che si convinse di essere davvero sul punto di essere licenziato.
    “Tranquillo, Reid, non è nulla di grave. Volevo sapere solo come stavi, il fatto di tuo padre ti aveva parecchio scosso perciò mi chiedevo se andasse tutto bene. Sai, tu non chiedi mai una pausa, io non ho problemi se ti prendi un giorno o due” gli disse Hotch.
    “Mmm, credevo di aver esaurito tutte le mie ferie con la mia assenza per il fatto di Maeve..” mormorò il giovane incredulo che l’agente supervisore gli avesse offerto una giornata libera a spese del bureau.
    “Reid, non hai esaurito nulla. Ti sarai assentato forse per due settimane, mica per mesi” gli disse Hotchner facendogli un sorriso, che fu ricambiato da Spencer che ancora lo fissava stranito.
    “Sai, diverse persone qui vorrebbero essere nella tua posizione e avere una giornata libera” gli ricordò l’agente supervisore, Spencer riconobbe che Aaron aveva ragione, insomma si trattava di un solo giorno, che c’era di male?
    “Domani sarò qui alle sette in punto” affermò Spencer che si affrettò a raccogliere le sue cose prima che l’agente supervisore si pentisse. All’improvviso si bloccò, “Non è una prova per capire quanto ci tenga a lavorare, vero? Perché io ci tengo moltissimo, Hotch, cioè non ho alcun problema qui, anzi mi piace..”
    Hotchner roteò gli occhi, il dottor Reid sapeva essere molto fantasioso. “Reid, vai” lo esortò e poi tornò nel suo ufficio dopo avergli augurato di trascorrere una bella giornata.

    Era appena sceso dalla metropolitana, quando ricevette una chiamata che rese quella giornata ancora più assurda.
    “Spencer, vecchio mio, che fai di bello? Catturi qualche criminale impazzito?”, era Ethan, il suo vecchio amico dei tempi dell’accademia, che attualmente viveva a New Orleans dopo aver abbandonato l’accademia per dedicarsi alla musica.
    “Al dire il vero, ho appena avuto la giornata libera” rispose Spencer ridendo, era ancora incredulo e temeva che Hotch potesse richiamarlo da un momento all’altro per dirgli di tornare indietro.
    “Perfetto, non avresti potuto darmi notizia migliore. Sono a Washington, ci vediamo per un caffè?” gli chiese, Spencer accettò di buon grado, gli faceva piacere rivedere il suo vecchio amico. “Dove ci vediamo?” gli chiese, Ethan gli rispose che era in un bar sulla settima. “Arrivo subito”
    Fu lì in meno di 20 minuti, quando riconobbe Ethan corse per andargli incontro, i due si abbracciarono.
    “Hey, hai cambiato taglio di capelli” gli disse l’amico dopo averlo scrutato per bene. Spencer rise, “Anche tu”.
    Poi prese posto nel tavolino dove Ethan si era seduto e furono subito serviti da un cameriere, ordinarono due cappuccini.
    “Che racconti di bello? Non ti sento da molto. È successo qualcosa di nuovo nella tua vita?” gli domandò Ethan mentre sorseggiava il suo cappuccino. Spencer aggrottò la fronte e si passò una mano per i capelli, da dove doveva cominciare?
    “Beh mi è successo di tutto in questo periodo, credimi, incluso un avvicinamento con mio padre” confessò il giovane. “Reid, è perfetto” esclamò, ogni tanto gli piaceva chiamarlo per cognome come faceva quando erano due cadetti. “Ma qualcosa è andato storto?” gli chiese poi, aveva un’espressione triste, non poteva essere tutto ok.
    Spencer a quel punto gli raccontò di Maeve e della sua morte, Ethan rimase stupito. Si chiese come fosse possibile che quel ragazzo avesse tanta sfortuna.
    “Spence, mi dispiace, davvero. Spero che ora tu stia meglio, per quanto sia possibile esserlo” lo consolò l’amico, Spencer gli sorrise. “Piano piano tutto passa” lo rassicurò.
    Ed era vero, cominciava a sentirsi un po’ meno solo, ma soprattutto si sentiva meno triste.
    I due continuarono a chiacchierare del più e del meno per tutta la mattinata, Ethan gli svelò la motivazione della sua visita a Washington: doveva esibirsi al Blue Bell quella sera, un locale di Washington molto frequentato.
    “Mi esibisco insieme alla mia nuova fidanzata, Marisol. Ti piacerà, ne sono sicuro, è argentina, ma è cresciuta qui perciò il suo accento è perfettamente inglese, ed ha una voce pazzesca” gli raccontò gesticolando come al suo solito.
    “Non vedo l’ora di conoscerla” rispose Spencer, infine insieme si avviarono per fare una passeggiata per le strade di Washington.
    Stavano camminando per Rhode Island Avenue quando un odore di pesca e miele invase le narici di Spencer, era il profumo di Madison, lo avrebbe riconosciuto fra mille, si voltò alla ricerca della sua vicina di casa e vide una chioma rossa venire verso di loro.
    Indossava gli occhiali da sole perciò pensò che non lo avesse visto, era appena uscita da Starbucks come dedusse riconoscendo il frappuccino della nota catena di caffè.
    “Chi guardi?” domandò Ethan voltandosi a sua volta dopo essersi accorto che non stava camminando. “Oh, la deliziosa fanciulla laggiù” esclamò dopo aver notato Madison che nel frattempo si era fermata davanti a una vetrina di un negozio. Ethan diede una gomitata a Spencer per indurlo a chiamarla, il giovane annuì. “Maddie”
    Thompson si girò, alzò gli occhiali sistemandoli fra i capelli a mo’ di cerchietto, e quando riconobbe Spencer gli rivolse un grande sorriso. “Spence” disse andandogli incontro, indossava uno spolverino nero da cui si intravedevano solo le gambe coperte da un paio di calze blu elettrico abbinate a dei ricami del medesimo colore che ricorrevano nella sciarpa che le avvolgeva il collo, ai piedi portava un paio di tronchetti neri.
    “Lui è il mio amico, Ethan” lo presentò Spencer, i due si strinsero la mano. “Piacere” disse il giovane sorridente.
    “Anche tu lavori per l’F.B.I.?” chiese Madison ad Ethan, che scosse la testa facendo una smorfia. “Ci ho provato, ma non faceva per me. Sono un’artista, infatti mi esibisco stasera al Blue Bell, se ti vuoi unire” la invitò il musicista, invito che fece piacere al dottor Reid, avrebbe avuto compagnia.
    “Certo! Mi fa piacere, oggi è il mio giorno libero quindi va benissimo!” accettò la giovane, poi si girò verso Spencer. “Ma tu non dovresti essere al lavoro?” gli domandò, Spencer le raccontò che era stato Hotch a invitarlo a prendersi una giornata libera e lui aveva accettato senza pensarci.
    Madison alzò il sopracciglio sorpresa, doveva essere proprio un bel tipo quel Aaron Hotchner.
    “Ti ha mai detto nessuno che hai gli occhi più belli di tutta la East Coast?” si complimentò Ethan, non voleva sedurre la giovane dottoressa ma fare complimenti faceva parte del suo modo di essere.
    “Addirittura? Mi hanno detto che avevo gli occhi più belli di New York, ma addirittura dell’intera East Coast mai” affermò Madison divertita per quello stravagante complimento.
    “Perché non avevi mai conosciuto un uomo in grado di apprezzarli veramente” la stuzzicò lui con un gesto molto galante, che un po’ lusingò Maddie.
    Spencer assistette a quello scambio di battute senza proferire parola, non ne era felice anzi gli aveva dato leggermente fastidio che l’amico fosse entrato così tanto in confidenza con la sua amica, perciò decise di mettere fine a quel giochino. Ethan stava per fare un altro dei suoi complimenti quando intervenne. “Andiamo a questa mostra?” domandò ai due, mostrò un volantino in cui si parlava della mostra di un certo Yang, un fotografo e sculture cinese. Aveva visto il volantino mentre usciva dalla metro e sarebbe andato a vederla quella stessa mattina, ma poi Ethan lo aveva chiamato e se n’era scordato.
    Madison annuì dicendo che per lei andava bene, Ethan alzò le spalle, lui era d’accordo con qualsiasi iniziativa.
    Si stavano per avviare diretti verso la galleria d’arte dove si teneva la mostra quando Ethan con un gesto della mano bloccò la loro andatura. “Prima devo sapere una cosa, indossi qualcosa sotto quel cappotto?” domandò alla giovane dottoressa che rise guardando Spencer. “Al dire il vero, sotto il cappotto ho solo l’intimo” lo scherzò lei per stare al gioco. Ethan fece un occhiolino al dottor Reid, “Dobbiamo sbrigarci ad andare in un posto dove faccia caldo così si toglie il cappotto” suggerì facendo finta che Madison non ascoltasse, questa prese i due per il braccio mettendosi in mezzo e li trascinò verso la galleria prima che Ethan dicesse altre idiozie.

    “Mmm.. definiamo il concetto di arte” affermò schifato Ethan di fronte a quello scempio che avevano osato definire “scultura”.
    “Secondo voi che cos’è? Secondo me è una nuvola!” disse Madison girando intorno alla scultura.
    Spencer aggrottò la fronte e si posò una mano sul mento. “No, secondo me è una pecora, più precisamente una Scottish Blackface. Lo sapevate che è l’esemplare più comune della razza ovina nel Regno Unito?”
    Madison roteò gli occhi, ancora non era abituata alle uscite da “enciclopedia” del dottor Reid.“Io non sapevo nemmeno che esiste una pecora con un nome simile”
    Ethan si mise a ridere. “Secondo me l’artista, se così lo possiamo definire, ha voluto rappresentare una scimmia in posizione fetale”
    Madison lo guardò perplessa. “Ok, fra i tre io sono quella con meno fantasia” riconobbe dopo aver sentito le ipotesi dei due.
    Uscirono dalla sala in cui erano esposte le sculture di Yang ed entrarono nel vivo della mostra fotografica; le fotografie, che ritraevano per la maggiore paesaggi caratteristici del continente asiatico, piacquero molto ai tre che convennero che sebbene come scultore Yang non volesse gran che, come fotografo invece emozionava.
    “Andiamo a mangiare? Io sto morendo” propose la giovane che quella mattina non avevo fatto colazione, ad eccezion fatta per il frappuccino di Starbucks.
    I due accompagnatori furono d’accordo, anche loro avvertivano un certo languorino. “Tortillas?” suggerì dopo una breve riflessione.
    Spencer arricciò le labbra. “Mmm… non mi va la cucina messicana. Cinese?”
    Ethan fece una smorfia, il cinese lo evitava dall’ultima volta che ebbe un’intossicazione alimentare. “Io direi di mangiare una bella pizza!”
    I due si trovarono subito d’accordo e andarono alla pizzeria all’angolo della strada.

    Erano intenti a mangiare il loro pranzo, avevano quasi divorato un’intera pizza in pochi minuti, quando Ethan ricevette una chiamata, era Marisol. Il viso del giovane musicista si illuminò quando vide il nome della sua fidanzata lampeggiare sul display del suo cellulare; “E’ Marisol” disse ai due scusandosi per la momentanea assenza, i due annuirono ed Ethan s’allontanò.
    “Com’è andata con tuo padre?” gli domandò Madison approfittando dell’assenza di Ethan, non sapeva se Spencer avrebbe gradito che si parlasse dei suoi fatti privati apertamente perciò aveva evitato di domandarglielo prima.
    “Il prossimo weekend dovrebbe venire a trovarmi qui” gli rispose, aggiunse che era fiducioso che dopo tanti anni avrebbero potuto trovare un punto d’incontro. Madison gli sorrise e gli strinse la mano che aveva posato sul tavolo, “Hai fatto la cosa giusta” lo incoraggiò. In quel momento Ethan concluse la propria telefonata e tornò al tavolo con un’espressione rammaricata, si buttò sulla sedia e sbuffò. “Marisol non è riuscita a partire per via dello sciopero dei treni. Sono senza cantante, ora come faccio?”
    “Le probabilità di trovare una cantante disponibile in una città dove non conosco praticamente nessuna è più bassa di quella di trovare uno scoiattolo canterino ”
    Spencer alzò le spalle e rise. “Io di sicuro non posso aiutarti. Sono stonatissimo, forse sarebbe meglio davvero uno scoiattolo”
    Madison alzò timidamente il dito indice. “Forse io potrei aiutarti”
    Ethan fu entusiasta subito di quell’affermazione. “Davvero? Oddio, Madison, mi salvi la vita. Chi conosci?”
    La giovane si ravvivò i capelli con una mano e si morse un labbro. “Me stessa” disse dopo una breve pausa, Spencer la guardò stranito, non aveva idea che cantasse.
    L’entusiasmo di Ethan si spense altrettanto velocemente, era un ingaggio importante per lui e non se la sentiva di affidare la sua buona riuscita ad una dilettante, però valeva la pena tentare perciò le disse di intonare qualcosa.
    “Qui?” domandò imbarazzata la rossa guardandosi intorno, il locale era pieno.
    Ethan annuì sottolineando che quella sera eventualmente il locale sarebbe stato altrettanto pieno, quindi sarebbe stata la stessa cosa. Madison si schiarì la gola e intonò le prime note di “No One” di Alicia Keys, una delle sue canzoni preferite.
    Ethan gradì molto la voce della sua nuova amica, e da quel momento, cantante provvisoria; anche Spencer rimase stupito, cantava abbastanza bene.
    “Bene, allora muoviamoci, dobbiamo provare” affermò alzandosi e trascinandosi con sé la dottoressa Thompson che non aveva ancora finito di mangiare la sua pizza.

    “Sono Ethan, dovrei esibirmi stasera. Lei è Madison, la cantante” si presentò al proprietario del locale, facendo altrettanto con la sua accompagnatrice.
    “Avevi detto che si chiamava Marisol la tua cantante!”ricordò l’uomo ripensando alla conversazione che avevano avuto al telefono nemmeno una settimana prima.
    “Madison, Marisol. Siamo lì, no?” mentì Ethan, sperava non avere troppi problemi, quella serata doveva riuscire.
    L’uomo sollevò un sopracciglio, pensò che il musicista lo stessa raggirando, ma non gli interessò più di tanto. “Il palco è tuo, più tardi arriverà il tecnico del suono e controllerete tutto il resto” spiegò poi andò via alludendo ad un incontro con sua moglie.
    “Ok, Madison, dovremmo suonare “Mercy”di Duffy? La conosci?” le domandò Ethan mentre prendeva posto al piano, per il resto degli strumenti avrebbero usato una base.
    Madison annuì, ma rammentò di non ricordare bene il testo perciò suggerì di utilizzare momentaneamente il cellulare, a furia di leggere, le sarebbe venuto in mente.
    Ethan suonò le prime note della canzone per aiutare Madison a prendere il ritmo e la giovane lo seguì con non poca fatica. La prima prova fu un completo disastro, tra Madison, che non ricordava le parole e saltava qualche riga leggendo dal suo smartphone, e Ethan che sosteneva che il piano era scordato.
    Spencer scoppiò a ridere osservando i due battibeccare su chi sbagliasse. “Tu parti prima” la accusò Ethan.
    “Niente affatto. Sei tu che sbagli l’intro!” replicò Thompson.
    Dopo un’oretta passata a ripetere sempre le stesse note e a discutere, finalmente trovarono l’armonia e poterono concentrarsi sugli altri pezzi per la serata. Avrebbero suonato tre pezzi insieme: “Mercy” di Duffy, “Princess of China” dei Coldplay, che erano le canzoni che aveva scelto Ethan in accordo con Marisol, e “Acapella” di Karmin, suggerita da Madison che avrebbe suonato la chitarra mentre Ethan si sarebbe occupato delle percussioni.
    “Madison, dovresti cambiarti” l’avvisò Ethan alla giovane mentre ridefinivano gli ultimi dettagli della loro performance.
    “Cambiarmi? E come faccio? Non ho il tempo di andare a casa!” protestò lei pensando che dovevamo essere pronti nel giro di un’oretta e che per arrivare al suo appartamento sarebbero stati necessari almeno 40 minuti.
    “Indossa il vestito di Marisol, avete la stessa taglia. Forse ti andrà un po’ più corto però” suggerì lui osservando la figura dalla giovane.
    Madison annuì con poca convinzione e gli disse di darle il vestito ed Ethan la invitò seguirlo nel camerino dove aveva posato tutto il materiale per la serata.


    “Io non ho alcuna intenzione di uscire con questo coso addosso sul palco” affermò Madison mentre si mostrava davanti a Ethan. “E’ scandaloso” aggiunse alludendo alla lunghezza che a mala pena le copriva il sedere.
    Ethan alzò le spalle, non vedeva il problema, avrebbe solo garantito l’attenzione del pubblico maschile, ma preferì non esprimere a voce alta quel pensiero. “Secondo me è perfetto” ribadì.
    “Non se ne parla, io non lo indosso. Quindi o indosso il mio tubino nero oppure dovrai cantare da solo” lo minacciò la ragazza entrando di nuovo in camerino senza dare il tempo di replicare ad Ethan, che nel frattempo fu chiamato dal tecnico del suono per gli ultimi dettagli.
    Spencer vide uscire l’amico e gli domandò se fosse tutto a posto. “Domandalo a lei” tagliò corto Ethan che andava di fretta, l’agente decise di farsi gli affari suoi e rimase fuori dal camerino.
    “Ethan si è incastrata la cerniera del vestito, mi dai una mano?” urlò Madison da dentro il camerino.
    “Ethan è andato dal tecnico del suono, ti do io una mano” disse Spencer entrando nel camerino, la giovane annuì e si voltò sollevando i capelli. “Riesci?” domandò all’amico che stava avendo un po’ di difficoltà, anche se non era chiaro se fosse per la cerniera incastrata o per la situazione in sé e per sé.
    “Ok, ci sono riuscito” le rispose mentre tirava su la cerniera. “Perfetto” esclamò lei voltandosi dopo essersi ravvivata i capelli.
    “Augurami buona fortuna” disse all’amico mentre si ritoccava il trucco. “Rompiti una gamba” rispose Spencer, Madison lo guardò stranita. “Hai fatto teatro?”
    Spencer scosse la testa e iniziò con la storia dell’origine di quel famoso modo di dire, Madison fece una smorfia e lo stoppò. “Reid, la lezione più tardi, ok?” gli diede un bacio sulla guancia e uscì dal camerino per raggiungere Ethan.


    La serata andò benissimo, il pubblico applaudì ai due performer e il proprietario rimase molto soddisfatto. “Sarai il benvenuto qui, Ethan, quando vorrai esibirti” gli disse mentre Ethan riceveva il compenso per la propria esibizione.
    “Madison, io non so come ringraziarti, permettimi di dividere con te parte dell’incasso” le disse Ethan quando raggiunse i due che erano rimasti fuori.
    Madison scosse la testa e gli sorrise. “Mi sono divertita tanto stasera, quindi non devi assolutamente preoccuparti” “Vi posso almeno offrire qualcosa per sdebitarmi?” propose Ethan ai due, Madison però si scusò dicendo ai due che doveva proprio scappare.
    “Domani mattina devo essere in ospedale molto presto. Però la prossima volta che torni, volentieri!” aggiunse.
    Reid pure si scusò con l’amico ricordandogli che doveva essere al bureau alle sette in punto l’indomani, a quel punto il musicista chiese a Spencer di accompagnarlo al suo albergo e Madison prese un taxi di ritorno a casa dopo averli salutati.
    “E’ davvero molto simpatica e carina. Quanto tempo dovrà passare prima che tu ammetta che ti piace?” gli domandò Ethan quando rimasero soli incrociando le braccia.
    Spencer rimase a bocca aperta e abbassò lo sguardo, l’amico scoppiò a ridere. “Sei sempre il solito” lo rimproverò bonariamente mentre gli dava una leggera pacca sulla spalla. “Su, andiamo. È tardi”
    I due si avviarono diretti verso l’albergo che avrebbe ospitato Ethan quella notte; come ai tempi dell’accademia, camminavano spensierati per le strade di Washington, godendosi gli ultimi istanti del loro incontro, mentre la notte calava sulla città.

    Lontano dalla vivacità della capitale, in una vecchia cittadina dello Stato del North Dakota, qualcuno si muoveva nell’ombra, tra scaffali zeppi di antichi tomi impolverati; con i polpastrelli sfiorava i vecchi manuali fischiettando.
    “Eccolo” esclamò prendendo dalla libreria un pesante volume, soffiò sulla copertina provocando una nube di polvere che si diffuse nell’ambiente illuminato da una vecchia lanterna ad olio.
    “E’ un vecchio cimelio di famiglia, è molto prezioso” disse accarezzando la copertina, dal fondo della stanza si sentì un gemito. L’uomo si avvicinò lentamente, si sedette di fronte alla sua prigioniera, che con gli occhi sgranati, pieni di paura, lo scrutava legata ad una sedia.
    L’uomo le accarezzò la guancia lungo cui scivolava una lacrima. “Questo ti aiuterà a guarire”
    La donna gemette e scoppiò in singhiozzi implorando di lasciarla andare. “Io non devo guarire. Sono sana, ti prego, liberami”
    L’uomo scosse la testa, e iniziò a pronunciare strane formule che leggeva dal manuale. Accese una candela e versò la cera calda sulla mano della donna che urlò dal dolore.
    “Il male, che vive in te, andrà via, non opporti” affermò l’uomo senza smettere di versare la cera bollente sul corpo della sua vittima. “Ammetti i tuoi peccati”
    “Io non ho fatto niente, ti prego, lasciami stare” continuò a implorarlo fra i singhiozzi.
    Fu allora che una seconda voce femminile si levò nell’ombra. “E’ un’anima persa ormai. Non puoi fare nulla per lei”
    “Ma madre, magari la possiamo ancora salvare” rispose con tono dispiaciuto, si girò verso la madre che scosse la testa. “Fai quello che devi” rispose la donna sparendo nel buio.
    L’uomo prese un bisturi che aveva in tasca, la piccola scintillò alla luce fioca della stanza. “Mi dispiace. Non hai bisogno del tuo cuore.”
    “Che stai facendo? Che vuoi fare? Oddio, ti prego, non farlo” lo pregò la donna, ma ormai non lui non si poteva più fermare.
    Diverse urla ruppero il silenzio nella stanza in quei frangenti finché il silenzio non calò di nuovo.



    “Purificazione”




    “Ti sei riposato, Reid?” gli domandò l’agente Morgan con un tono che non mascherò affatto la sua disapprovazione per la “mini vacanza” decisa da Hotch.
    Reid sorrise nel vedere la sua reazione. “Certo, mi sono riposato anche per te”
    Morgan alzò un sopracciglio sorpreso per la risposta dell’amico. “Stiamo diventando più ironici, eh?”
    Spencer alzò le spalle e si sedette alla sua scrivania mentre l’agente di colore continuava a fissarlo. “Ragazzino, non mi piace quest’atteggiamento. Mi manchi di rispetto” lo scherzò.
    In quel momento arrivò JJ di corsa ad interrompere il dialogo fra i due. “Avete visto Hotch?”
    I due agenti scossero la testa, Morgan ricordò di non averlo proprio visto passare quella mattina e Spencer confermò quanto già affermato dall’amico.
    “Cosa succede?” domandò Derek incuriosito dall’urgenza che evidentemente provava la collega per vedere l’agente supervisore.
    “Ci è arrivata questa oggi” mostrò ai due il fascicolo che aveva ricevuto quella mattina. “Le ho dato un’occhiata e credo sia il caso di intervenire”
    Reid prese il fascicolo e cominciò a leggerlo velocemente. “Credo che tu abbia ragione” affermò il giovane passando il fascicolo aperto sulla fotografia scattata dagli inquirenti sul luogo del ritrovamento del corpo a Derek.
    Morgan distolse lo sguardo. “Ha fatto quello che penso?” domandò ai suoi colleghi nella speranza che loro negassero l’incontrastabile verità.
    “Temo di si” rispose JJ. “Il medico legale lo ha confermato, le ha asportato il cuore. Prima che me lo chiediate: si, era viva” aggiunse mentre un brivido le percorse la schiena.
    “Richiamo Hotch, voi tenetevi pronti” consigliò ai due allontanandosi nel proprio ufficio.
    Mentre i due cominciavamo a raccogliere le proprie cose pronti per la partenza, Rossi fece il suo ingresso accompagnato da Blake ed un altro uomo sulla sessantina. “Chi è quello?” domandò Derek indicandoli con un leggero cenno del capo.
    “Credo che sia il sostituto della Strauss, il nuovo capo sezione” ipotizzò Spencer senza tuttavia riconoscere di chi si trattasse.
    I tre si diressero verso l’ufficio dell’agente Rossi seguiti da JJ che li raggiunse pochi minuti più tardi. “Che diavolo sta succedendo?” chiese Morgan nel notare quello strano atteggiamento, Spencer alzò le spalle, non ne aveva idea nemmeno lui.
    Il mistero durò molto poco, dopo una breve riunione l’agente Rossi uscì dall’ufficio accompagnati dai tre che con passo concitato si diressero verso i due agenti. “Vi presento Simon Donnelly, loro sono l’agente Morgan e il dottor Reid” disse Rossi non appena li raggiunse, l’uomo offrì la mano all’agente Morgan che gliela strinse, mentre Reid fece il suo classico saluto con la mano. “L’agente Donnelly sarà momentaneamente il nuovo capo sezione” lo presentò Rossi velocemente. Morgan e Reid guardarono l’agente con espressione interrogativa.
    “Non ho ancora accettato l’incarico” rispose l’uomo con tono rilassato.
    “Comunque siamo in partenza. Discuteremo il caso sul jet” annunciò Rossi .
    “Hotch?” domandò Spencer scattando comunque in piedi. L’agente Rossi lo informò che li avrebbero raggiunti più tardi e invitò i due agenti a fare in fretta.

    “La polizia di Valley City è rimasta così sconvolta dopo il ritrovamento del corpo sulle sponde del fiume Sheyenne che non ha esitato a contattarci” introdusse il caso JJ mentre tutti prendevano posto sulle comodo poltrone del jet.
    “Mai avevano avuto a che fare con una simile atrocità” aggiunse.
    Reid annuì. “Valley City è al quarto posto fra le città con il minor tasso di criminalità negli Stati Uniti” disse a conferma di quanto detto da JJ.
    “Credete che l’SI sia del luogo?” chiese Blake. JJ annuì. “La polizia crede di si, non tutti avrebbero saputo raggiungere quel punto del fiume senza una minima conoscenza del posto” spiegò all’agente.
    “A dare l’allarme è stato un pescatore che era solito pescare in quelle zone. Dite che l’SI potesse conoscere il posto per lo stesso motivo?” suppose Spencer.
    “Potrebbe essere.” opinò Blake. L’agente Rossi chiamò l’analista informatica, Penelope Garcia, per darle le ultime indicazioni, che rimase in collegamento con loro.
    “Cosa sappiamo della vittima?” chiese Donnelly rimasto in silenzio fino a quel momento mentre osservava l’interazione fra gli agenti della squadra dell’unità di analisi comportamentale di Quantico.
    “Si chiama Jenna May, 36 anni, laureata in Lingue e letterature straniere, insegnava lingua spagnola in un liceo di Valley City, ed è originaria di Orem, nello Utah. Abitava in città da pochi mesi” lesse JJ.
    “Il fatto che fosse in città da pochi mesi non esclude che l’SI non possa conoscerla, frequentava qualcuno in città?” chiese Rossi a Garcia che nel frattempo digitava sulla tastiera.
    “La nostra amica non faceva molto, era un tipa tutta casa e scuola. Ho davanti i movimenti della sua carta di credito negli ultimi mesi: ha acquistato un biglietto andata e ritorno ogni settimana per ritornare a casa da quando è a Valley City, grandi quantità di croccanti per cani, e un biglietto per il cinema venerdì scorso, è andata da sola. Lo conferma anche il suo status su facebook, sembra anche che fosse single”illustrò Garcia in brevissimo tempo.
    “Bene, non si tratta di un tradimento finito male” ironizzò Reid attirando su di sé gli sguardi interrogativi dei suoi colleghi. “Che ho detto di male? La percentuale di delitti passionali è aumentata del 14,7% negli ultimi anni”
    “Ignoralo Simon” suggerì Rossi al collega che sorrise a Spencer, rabbuiatosi per quella risposta.
    “Garcia, tienici informati. Noi ci aggiorniamo più tardi. Meglio rilassarsi un attimo prima di arrivare alla centrale” propose l’agente dopo aver spento la comunicazione con la loro analista.
    Reid prese il libro dalla tracolla che si era portato con sé e iniziò a leggere mentre Morgan con gli occhi socchiusi appoggiò la testa contro lo schienale della poltrona ascoltando, come al suo solito, della musica accanto al genio del F.B.I.
    Spencer era immerso nella lettura quando Garcia riaprì il collegamento. “Reid, ci sei?”
    Il giovane alzò la testa e aggrottò la fronte. “Qualcosa non va?” domandò all’amica che aveva un’espressione che non riuscì a decifrare. “Tutto ok, qualcuno voleva augurarti di trascorrere una bella giornata”
    L’espressione interrogativa del dottor Reid che piegò la testa a destra fece capire a Garcia che non aveva idea di cosa stesse parlando, la bionda rise. “E’ Madison, ti augura una bella giornata”
    “E tu che ne sai?”gli chiese curioso, non sapeva che le due si tenessero in contatto. “Me lo ha detto. Non è solo amica tua” gli disse e chiuse il collegamento senza permettere a Reid di domandare altro.


    “Benvenuti a Valley City, sono Roy Stevens” si presentò il capitano del distretto alla squadra non appena questa giunse in centrale.
    “Lieto di conoscerla. Loro sono l’agente speciale Derek Morgan e il nostro capo sezione Simon Donnelly, lei è l’agente speciale Jennifer Jereau, credo che già la conosca ”li presentò Rossi assumendo in quel momento le veci di Aaron.
    “Il resto della squadra, il dottor Reid e l’agente speciale Blake, sono momentaneamente dal medico legale, ci raggiungeranno più tardi”
    Il capitano annuì. “E’ arrivata questa nel frattempo” disse mostrando una busta gialla spiegazzata ai tre agenti.
    Donnelly la prese e la aprì. “E’ colpa sua. Non voleva ammettere i suoi peccati. Gli ha fatto del male, così male” lesse l’uomo. “E’ una sorte di giustificazione? Si crede forse un giustiziere?”
    Rossi alzò le spalle. “Gli ha fatto del male? A chi avrebbe fatto del male?”rifletté a voce alta l’agente.
    “JJ, parla con la coinquilina della vittima. Magari lei sa qualcosa di più” suggerì Morgan alla bionda che si precipitò a parlare con il possibile testimone.
    “Morgan, vai sulla scena del crimine assieme a Blake, ti raggiungerà lì. Io aspetto Reid, magari lui riesce a capire qualcosa di più” affermò Rossi alludendo alla lettera ricevuta. L’agente di colore obbedì e si avviò per raggiungere la collega verso il fiume Sheyenne.
    “Chi ha portato la lettera?” domandò Donnelly al capitano. “Il postino quindi sarà difficile ricavare le impronte. È molto inquinata come prova” rispose.
    “Qui, sulla busta c’è un altro indirizzo però, è sicuro che fosse diretta qui?” chiese l’uomo notando solo in quel momento l’indirizzo riportato sulla busta.
    “Si, l’indirizzo è quello della nostra vecchia stazione di polizia, per questo il postino l’ha portata qui” spiegò.
    “Quindi il nostro uomo non sapeva che la stazione di polizia fosse situata in un’altra via- disse Donnelly a Rossi che aggrottò la fronte, era molto ancora più confuso. “Da quanto tempo vi siete trasferiti?”chiese ancora al capitano.
    “Un paio di anni, non di più” disse che poi si scusò dicendo che doveva raggiungere uno dei suoi agenti.
    Rossi prese un pennarello e iniziò a scrivere sulla lavagna magnetica messa a disposizione dal dipartimento. “Sappiamo che Jenna May abitava qui da circa cinque mesi, il nostro SI però sembra che non lo abbia abitato qui negli ultimi due anni. Questo rende più difficile il loro collegamento” illustrò l’agente Rossi a Donnelly.
    “Se fosse stato in galera? Magari in un’altra città, è tornato e non sapeva che la stazione di polizia avesse cambiato indirizzo” suppose l’altro.
    Rossi annuì, era un’ipotesi del tutto plausibile. In quel momento rientrò JJ. “Jenna non si vedeva con nessuno, non aveva stretto amicizie con nessuno qui, a parte Beth, la sua coinquilina, e la sorella di Beth, Amanda” disse, poi si soffermò a leggere la lavagna.
    “E se Jenna fosse una sostituta di qualcuno?” ipotizzò lei, Rossi e Donnelly si trovarono d’accordo con ipotesi. Tuttavia non avevano sufficientemente elementi per capire di chi potesse essere la sostituta.
    Erano intenti a discutere fra di loro quando arrivò Reid. “Eccoti, leggi questa. Pensiamo che Jenna May fosse una sostituta” affermò Rossi porgendogli la lettera.
    Il dottor Reid restò in contemplazione della lettera per qualche minuto. “Credo che l’SI si riferisca a se stesso, piuttosto che ad un'altra persona, questo spiegherebbe il modo in cui è scritta la lettera, dalla grafia si può dedurre che fosse anche un po’ spaventato, turbato. Se consideriamo giusta quest’ipotesi, il fatto che ribadisca che è non stata colpa sua potrebbe indicare che l’SI fosse affezionato alla vittima, molto probabilmente lo ha ferito, e la sua mancanza di ammissione del peccato ammesso ha scatenato questa pulsione, che non ha saputo controllare. ” sciorinò il dottor Reid.
    “Le ha strappato il cuore perché forse l’avrà tradito. L’SI ha scambiato Jenna May per la sua ex compagna” suppose Donnelly, gli altri tre furono d’accordo con l’ipotesi dell’uomo.
    “Facciamo fare una ricerca a Garcia. Cerchiamo nativi del posto che abbiano manifestato qualche segno d’instabilità dopo una separazione, magari è stato denunciato per stalking” disse l’agente Rossi, che si mise in comunicazione con l’analista informatica subito dopo.


    Nel frattempo nella città di Washington, Aaron Hotchner si recava al Georgetown University hospital per accompagnare il piccolo Jack, reduce da una bruttissima notte insonne.
    “La dottoressa Thompson si prenderà cura del suo bambino” gli disse un’infermiera indicando una delle stanzine con la tenda blu dove la rossa stava facendo ambulatorio quel giovedì mattina.
    “Buongiorno. Siamo qui per lui” si presentò Aaron con espressione seria mentre posava le mani sulle piccole spalle di suo figlio in piedi davanti a lui con la testa bassa.
    Madison sorrise e si piegò sulle ginocchia. “Cos’hai, piccolo?”
    Jack rimase in silenzio, era molto imbarazzato e dispiaciuto, aveva fatto perdere una giornata di lavoro al suo papà, anche se da una parte la cosa lo rendeva felice, avrebbe trascorso una giornata con lui.
    “Ha avuto un forte mal di pancia tutta la notte e ha rimesso più di una volta” parlò il padre al posto del figlio.
    Madison si alzò in piedi e disse ad Aaron di sistemare il piccolo sul lettino perché potesse visitarlo meglio, l’uomo prese il bambino in braccio e lo sedette dicendogli di sdraiarsi.
    La dottoressa delicatamente premette con le mani sullo stomaco di Jack, che strinse i denti, gli faceva male. Poi passò le mani sul basso ventre per assicurarsi che non ci possono altri gonfiori. “Vediamo un po’” disse la rossa mentre utilizzava lo stetoscopio per l’auscultazione.
    “Non è nulla. È solo un’indigestione, ma ormai il peggio è passato” comunicò Madison ad Aaron che tirò un respiro di sollievo.
    “Bene, ti do queste. Prendile ora e poi stasera di nuovo prima di cena, va bene?” disse al piccolo che prese la pillola che Madison le tendeva assieme ad un bicchiere.
    “Le dovrà prendere per una settimana” aggiunse rivolgendosi ad Aaron. “Le faccio la prescrizione, mi dia i dati di suo figlio”
    Aaron le passò i documenti richiesti alla dottoressa che nel leggere il cognome del piccolo paziente rimase un po’ incerta. “Hotchner? Lei è Aaron Hotchner?” domandò a Hotch che annuì senza cambiare la propria espressione.
    “Conosco due dei suoi agenti della squadra di analisi comportamentale: Derek Morgan e Spencer Reid” gli spiegò mentre le tendeva la prescrizione appena compilata. “E anche Penelope”
    Aaron sorrise alla dottoressa. “Sì, sono in squadra con me” confermò.
    “Certo che deve essere difficile far coincidere gli impegni di genitore con quelli di un agente del F.B.I.” affermò Madison, l’agente fece un piccolo sospiro, come darle torto? A quel punto Jack fu di nuovo accanto a suo padre e lo tirò per una manica. “Andiamo a casa?” lo pregò suo figlio imbronciato.
    Madison sorrise di fronte a quella reazione. “Jack, ti regalo un lecca-lecca, però mi prometti che lo mangerai quando starai meglio?”
    Jack annuì e prese il lecca-lecca che la rossa gli offrì dopo averla ringraziata. Aaron ringraziò a sua volta la dottoressa che con aria gioviale continuava a sorridere. “È stato un piacere” disse ai due mentre riponeva la cartella fra quelle dei pazienti già visitati.
    Hotch prese per mano il figlio e uscì dallo stanzino dopo aver salutato la dottoressa, che ricevette subito un altro paziente.

    “E’ stato ritrovato un altro corpo, in altro punto isolato del fiume da un altro pescatore. Crediamo che sia lo stesso assassino” annunciò il capitano alla squadra riunito per stilare il profilo. “Si tratta di Geoffrey Duncan, 77 anni, abitava qui da molti anni. Questa volta ha lasciato un biglietto sul corpo, ha scritto “Dovevo, lui non poteva essere purificato” proseguì l’uomo mentre con una puntina appendeva la fotografia del corpo ritrovato sulla lavagna.
    “L’SI gli ha tagliato le mani post mortem, credo che sia il suo trofeo, ma l’ha sottoposto ad una tortura per diverse ore. Duncan ha lottato, sulle braccia e sul corpo sono state riportate diverse abrasioni. L’SI lo ha pugnato diverse volte al ventre” lesse il rapporto del medico legale l’agente Blake.
    “E’ molto personale, il fatto che l’SI abbia deciso di pugnalare la sua vittima implica che la conoscesse. Anche questa volta avrà utilizzato un sostituto?” affermò Morgan dopo una breve riflessione.
    Rossi si mise in collegamento con Penelope per domandarle ulteriori informazioni sulla vittima. “Geoffrey Duncan non era un santo. È stato denunciato più volte in passato per violenze domestiche ed è stato anche indagato per l’omicidio della sua compagna, Tamara Cundy. Il caso si è chiuso senza il ritrovamento di un colpevole. L’unico testimone dell’assassinio era il figlio della vittima, Harry Cundy, avuto in una precedente relazione, ma era stato dichiarato mentalmente instabile e di conseguenza era stato internato in una clinica psichiatrica, ma dimesso pochi mesi dopo. Gli era stata prescritta una cura e imposto dei controlli periodici” li informò l’analista informatica. “Sembra però che non andasse dal suo psichiatra da almeno sei mesi”
    “Quanto tempo fa è morta Cundy?” domandò Spencer. “Circa cinque anni fa, il figlio Harry abitava con loro dopo la separazione dalla moglie, Lisa Hart” rispose la bionda. “Oh oh, la donna era bruna ed aveva all’incirca l’età di Jenna May all’epoca, dopo la separazione si trasferì a Seattle, non è più tornata qui.”
    “E’ lei la donna che Jenna May sostituiva. Il nostro assassino è Harry Cundy, corrisponde anche al profilo” affermò Rossi. “Il nostro SI avrà interrotto la cura, sarà in preda ad un delirio psicotico e questo l’ha portato a confondere Jenna con Lisa. Ha punito tutte le persone che gli hanno fatto male: Lisa e il suo patrigno. Ha punito Duncan per aver fatto del male alla madre, per questo le ha amputato le mani, la picchiava” continuò.
    “Cosa sappiamo di Cundy? E del suo vero padre?” chiese Morgan a Garcia. “Non molto, Harry ha vissuto con la madre e il suo compagno, il padre biologico è morto per embolia quando lui aveva tredici anni”
    “Lo hanno ritrovato seduto sulla sponda del fiume Sheyenne appoggiato ad una roccia” aggiunse l’analista consentendo ai nostri profiler di incastrare l’ultimo pezzo del puzzle.
    “Forse il padre era un pescatore, questo spiega la sua conoscenza del luogo” affermò JJ. “Dove è stato ritrovato il corpo?”
    Il capitano della squadra stava per dare le informazioni richieste, quando Reid li interruppe.“Non porta le vittime sulla sponda del fiume perché vuole nasconderle, ma perché crede che il fiume sia sacro e che possa purificarli dai loro peccati”
    “Jenna May non ha ammesso la sua colpa perché non era stata lei ad averlo tradito, perché per Duncan non c’era salvezza, lui non ha potuto purificarlo” continuò il giovane agente mentre tutti li puntavano gli occhi addosso.
    Rossi annuì, l’ipotesi di Spencer era del tutto plausibile. Tuttavia non sapevano ancora come trovarlo.
    “Garcia, c’è qualche proprietà a nome di Cundy?” chiese ancora Rossi. “Spiacente, non c’è niente a nome di Harry Cundy e nemmeno del padre”
    “Cerca qualcosa su sua madre Tamara invece” le consigliò Morgan. L’analista informatica iniziò a digitare sulla tastiera velocemente, dopo qualche minuto si pronunciò: “Trovato. La Cundy era proprietaria di un casale appartenente alla famiglia di sua madre, Harry ha ereditato la casa alla morte di sua madre, ma il passaggio di proprietà non è stato mai completato e la casa è rimasta abbandonata”
    “Dove si trova, Garcia?” domandò Rossi. Era più che sicuro che quella casa li avrebbe portati dritti dal loro S.I.
    “Indovinate un po’? Sulle sponde del fiume Sheyenne. Vi invio le coordinate sul tablet”
    Pochi secondi più tardi, i tablet s’illuminarono e si aprì una cartina riportando l’esatta posizione del casale della Cundy, Reid gettò un’occhiata alla cartina dove erano stati appuntati i luoghi dei ritrovamenti dei corpi, era esattamente a metà strada fra i due estremi.
    “Sicuramente è lì che l’SI si nasconde.” disse il giovane al resto della squadra che concordò con lui. Rossi organizzò velocemente le squadre per la cattura di Harry Cundy. Lui, il capitano Stevens, l’agente Morgan e Donnelly salirono sulla prima auto mentre il resto della squadra sulla seconda seguiti da una volante della polizia a cui fu ordinato di non accendere le sirene.
    Lungo la strada Garcia, che nel frattempo aveva proseguito con le sue ricerche, li richiamò. A rispondere alla chiamata fu JJ. “Garcia, sei in vivavoce” disse la bionda che era seduta accanto all’agente Blake al volante dell’auto.
    “Miei bei agenti, ho un’informazione per voi. Scavando nel passato della Cundy, ho scoperto che anche lei era un po’ strana” esordì la bionda creando un po’ di suspence. “Era un’adepta di una religione esoterica riconducibile alla tribù indiana Mandan”
    Reid in quel momento s’illuminò. “Madan hai detto? Questa tribù era molto attaccata al fiume Missouri, a cui erano dedicati tutta una serie di rituali. Purtroppo oggi i Mandan non esistono più, sono stati sterminati da una serie di epidemie di vaiolo, però le tradizioni sono rimaste vive fra le persone del posto. Sicuramente la madre di Cundy se n’è innamorata e ha deciso di unirsi a questa religione portando con sé il figlio Harry”
    “Bene, ecco il nostro collegamento al fiume. Grazie Garcia”. JJ attaccò la telefonata e si mise in comunicazione con Rossi per dargli gli ultimi aggiornamenti.

    “Dobbiamo avvicinarci con attenzione. Non sappiamo come l’SI potrebbe reagire alla nostra vista. Ricordiamoci che è in pieno delirio psicotico, potrebbe avere delle allucinazioni” ricordò Rossi ai suoi agenti che sarebbero entrati, scortati dalla squadra del capitano Stevens, nel casale della famiglia Cundy.
    Gli agenti annuirono e Morgan, ricevuto il segnale di David, aprì la porta con uno dei suoi soliti calci, irrompendo nel salotto della casa.
    “F.B.I.” urlò mentre velocemente si mosse nella casa alla ricerca di Cundy. JJ assieme a Blake si diressero verso la cucina, mentre Morgan e Rossi salirono lungo le scale per perquisire il piano superiore. “Libero” dissero all’unisono le due donne. “Anche qui” urlò Rossi dal piano superiore.
    In quel momento Reid che assieme all’agente Donnelly si era recato nel retro della casa, sentì un rumore provenire dalla cantina a cui era possibile accedere dall’esterno.
    Fece un segno all’agente Donnelly, che estrasse la pistola dalla fondina, e insieme scesero nella cantina. Reid avvertì Derek dei loro intenti, dicendo di rimanere fuori senza fare il minimo rumore.
    Non appena riuscì ad abituarsi al buio, Spencer si rese conto di essere nella scena del crimine, notò diverse macchie di sangue secco nel pavimento e il bisturi con cui era stato asportato il cuore a Jenna May. Si mosse in avanti e fu in quel momento che vide la figura di Harry Cundy seduta in un angolo abbracciato alle sue ginocchia che singhiozzava.
    “Non voglio farti del male. Sono un’agente del FBI, sono qui per aiutarti” si presentò Reid tenendo una mano in alto mentre con l’altra mostrava il distintivo.
    L’uomo alzò lo sguardo verso Spencer che gli rivolse un timido sorriso.
    La solita voce femminile si levò nella stanza. “Ti sta mentendo. Non vuole aiutarti, come non l’ha fatto con me”
    L’uomo rabbrividì e scoppiò in singhiozzi ancora più disperati. “Lasciami stare, è colpa tua. Solo tua”
    L’agente Donnelly fino a quel momento rimasto dietro la figura di Reid mentre puntava la pistola su Cundy si avvicinò a Reid, non c’era nessuno, oltre a loro tre, constatò.
    “Lei mi ha costretto. Diceva che era giusto così, che mi dovevo vendicare” si giustificò l’uomo mentre si dondola con la testa fra le mani. “Uccidili” gli ordinò la voce nella sua testa, l’uomo si rifiutò di farlo. “Hanno ucciso me, come puoi farmi questo, piccolo ingrato? Aiutami”
    “Non ti hanno ucciso loro. Lasciami in pace, ti prego” urlò Cundy nascondendo il viso fra le mani. Reid si abbassò e provò a mettere una mano sulla spalle dell’uomo che bruscamente si mosse rivolgendo uno sguardo carico di odio all’agente. “Harry, non c’è nessuno qui. Tua madre è morta, è solo un’allucinazione” provò a spiegargli Spencer con tono calmo.
    “Sparirà presto, io ti aiuterò. Sono qui per te, ti possiamo curare” lo incoraggiò il giovane. “Ti sta mentendo. Non ti aiuterà, ti lascerà morire” insistette la voce che mandò ancora di più in confusione Harry che cominciò a colpirsi la testa.
    “Vai via, vai via” supplicò a sua madre. Fu allora che prese dalla tasca del pantalone il pugnale impregnato dal sangue del suo patrigno e lo diresse verso di sé, Reid con una mossa scattò verso di lui riuscendo a bloccare il movimento dell’uomo che si abbandonò fra le braccia dell’agente lasciando cadere il pugnale.
    Harry iniziò a piangere convulsivamente e Reid ordinò a Donnelly di iniettargli l’antipsicotico che aveva portato con sé perché si calmasse.
    A quel punto l’agente Donnelly avvertì il resto della squadra di chiamare i paramedici e insieme attesero il loro arrivo.

    “Vi ringrazio, senza di voi sarebbe stato difficile catturare Cundy” ammise il capitano Roy mentre l’agente Rossi lo salutava. “E’ il nostro lavoro, non c’è bisogno di ringraziare” rispose David mentre stringeva la mano del capitano.
    Infine dopo che il resto della squadra salutò il capitano e i suoi agenti, partirono alla volta di Quantico.
    Nel jet mentre gli agenti dalla squadra dell’unità di analisi comportamentale si rilassavano, Rossi si sedette vicino all’agente Donnelly e gli offrì un bicchiere di scotch che l’uomo accettò.
    “Come ti è sembrato questo primo giorno?” domandò al collega, aveva già avuto modo di conversare con lui in precedenza e in qualche occasione avevano anche lavorato insieme. Simon Donnelly era a capo della squadra anti-terrorismo del F.B.I, gli era stato offerto il posto di capo sezione della B.A.U. grazie alla sua amicizia con la Strauss che in più di un’occasione lo aveva designato come un ottimo sostituto.
    “Non credo che accetterò” confessò mentre dava un sorso al suo scotch. Rossi annuì, riusciva a capire in un certo senso le motivazioni che riuscivano a spingere l’agente al rifiuto, nonostante per lui non fossero a sufficienza.
    “Non sarei un buon capo per te, o per il resto della squadra, e credo nemmeno per Hotchner” continuò.
    “Secondo me il ruolo di capo sezione dovrebbe prenderlo uno di voi. Tu sei molto più adatto di me, la vostra interazione è perfetta e siete degli ottimi agenti, non avete bisogno di qualcun altro ”
    Rossi gli sorrise, pensò che la Strauss non avrebbe concordato con quell’affermazione. “Ritorni dalla tua squadra quindi?”
    L’uomo annuì. “Hanno più loro bisogno di me” poi versò un altro bicchiere di scotch per entrambi e brindarono alla squadra e ai suoi ottimi agenti, che ancora una volta erano riusciti nel loro compito.



    L’agente Derrick (parte 1)


    Morgan si era appena svegliato da un lungo sonno ristoratore, aveva dormito a casa di Paget quella notte; aprì gli occhi e notò il lato sinistro del letto vuoto, mentre un odore di pancakes gli penetrava nelle narici, la mora si era alzata prima di lui ed era già in cucina per preparare la colazione.
    Si stiracchiò e fece piccoli movimenti circolari con il collo, come ogni mattina. Più per abitudine, che per reale necessità, indossò il pantalone e infilò il distintivo dentro la tasca, infine andò in cucina per raggiungere l’attuale fidanzata.
    “Buongiorno” disse mentre cingeva la vita di Paget che si voltò verso Derek e gli stampò un bacio sulle labbra.
    “Credo che ti abbia chiamato qualcuno prima” accennò lei mentre posava due tazze di caffè sul tavolo.
    Derek annuì e prese il cellulare che aveva dimenticato in soggiorno la sera prima, il nome che lesse sul display lo sorprese. “Wayne?” pensò stranito mentre avviava il messaggio lasciatogli da questi in segreteria.
    Wayne Derrick, agente della polizia di New York, un uomo tutto d’un pezzo, difficile da gestire, impassibile e testardo. In più di un’occasione Derek aveva potuto constatare la determinazione di quell’uomo, amante del rischio, oltre ogni dire, incapace di ammettere i propri errori. Era un ottimo agente, svolgeva il suo ruolo con estrema dedizione e austerità, sul campo si confermava sempre come il migliore, ma non era abituato a dividere il proprio palcoscenico con altri, motivo per cui stranamente e, soprattutto a malincuore, si rivolgeva all’F.B.I, quindi le sue richieste erano sempre di una certa serietà.
    “Morgan, ho bisogno di te. Il caso mi è sfuggito di mano, ho quasi perso uno dei miei agenti. Ti invio il resto del fascicolo. Fammi sapere.”. Il sintetico messaggio non sorprese Derek, abituato a quelle brevi descrizioni da parte dell’amico Wayne, ma non ebbe dubbi sull’importanza della richiesta.
    Paget lo osservò mentre prendeva il tablet e leggeva il fascicolo ricevuto. “Devi proprio farlo ora? È domenica mattina, non può aspettare?”
    Derek posò il tablet, ripromettendosi di guardarlo più tardi. “E’ tutto buonissimo” disse per farsi perdonare ammiccando, la mora lo guardò di sottecchi e rimase in silenzio, la colazione era rovinata ormai.
    A quel punto si alzò, mise la tazza nel lavandino. “Controlla pure il tuo fascicolo tanto io non ho fame”
    Derek scosse la testa e la guardò mentre usciva dalla cucina diretta verso la camera da letto; non la fermò, era stanco di doversi giustificare ogni volta. Finì di leggere il fascicolo e provò a rintracciare Hotch per proporgli il caso.
    “Agente Hotchner” si presentò l’uomo rispondendo al telefono, stava facendo jogging nel parco come ogni domenica mattina assieme a Beth, la donna si fermò e ne approfittò per fare una pausa.
    “Hotch, ho bisogno di vederti. Sono stato contattato da un mio amico, il detective Derrick di New York, ha chiesto la nostra collaborazione” spiegò in fretta. Hotchner gli diede un appuntamento per quella mattina stessa per analizzare il caso e decidere se fosse necessario intervenire, dopodiché riattaccò e riprese la sua corsa, mentre Derek finiva di vestirsi e usciva dalla casa di Paget senza essere nemmeno salutato.


    Madison stava sistemando il proprio guardaroba, aveva ancora diversi vestiti chiusi nelle valigie, e nessun spazio nell’armadio dove riporli. “Ok, o elimino vestiti oppure sarò costretta a comprare un nuovo armadio” pensò la rossa, stava ancora studiando il modo per sistemare tutti i suoi vestiti quando il cellulare prese a squillare.
    Era uno dei suoi vecchi colleghi del dipartimento di polizia di NY, Dylan Campbell; Madison sorrise, le faceva sempre piacere ricevere le telefonate del vecchio amico, anche se non erano soliti vedersi spesso. “Campbell, mi hai telefonato per annunciarmi il tuo fidanzamento ufficiale con Kelly, vero?”
    L’uomo rise, la vecchia collega insisteva sempre perché trasformasse quello che lui definiva un felice fidanzamento di oltre un decennio in un prevedibile matrimonio. “No, ma credimi, preferirei darti questa notizia” esordì.
    “Si tratta di Trevor” aggiunse riferendosi all’altro suo collega che lavorava nella squadra di cui il detective Wayne Derrick era a capo. “Che gli è successo?” domandò la giovane trattenendo il fiato.
    “Gli hanno sparato, i medici hanno detto che ormai è fuori pericolo, ma la convalescenza sarà lunga”
    Madison tirò un respiro di sollievo, se non altro, non avrebbe dovuto piangere nessuno. “Vi vengo a trovare, sarò a New York entro stasera”
    Campbell le disse di non preoccuparsi, che era tutto a posto, ma Madison insistette. Si trattava di un suo amico, oltre che di un suo ex collega, e voleva rendersi utile in qualche modo. Salutò l’amico aggiungendo che lo avrebbe richiamato non appena fosse arrivata nella Grande Mela e riattaccò.
    Dopo una veloce doccia, chiamò prima i suoi per avvisarli che sarebbe andata a trovarli, annuncio che fu accolto con gioia da James, suo padre che desiderava da tempo una visita della figlia, dopodiché telefonò il suo capo, il dottor Brown, per prendersi qualche giorno di ferie. Sistemò la borsa, prese le chiavi della sua auto e uscì di casa dopo essersi assicurata di aver chiuso tutto.
    Il viaggio verso New York durò molto più del previsto, lungo la strada trovò infinite code di traffico che bloccarono la dottoressa per oltre due ore. Giunta alle porte della città, la situazione non fece altro che peggiorare, ma dopo circa un’ora riuscì ad attraversare il Manhattan Bridge che collega Lower Manhattan con Brooklyn e s’inoltrò per le strade della caotica città. Nonostante ci fosse cresciuta, vedere New York era sempre un colpo al cuore, le mancava molto la sua città, la sua gente, camminare per il Central Park o per i suoi diversi quartieri, l’emozione della mille luci di Times Square o la vista dell’Empire State Building, il suo posto preferito nella Grande Mela. Mai avrebbe pensato che un giorno l’avrebbe lasciata e farlo era stata una decisione molto sofferta.
    Giunta all’Upper east side, si sentì a casa, imboccò Lexington Avenue ed infine svoltò verso la 63esima strada giungendo davanti all’ingresso del suo palazzo. Entrò la macchina in garage e salì al terzo piano dove ad accoglierla fu la cameriera di casa, Wendy. “Signorina Madison” disse la donna saltandole al collo, le era molto affezionata, lavorava in quella casa da quando Madison aveva 6 anni e suo fratello Brian appena 8 mesi. “Wendy!” urlò lei ricambiando l’abbraccio, le mancava moltissimo, la considerava quasi come una sorella maggiore dato che aveva appena 21 anni quando era stata assunta.
    “Mia madre dov’è?” chiese sciogliendosi dall’abbraccio e precipitandosi sulle caramelle che sua madre teneva sempre nel tavolino d’ingresso. “Sua madre è al lavoro, è stata chiamata in tutta urgenza da Marissa Webb per sistemare il nuovo punto vendita a SoHo. A quanto ho capito, parte dell’arredamento non è arrivato” le spiegò Wendy, la giovane fece spallucce; la vita di sua madre era un continuo scappare dai suoi clienti fin da quando aveva memoria al punto che la figlia non ci faceva più caso ormai. Sua madre Natalie Esther Fitzgerald, laureata in Design e comunicazione visiva nell’università inglese di Oxford ed esperta in visual merchandising, era richiestissima per il lancio di nuovi store o galleria d’arte nell’ambiente newyorkese e non solo.
    “Papà?” domandò in seguito, sperava di poter vedere almeno uno dei suoi genitori prima di andare a trovare il suo amico in ospedale.
    La donna le riferì che si trovava al piano di sopra nel suo studio e la rossa salì di corsa le scale per raggiungerlo. “Papà!” lo chiamò aprendo la porta, l’uomo alzò lo sguardo verso la figlia e sorrise a trentadue denti, si alzò immediatamente per salutarla e l’abbracciò. “Piccola” le disse mentre la stringeva a sé, le posò un bacio sulla fronte scompigliandole i capelli rossi. “Sei sempre più bella” si complimentò suo padre mentre guardava la figura della figlia.
    Madison sorrise. “Tu sei sempre più vecchio” lo stuzzicò lei prendendolo in giro. Poi si sedette sulla poltrona di fronte a suo padre e gli chiese del fratello Brian. “Torna da Providence verso il 22 dicembre. Questo forse è l’ultimo anno” la informò il padre poi prese il telefono e chiamò sua moglie per avvisarla che Madison era arrivata.
    La donna rispose con la voce affannata riattaccando con un veloce “perfettissimo”, come al suo solito.
    “Papà a cena alle sette e mezza o facciamo più tardi?” gli domandò, voleva andare dall’amico Trevor prima di cena perciò desiderava sapere come poteva organizzarsi. Il padre le rispose di tornare quando voleva, lui l’avrebbe aspettata e la figlia uscì dopo avergli dato un bacio sulla guancia.

    Morgan era chiuso nell’ufficio del capo del dipartimento della polizia di NY assieme all’agente supervisore Hotchner.
    “La collaborazione è stata chiesta da un suo agente, il detective Derrick. Ha affidato a noi il caso, direi che è sufficiente per giustificare la nostra presenza qui” lo aggredì l’agente di colore infastidito dai sospetti mostrati dall’uomo nei loro confronti. L’agente Hotch rivolse uno sguardo di rimprovero al suo agente, non erano lì per imporre la loro presenza, ma per collaborare ed era fondamentale partire con il piede giusto, perciò chiese al suo agente di uscire dalla stanza e continuò il colloquio con l’uomo privatamente.
    Dopo diversi minuti, il capo della polizia Robert Gray acconsentì alla collaborazione al caso, Hotch uscì dalla stanza e si recò presso i suoi agenti ai quali veniva illustrato il caso da parte di Dylan Campell, l’unico dei detective che seguiva il caso presente nel dipartimento.
    “Dobbiamo fare attenzione alla stampa, sta dando troppa importanza al killer. Lo chiamano il “pistolero di Nueva York” riferì l’uomo alla squadra dell’unità di analisi comportamentale.
    “Come mai gli hanno affibbiato un nome ispanico?” domandò Spencer continuando a guardarsi intorno, sapeva che a capo della squadra c’era il detective Derrick, l’ex capo di Madison, provava una curiosità indefinibile nei confronti di quell’uomo. Voleva scoprire come fosse fisicamente e caratterialmente, Derek sembrava nutrire una profonda stima nei suoi confronti, lo aveva descritto come uno dei migliori detective con cui avesse collaborato.
    Ma la curiosità del dottor Reid doveva attendere, l’agente Derrick era momentaneamente assente e il suo collega aveva fatto intendere che aveva lasciato il caso nelle loro mani.
    “Le vittime, sparate con un colpo di pistola alla fronte, compaiono tutte in quest’area che è conosciuta in città come il quartiere ispanico” spiegò. “Sono tutte di origini ispanica tra l’altro”
    “L’agente Fisher è stato colpito dopo un avvertimento di abbandonare il caso. È stato proprio Trevor a proporci il caso, la prima vittima era il cugino della sua fidanzata, Danielle, John Rodriguez.” continuò.
    “Quindi il nostro S.I. colpisce le persone di origini ispanica, sappiamo altro delle vittime?” domandò Blake.
    “Erano tutte e cinque regolarmente residenti negli Stati Uniti, avevano studiato presso un’università americana, svolgevano un ottimo lavoro ed erano di buona estrazione sociale”
    “Come avevano avuto accesso all’istruzione universitaria?” intervenne l’agente Morgan. Il detective fece spallucce, non avevano pensato che quella potesse essere una pista.
    Morgan annuì e si mise in collegamento con la loro analista informatica. “Bambolina, voglio che tu faccia una delle tue magie. Riesci a scoprire come hanno avuto accesso all’istruzione universitaria le vittime?”
    “Certo, cose da nulla”. Garcia iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. “Bene, belli miei, vi informo che le nostre vittime hanno avuto tutte una borsa di studio per studenti stranieri, si erano distinti in diversi ambiti e avevano avuto la possibilità di frequentare i nostri college”
    “L’SI potrebbe essere quindi risentito per questo motivo, forse è un patriota che mal vede la possibilità di dare spazio a stranieri” suppose Rossi, gli agenti annuirono, era molto plausibile come supposizione.
    In quel momento, squillò il telefono dell’agente Campbell. Era una chiamata dall’ospedale, Fisher si era appena svegliato dopo l’operazione per la rimozione del proiettile. L’agente Hotchner inviò Morgan e il detective della omicidi di NY per parlare con l’uomo nella speranza che rivelasse qualche dettaglio sull’aspetto del S.I., mentre il resto della squadra rimase in dipartimento per stilare un profilo.

    Madison Thompson era appena entrata nella stanza del degente, Trevor Fisher, quando all’improvviso questa fu invasa dall’agente Morgan e dal detective Campbell.
    “Tempismo perfetto, io e Trevor nemmeno due minuti di chiacchiere in santa pace ché voi già siete qui” scherzò lei i due uomini, mentre Trevor rideva. Madison riusciva sempre a metterlo di buon umore.
    Campbell si avvicinò alla dottoressa e l’abbracciò. “Thompson ti trovo molto meglio” le disse facendole l’occhiolino, l’altro aggiunse che era proprio quello che le stava dicendo.
    Derek lasciò i tre amici chiacchierare per qualche minuto, non voleva mettere pressione al detective Fisher; aveva subito un grosso trauma, era meglio che si rilassasse, a mente fredda avrebbe ricordato senz’altro di più.
    “Trevor te la senti di dirci com’è andata?” gli domandò Campbell riportando la conversazione sul vero motivo della loro visita.
    Il detective chiuse gli occhi, su consiglio dell’agente Morgan, avrebbe favorito la sua concentrazione e il fluire dei ricordi. “Non ricordo molto. Ero di guardia nel quartiere dentro l’auto, era tutto tranquillo. Il collega che mi accompagnava si era allontanato dicendo che doveva pisciare. Due donne sulla trentina attraversano la strada, non sembrano sospette, una si ferma, dice qualcosa all’altra che si allontana, si volta verso di me e si avvicina. Sento il rumore dello sparo e subito dopo il sangue fluire; il mio collega mi chiama più volte, perdo conoscenza e mi risveglio qui” descrisse la scena in modo piuttosto lacunoso, ma era l’unica testimonianza diretta.
    “Il killer è una donna?” chiese Madison, i due agenti fecero spallucce, fino a quel momento non avevano preso in considerazione quella possibilità.
    Il cellulare di Morgan vibrò, era un messaggio dell’agente Jareau che lo avvertiva che era stato trovato l’ennesimo corpo. “Dobbiamo andare, abbiamo un’altra vittima” annunciò l’agente di colore al detective.
    “Derrick sarà già sulla scena” disse Madison pensando alla meticolosità dell’agente che non permetteva a nessuno di esaminare la scena di un delitto senza la sua presenza.
    “Derrick si è tirato fuori, Thompson. Ha lasciato il caso a noi e a Derek” le riferì Dylan, la giovane sgranò gli occhi, una simile decisione non era solita da parte del detective perciò decise di andarlo a trovare.
    Uscì insieme ai due agenti dopo aver augurato a Fisher una pronta guarigione e si avviò verso la dimora del detective Wayne Derrick lasciati i due uomini che dalla fretta nemmeno si preoccuparono delle intenzioni della dottoressa.

    Wayne Derrick era sdraiato sul divano in pelle del suo soggiorno, ripensava ai dettagli del caso per l’ennesima volta. C’era qualcosa che gli sfuggiva, aveva raccolto sufficienti informazioni sulle vittime senza trovare un collegamento. Era chiaro che il killer detestasse le vittime, le aveva strappate alla vita con un colpo di pistola sferrato con una precisione millimetrica, come se fosse la sua personale esecuzione.
    Era certo che quel modus operandi fosse riconducibile ad un uomo, eppure le sue convinzioni erano crollate quando ricevette il messaggio del collega, Dylan Campbell, in cui veniva riportata la testimonianza di Trevor Fisher. Non poteva trattarsi di una donna, doveva esserci dell’altro.
    Completamente immerso nei suoi pensieri, non si accorse del citofono suonare, trasalì al suono prolungato del campanello e si alzò dal divano. Sperava fossero i testimoni di Geova, aveva voglia di scaricare la propria tensione su qualcuno, ma la persona che visualizzò davanti al portone del suo palazzo lo destabilizzò.
    Avrebbe riconosciuto quella capigliatura a distanza di chilometri in una giornata di nebbia fitta: Madison Thompson, l’ex medico legale assegnato alla sua squadra.
    Ricordava ancora il giorno in cui il capo del dipartimento, Robert Gray, l’aveva presentata alla squadra; a prima impressione, l’aveva colpito: era una giovane molto sveglia e perspicace, poco adatta al ruolo di medico legale per via della sua leggerezza nell’affrontare ogni cosa, ma molto preparata. Ad oggi non aveva ancora conosciuto qualcuno con la sua abilità e rapidità nel notare dettagli che ad altri erano sfuggiti, era un ottimo elemento nel dipartimento e perderla gli era molto dispiaciuto.
    Tuttavia il giorno in cui la dottoressa Thompson diede le sue dimissioni, Wayne Derrick, rimasto seduto alla sua scrivania, si sentì sollevato. Nel corso degli anni di collaborazione con il medico legale si era accorto che i sentimenti che nutriva per la giovane erano molto più che stima professionale, non ne aveva mai parlato con nessuno, e mai nessuno se n’era accorto. Aveva cercato di mascherare la sua affezione con una freddezza disarmante, riducendo i suoi rapporti con la dottoressa ai limiti del possibile. Aveva deciso di reprimere i sentimenti nel profondo di sé stesso, consapevole che quella decisione avrebbe inevitabilmente allontanato la giovane dalla sua vita.
    Negli ultimi due anni, aveva provato a rintracciarla infinite volte senza mai portare a conclusione le sue intenzioni, qualcosa lo bloccava. La paura del rifiuto oppure la consapevolezza di non essere la persona giusta? Non avrebbe saputo dirlo.
    Ora però quella donna, che pensava di non rivedere, aveva appena bussato alla sua porta, fu tentato dal non aprire ignorando il campanello e aspettare che Thompson andasse via, ma il desiderio di rivederla era più forte, perciò aprì il portone e le permise di salire.
    “Derrick dormivi oppure avevi deciso di lasciarmi fuori al freddo di novembre?” lo stuzzicò lei appena entrata.
    Wayne le lanciò una veloce occhiata e le sorrise. “La verità? Non volevo aprirti” rispose acido come al suo solito.
    Thompson fece una smorfia. “Tanto lo so che ti manco”
    Il detective ignorò quell’affermazione, come avrebbe potuto darle torto?
    “Perché non sei sulla scena del crimine?” domandò lei piazzandosi a braccia conserte davanti alla sua figura.
    “Se ne occupano Campbell e Morgan, senza contare l’intera squadra di profiler di Quantico” rispose secco. Aveva preferito abbandonare il caso perché si sentiva eccessivamente coinvolto; quell’assassino, uomo o donna che fosse, aveva colpito uno dei suoi agenti. Mai era successo prima d’ora, in tutta la sua carriera nessun assassino era sopravvissuto abbastanza a lungo per riuscire a colpirlo così da vicino.
    “Derrick muoviti, il caso è tuo e so che te ne pentirai se permetterai che sia l’F.B.I. a risolverlo. Per quanta stima tu possa provare nei confronti di Derek, sai bene quanto me che a risolvere il caso devi essere tu” replicò la rossa con fermezza. Conosceva l’agente Derrick al punto da sapere che l’orgoglio era una caratteristica innata nella sua persona.
    “Questione di orgoglio professionale” disse lui confermando quanto pensato dalla giovane che gli rivolse un sorriso malizioso.
    Madison si sporse sul vaso che ornava il mobile d’ingresso e pescò le chiavi della moto del detective. “Ero sicura di trovarle qui” affermò facendole tintinnare nelle sue mani.
    L’uomo si appropriò delle chiavi con un gesto veloce e piuttosto brusco che non sorprese Madison, abituata ai suoi modi di fare. “Guido io” prese il giubbotto di pelle e passò il casco del passeggero alla dottoressa che gli fece l’occhiolino.
    Si avviarono ad altissima velocità per il traffico newyorkese della sera, sorpassando più volte e senza rispettare i semafori, diretti verso il quartiere ispanico dove Morgan assieme al dottor Reid e il detective Campbell esaminavano la sesta vittima del pistolero di Nueva York.

    “Avete identificato la vittima?” chiese con tono serio Derrick irrompendo nella scena senza salutare. Campbell si girò verso l’uomo e scosse la testa, doveva aspettarselo che il detective si sarebbe riappropriato del caso.
    Morgan lo salutò con una pacca sulla spalla. “Finalmente ti fai vedere”
    Derrick ricambiò il saluto. “Avresti dovuto prevedere che non ti avrei lasciato tutta la gloria” lo stuzzicò il detective.
    Spencer osservò l’uomo interagire con l’amico; come aveva già previsto, l’agente mostrava un tipico atteggiamento da maschio alpha.
    In quel momento spuntò da dietro la figura dell’uomo, Madison con il casco della moto in mano, sorprendendo il dottor Reid che aggrottò la fronte, perché erano insieme?
    La rossa allungò le chiavi della moto al detective e salutò i presenti. Poi si scambiò un sorriso con Spencer nel momento in cui i loro sguardi s’incrociarono, cosa che non sfuggì al detective Wayne, certo ormai che fra i due ci fosse una certa familiarità.
    “Avrei dovuto prevedere che era stata Thompson a convincerti a tornare” asserì Campbell rivolgendo un ampio sorriso alla dottoressa che fece un occhiolino. “Ho ancora un certo ascendente” scherzò lei.
    Derrick ignorò l’affermazione dell’ex medico legale e domandò notizie sulla vittima agli agenti sulla scena.
    “Abbiamo trovato il suo portafoglio, la vittima si chiama Felipe Alvarez, 38 anni, cubano di nascita, residente negli Stati Uniti da circa 6 mesi” disse Campbell.
    Il medico legale, finora chino sul cadavere si sollevò, per parlare con l’agente. “Quando siamo arrivati il corpo era ancora caldo, sicuramente è morto fra le 18 e 19 di questa sera, una volta eseguiti gli altri accertamenti, saprò essere più preciso”
    “Non è il vostro assassino” affermò con sicurezza Thompson attirando su di sé gli sguardi dei presenti e in particolare quello del medico legale che alzò un sopracciglio.
    “Di grazia, signorina, perché non dovrebbe essere lui?” domandò il medico legale con tono scocciato, il foro del proiettile sembrava essere uguale a quello rinvenuto sulle precedenti vittime.
    Madison esitò a rispondere e lanciò un’occhiata a Derrick che con un accenno del capo la invitò a parlare. “Il proiettile con cui è stato ucciso è lo stesso, tuttavia a suggerirmi che non si tratta dello stesso assassino è il foro d’entrata del proiettile. Ho visto le foto delle precedenti vittime e sono certa che la traiettoria percorsa dal proiettile sia diversa. Il vero assassino spara le proprie vittime mentre sono inginocchiate” spiegò lei imitando il killer. “Dal modo in cui il proiettile ha perforato la fronte, è facile dedurre che la vittima molto probabilmente non lo era” aggiunse.
    “Il fatto che la vittima non fosse inginocchiata non significa che non sia il nostro assassino.” ribadì Wayne, rimasto deluso dall’ipotesi della dottoressa.
    “Non sono d’accordo” esordì d’un fiato Spencer. Morgan si voltò verso il collega con espressione sorpresa, non era tipico di Reid contraddire le persone così apertamente; il detective gli lanciò un’occhiataccia e si morse le labbra per non offenderlo, sapeva che si trattava di un collega di Derek perciò decise di dare spazio alle sue confabulazioni.
    “La tipologia di assassino che abbiamo di fronte è molto organizzata e metodica, ha un suo schema ben definito per uccidere le proprie vittime. Non è interessato a sperimentare nuovi modus operandi, per cui è molto più probabile che non si tratti dello stesso assassino”
    “Come dice l’agente Reid” affermò Madison dando la conferma a Derrick che si conoscessero dato che l’agente Reid non si era presentato. “Dottor Reid semmai” la corresse Derek divertito.
    La rossa represse una risata e lanciò uno sguardo interrogativo a Spencer che annuì farfugliando un “mi chiamano così”
    “Bene, Morgan hai portato lo stagista con te per fargli fare pratica?” domandò Derrick con tono offensivo. Spencer lo guardò torvo, quell’uomo iniziava a infastidirlo seriamente. Derek era sul punto di parlare, ma Spencer lo interruppe.
    “Al dire il vero, lavoro nell’unità analisi comportamentale da circa 8 anni, ho diversa esperienza sul campo oltre due lauree in Psicologia e Sociologia, per cui so perfettamente di cosa sto parlando” replicò Reid con fare stizzito.
    Derrick lo fissò e fece una smorfia, ignorando quanto detto dal dottor Reid, si rivolse a Morgan nuovamente per informarlo che sarebbe tornato in centrale con la loro auto.
    “Thompson, accompagna il dottor Reid” ordinò alla giovane rivolgendo uno sguardo con aria di superiorità a Spencer che continuava a guardarlo di sottecchi. Infine lanciò le chiavi della moto a Madison che le acchiappò al volo e s’incamminò verso il veicolo insieme all’agente Morgan e il detective Campbell lasciando i due da soli mentre la scientifica rimuoveva il cadavere.


    L’agente Derrick (parte 2)




    Madison si voltò verso Spencer ancora rosso in faccia, sia per l’imbarazzo che per la rabbia. “Wow” disse la giovane. “Non sei così calmo come vuoi far credere allora”
    Il dottor Reid rimase in silenzio ed espirò nel tentativo di riuscire a rilassarsi un minimo . “Dobbiamo andare” fu tutto ciò che le disse avviandosi verso la strada senza sapere dove fosse parcheggiata la moto.
    Madison lo osservò per qualche istante, trattenendo una risata, poi lo prese per un braccio e gli indicò la direzione giusta. “E’ di là”
    I due s’incamminarono verso il motoveicolo l’uno dietro all’altra, Madison allungò verso l’amico il secondo casco, che rimase interdetto in piedi davanti alla moto, mentre lei si posizionava sul posto di guida accedendo il motore.
    “Guidi tu?” chiese timidamente Spencer senza nascondere il proprio timore.
    “Ho già guidato una moto in precedenza e in ogni caso conosco le strade di New York meglio di te” rispose acida lei, le dava fastidio quando le persone mettevano in dubbio le sue capacità in fatto di guida.
    Spencer farfugliò un “ok” e salì sulla moto. L’amica s’immise in strada a tutta velocità sfiorando da vicino una delle tante automobili circolanti per la Grande Mela, che fece cacciare un urlo acuto al dottor Reid.
    “Tranquillo, era tutto calcolato” affermò lei sfrecciando per le strade di NY fra le automobili imbottigliate nel traffico.
    “Madison, puoi rallentare?” la implorò Reid chiudendo gli occhi per la paura. La giovane rise e accelerò ancor di più quando il semaforo passò dal verde al giallo, a quel punto Spencer si abbracciò senza molti preamboli a Madison che dallo specchietto gli gettò un’occhiata e sorrise.
    Nel guardare il dottor Reid, si distrasse scordandosi di svoltare verso sinistra giunta all’incrocio, perciò fece un’inversione ad U, dopo aver informato il vicino di casa di tenersi ben stretto, che obbedì immediatamente scoppiando a ridere per il nervosismo subito dopo, mentre gli altri veicoli suonavano il clacson urlando contro Madison che, ignorando tutti, proseguì il rettilineo verso la centrale di polizia.
    Giunti in dipartimento, Spencer, bianco cadaverico in viso, con ancora il casco indosso scese di corsa dalla moto senza rivolgere una parola a Madison che rideva per l’aspetto dell’amico.
    “Spence, dai, non è successo nulla. Un po’ di adrenalina ci sta” si giustificò lei fra le risate mentre entravano in centrale. “Un po’ di adrenalina? Abbiamo quasi rischiato la morte, Madison” fece la partaccia lui chiamandola per nome, cosa che non aveva mai fatto prima da quando si conoscevano, ragion per cui la dottoressa dedusse che fosse veramente arrabbiato e perciò chiese scusa offrendogli la mano come segno di pace. “Mi perdoni?”
    Spencer sorrise e annuì stringendo la mano a sua volta, in quel momento si accorse che Blake li stava guardando con espressione sorpresa, ma al tempo stesso compiaciuta. “Reid, ti stavamo aspettando e, credo, anche a te, sei il medico legale, giusto?” chiese l’agente rivolta a Madison che annuì con aria gioviale dicendo che era proprio lei.
    La donna li guidò verso il luogo dove il detective Derrick metteva a punto gli ultimi dettagli del caso mentre aspettavano Thompson e Reid di ritorno dalla scena del crimine. “Ah, siete ancora vivi. È la sua giornata fortunata, dottor Reid” affermò con la sua consueta acidità Derrick non appena scorse la coppia arrivare.
    Spencer fece un sorriso di circostanza e si sedette sulla scrivania davanti a JJ, che gli gettò un’occhiata capendo subito dall’espressione del collega che provava una marcata antipatia nei confronti del detective.
    “Lei è Thompson, il medico legale” la presentò Derrick ai profiler quando questa gli fu accanto. “Anzi, ex medico legale” precisò poi il detective guardando fissa Thompson che fece spallucce.
    Blake, JJ e Rossi, gli unici che ancora non la conoscevano, si presentarono a loro volta, ricambiati dalla dottoressa che strinse la mano di tutti e tre.
    “Dottoressa, ci dica quanto ha dedotto sul presunto S.I.” le chiese Hotchner riportando l’attenzione di tutti sull’ex medico legale che sentì gli occhi dei presenti puntati addosso. “L’S.I.?” domandò la giovane incerta di aver capito bene.
    Aaron le spiegò che era l’acronimo per “soggetto ignoto”, ovvero il nome con cui veniva indicato l’assassino.
    Madison annuì, espirò per placare la tensione e infine parlò. “Il vostro S.I. uccide le proprie vittime mentre queste sono inginocchiate, è questo che mi ha portata a capire che non si trattava dello stesso assassino. L’ultima vittima, Felipe Alvarez, è stata sparata a questa distanza -fece una pausa per mostrare il movimento-; molto probabilmente il vero assassino ha sparato un colpo frontale con la stessa pistola, convinto che, una volta scoperto il vero assassino, non sarebbe stato incriminato, tuttavia ha commesso un errore perché non era a conoscenza di come uccidesse le vittime” spiegò lei assumendo un tono professionale, come era solita fare quando lavorava.
    “Perfetto. Morgan, chiama Garcia e chiedile di cercare informazioni su Alvarez, è probabile l’S.I. sia fra le sue conoscenze. JJ, tu contatta i familiari della vittima, forse loro conoscevano qualcuno che potesse avercela per qualche motivo con Alvarez” ordinò Hotch, i due agenti annuirono e si misero subito al lavoro.
    “Se non è un problema per lei, detective, vorremmo che la dottoressa Thompson analizzi i corpi delle precedenti vittime” richiese l’agente Hotchner a Wayne, che acconsentì alla richiesta senza problemi.
    “Reid, vai con la dottoressa all’obitorio” disse poi rivolto a Spencer che annuì debolmente. “Credo che Thompson sarebbe più a suo agio con uno dei miei agenti” obiettò Derrick designando Campbell come possibile sostituto del dottor Reid. Hotchner si scusò per la sua insistenza, ma ribadì che preferiva fosse uno dei suoi agenti a recarsi all’obitorio con la dottoressa, dato che avevano stilato un profilo e anche l’agente Campbell doveva ascoltarlo.
    Derrick strinse i denti, non poteva contraddire un’altra volta l’agente supervisore, quindi a malincuore acconsentì alla richiesta di Hotch per la seconda volta; lanciò un’occhiataccia al dottor Reid, che lo fissò a sua volta saltando giù dalla scrivania, poi, mentre il detective continuava a guardare le sue mosse con la coda dell’occhio, si avviò verso l’obitorio insieme a Madison, ignara dello sguardo di sfida che si erano scambiati i due.

    “Il nuovo me non ama l’odore della lavanda” esclamò la giovane non appena ebbe messo piede nell’obitorio, ancora buio.
    “Lavanda?” domandò Reid che la seguiva a tentoni. “Sì, lavanda. Io mettevo sempre il deodorante alla lavanda” spiegò lei mentre premeva l’interruttore della corrente elettrica.
    La luce diafana, tipica di ogni obitorio od ospedale che si rispetti, illuminò la stanza mostrando il corpo di Felipe Alvarez, l’ultima vittima rinvenuta. Thompson, osservata da Reid che seguiva ogni sua mossa, indossò il camice bianco e i guanti in lattice, e iniziò l’autopsia per determinare l’ora della morte della vittima.
    “Mmm, povero.” affermò scuotendo la testa dopo circa cinque minuti. Reid le domandò a cosa si riferisse.
    Madison gli mostrò una fattura, che segnalava il nome di una gioielleria sulla 45esima, caduta dalla tasca della camicia mentre lo spogliava; l’uomo aveva acquistato un gioiello poco prima di morire. “Però il portafoglio è stato trovato sulla scena del crimine e sembrava non mancare nulla” ricordò con sorpresa la giovane.
    “Non è stata una rapina, l’SI lo avrà preso volontariamente. Sicuramente lo conosceva e sapeva del gioiello”, a quel punto prese il telefono e informò gli altri degli ultimi dettagli appresi.
    Madison determinò l’ora della morte di Alvarez e passò ad esaminare le vittime del pistolero di Nueva York. Era in piedi fra le vittime a braccia conserte; Reid la osservava stranito, che cosa stava facendo?
    “Il vostro S.I. sarà alto più o meno fra i 172 e 175 cm, corporatura probabilmente esile” sentenziò lei.
    Spencer aggrottò la fronte. “Tutti questi dettagli da cosa li hai dedotti?” domandò, piazzandosi davanti alle vittime anche lui. A quel punto fu chiaro anche a lui cosa avesse visto la dottoressa.
    “L’inclinazione del foro d’entrata per l’altezza” spiegò Madison seguita da Reid che completò la sua frase.
    “Le abrasioni sulle vittime meno robuste, l’SI non lotta con tutte le proprie vittime, ma solo con quelle che sa che può combattere”
    Madison annuì e rimase pensante per qualche secondo. “E se fossero in due? Trevor ricordava di aver visto una donna avvicinarsi prima dello sparo, forse lei è il braccio destro dell’S.I.”
    “Questo spiegherebbe come riesca l’S.I. a catturare anche vittime più robuste di lui. La sua collaboratrice sarà una sorta di esca” dedusse Reid confermando i sospetti di Madison, che continuò a esaminare i corpi alla ricerca di altri dettagli.
    “Torniamo in centrale” disse Spencer, una volta finito il lavoro, mentre l’amica riponeva i corpi nelle celle frigorifere dell’obitorio.
    Dopodiché Madison si levò il camice e i guanti, si lavò le mani e insieme uscirono dopo aver spento le luci. “Come mai hai scelto questa specialistica?” le domandò Reid mentre tornavano in dipartimento. Non glielo aveva mai chiesto prima, era evidente che fosse molto brava nel suo lavoro, oltre che appassionata. Avrebbe voluto anche domandarle perché lo avesse lasciato e deciso trasferirsi a Washington, ma sapeva che non erano domande a cui la dottoressa Thompson rispondesse volentieri, perciò si fermò alla prima domanda.
    “Grazie al professore Moore. Avevo seguito un seminario poco prima della scelta della specialistica sulla medicina legale. Lui ci parlò del lavoro che avremmo svolto e dell’importanza che esso assumeva per le indagini. Ci disse che il nostro lavoro contribuiva a far trovare pace alle vittime, offrendo alle famiglie il conforto, per quanto possibile, di sapere che l’assassino dei loro cari era stato incarcerato” spiegò lei camminando di fianco a Spencer che ascoltava in silenzio.
    Giunti davanti al portone del dipartimento di polizia, Madison salutò Spencer dopo aver consegnato una busta contenenti i referti delle autopsie. “Ci vediamo domani” gli disse, gli stampò un bacio sulla guancia e si avviò verso la fermata della metro a pochi passi da lì.
    “E’ lei la tua amica, vero?” chiese Alex, uscita un attimo per telefonare al marito, al dottor Reid, che fissava il traffico di NY con lo sguardo perso nel vuoto. A quel punto scosse la testa, come se la voce della collega lo avesse riportato alla realtà, e annuì.
    “Sembra molto simpatica” affermò sorridente la donna. “Lo è” confermò Spencer che sorrise a sua volta e insieme rientrarono in centrale.


    “Trevor ricorda una donna che si avvicinava al suo finestrino poco prima dello sparo, il suo collega non è riuscito ad identificare il soggetto che ha sparato, ma è sicuro che non si trattava di una donna. Chi diavolo c’è dietro questa storia?”
    Il detective Derrick era parecchio scosso, non riusciva a trovare un collegamento. Dalle ricerche condotte da Garcia non era emersa alcuna soluzione, troppi nomi da scartare e nessun elemento per restringere il campo.
    “Forse si tratta di una coppia. La donna, che il detective Fisher ha visto, potrebbe essere complice del S.I.” asserì Reid mentre entrava nella stanza seguito dall’agente Blake.
    “Un’esca” dedusse Morgan, a quel punto Spencer consegnò il referto dell’autopsia all’agente Hotchner. “La dottoressa Thompson ha dedotto l’altezza del S.I., pensa che sia alto fra i 172 e 175 cm e dalla corporatura piuttosto esile” continuò riferendo quanto supposto dal medico legale.
    “Questo può aiutarci a restringere il campo” affermò Hotch che richiamò Garcia per darle ulteriori informazioni.
    “Bimbi miei, siete collegati con il vostro guru informatico. Avete nuovi dettagli per me?” rispose l’analista informatica, il detective Derrick fece una smorfia, non era abituato a simili battute, che riteneva vere e proprie “mancanze di professionalità”.
    “Si. La dottoressa Thompson crede che il nostro uomo sia alto fra i 172 e 175 cm, probabilmente è sposato o convive” la informò Hotch. “Thompson? Madison vi sta aiutando?” domandò mentre il rumore dei tasti si diffondeva dall’altra parte della cornetta.
    Morgan rispose che si trattava proprio di lei. “Sapevo che era in gamba. Ok, forse ci siamo. Samuel Murray, 40 anni, sposata con Jessie Murray, 36 anni. La descrizione fisica di Madison sembra combaciare, vi invio una foto dei coniugi Murray” disse Penelope, pochi secondi più tardi comparvero le immagini che ritraevano i due coniugi sui tablet dei profiler.
    “Sentite qui, Murray è stato fermato più volte dalla polizia quando era ancora adolescente per atti vandalici a danno di una famiglia di origini messicane nel suo quartiere. Gli è stata revocata la borsa di studio dall’università del Michigan dopo che era stato tacciato di razzismo da alcuni suoi colleghi del college, borsisti anche loro e di origine ispanica” aggiunse la bionda.
    “Sembra che sia il nostro uomo” disse Rossi dopo aver ascoltato il racconto di Penelope. “Della moglie cosa sappiamo?” domandò sempre l’agente Rossi.
    “Su Jessie Murray non abbiamo nulla per il momento, aspettate… Si, ecco, anche lei è stata licenziata dal proprio lavoro di segreteria in uno studio legale dopo che aveva aggredito verbalmente una cliente additandola di essere una sporca immigrata” illustrò Garcia. Era sufficiente, la coppia cercata dai profiler erano sicuramente i Murray.
    “Ragazzi, sentite qui.” esordì il detective Campbell accendendo la televisione e sintonizzandola sul telegiornale.
    “Nuovi risvolti nelle indagini sul pistolero di Nueva York. L’omicida dell’ultima vittima, Felipe Alvarez, potrebbe non essere il noto assassino. La polizia non ha rilasciato alcuna dichiarazione a conferma di quanto trapelato, ma non è giunta alcuna smentita. Intanto le indagini della squadra di analisi comportamentale di Quantico continuano..” riferiva la voce seria del giornalista di turno sulla scena del crimine.
    “Come diavolo hanno fatto? Dannati giornalisti! Li eliminerei con le mie stesse mani” urlò di rabbia Derrick. Nel profilo della coppia, e in particolar modo di Samuel Murray, era stato sottolineato più volte l’orgoglio come principale caratteristica del S.I., la diffusione di una simile notizia non avrebbe fatto che fomentare la rabbia del soggetto, portandolo al limite.
    “Cosa possiamo fare? Rilasciamo una dichiarazione in cui smentiamo la notizia?” domandò JJ all’agente supervisore Hotchner che con espressione seria ripensava alle parole dei giornalisti, stava cercando un modo per riuscire a sfruttarle a loro favore.
    “Se rilasciamo una dichiarazione ora, non otterremmo alcunché” ribadì Hotch. “Se la tipologia di assassino è quella che pensiamo, sarà lui stesso a venire da noi” continuò.
    L’agente Hotchner non fece in tempo a completare la frase che il telefono della centrale squillò. Un silenzio tombale scese fra i presenti che rimasero sull’attenti mentre il detective Campbell rispondeva alla telefonata dopo aver avviato la procedura per rintracciare la telefonata.
    “Voglio parlare con il detective Derrick” annunciò l’uomo con la voce camuffata non appena udì la voce del detective Campbell. Wayne senza attendere il bene placito dell’agente supervisore della B.A.U. si precipitò sulla cornetta.
    “Bastardo, consegnati tanto ti troverò” rispose il detective con tono rabbioso.
    “Smentisci la notizia. Io sono l’unico che New York deve temere, altrimenti..” minacciò l’uomo con tono tenebroso che provocò un brivido lungo la schiena agli agenti presenti.
    “Altrimenti che fai? Murray, sappiamo chi sei e ti troveremo” lo minacciò a sua volta Derrick pronunciando il nome appositamente perché sapesse che erano sulle sue tracce.
    “Lo avete voluto voi” concluse l’uomo riattaccando. Il detective sbatté la cornetta del telefono contro la scrivania per la rabbia. “Siamo riusciti ad individuare il punto da dove chiamava?” chiese Rossi tentando di non fare attenzione alla reazione del detective Derrick. Campbell scosse la testa, la telefonata era stata troppo breve; tuttavia erano riusciti ad individuare un’area nella città di New York.
    “Murray sa che lo prenderemo, ma vuole vendicarsi. Avrà deciso di fare un ultimo colpo magistrale, molto probabilmente ci chiamava dal luogo dove si compirà la strage” osservò Reid mentre fissava la cartina in cui veniva segnalato l’area di provenienza della telefonata.
    “Aspettate, questa sera ci sarà una grossa manifestazione organizzata dalla comunità messicana ad Harlem, che rientra nella zona. Non ricordo cosa festeggiano..”
    “Certo! Come ho fatto a non pensarci? È il 20 novembre” esclamò Reid dopo aver ascoltato quanto riferito da Campbell tra gli sguardi increduli dei profiler. “Si celebra la Festa della Rivoluzione Messicana oggi, si commemora l’anniversario dell’inizio della Rivoluzione del 1910.” completò la frase il dottor Reid.
    “Bene, è sicuramente lì che andrà Murray” asserì Hotch e subito dopo organizzò le squadre per la cattura di Murray e consorte promettendo a Derrick che sarebbe stato lui a catturare il killer.

    “Derrick non ti sta tanto simpatico, eh?” domandò Morgan a Reid mentre guidava verso Harlem. Il collega rimase in silenzio, avrebbe voluto insultare Derrick ma era consapevole che si trattava di un amico di Derek perciò si morse le labbra e provò a mentire. “No, perché dici questo?”
    Derek gli lanciò un’occhiata e scoppiò a ridere. “Reid, sei poco credibile! Ti si legge in faccia che non lo sopporti” ribatté l’agente. Reid abbassò lo sguardo e arrossì. “Ok, lo trovo un irritante e insopportabile pallone gonfiato” ammise Reid sentendosi subito più leggero.
    “Lui pensa che tu sia un bimbetto impaurito che non sa dove si trova invece” confessò Morgan ridendo per la descrizione che i suoi amici avevano fatto l’uno dell’altro.
    Reid strinse le mascelle. “Bimbetto impaurito? Che non sa dove si trova? Ma come si permette?” s’infuriò il giovane agente. “Hey, ragazzino! Tranquillo, il parere di Derrick non è poi così importante. Madison è tua” provò a calmarlo pronunciando il nome della dottoressa che fece infuriare Spencer ancor di più.
    “Che c’entra Madison? Morgan, te lo ripeto per l’ultima volta: Madison ed io siamo solo amici” replicò arrabbiato Reid che scandì per bene la parola “amici”. “E non chiamarmi più ragazzino” aggiunse sperando che il tono fosse sufficientemente convincente.
    “Ok, ragazzino” rispose Morgan facendo un occhiolino mentre Spencer bonariamente gli dava una spinta.

    Giunti nel luogo dove si svolgeva la manifestazione, la squadra della B.A.U. e quella del detective Derrick si divisero per cercare di coprire l’intera piazza provando a confondersi fra i manifestanti ridenti che inneggiavano alla propria nazione.
    Derrick seguiva l’agente Morgan che scrutava attentamente i presenti alla ricerca di Murray, sapeva di essere vicino. Poteva avvertire l’adrenalina scorrere nelle sue vene, come prima di ogni cattura. Fu allora che lo notò: l’uomo era incappucciato, ma reggeva una pistola calibro 45, la stessa con cui erano stati compiuti gli altri omicidi, per cui il detective Derrick era più che sicuro che si trattasse di lui. Lo seguì senza risultare troppo evidente dopo aver informato il resto degli agenti di aver individuato il sospettato.
    “Ti copro le spalle, Wayne” lo rassicurò Derek aggiungendo di tenere l’S.I. sotto tiro.
    “E’ finita, Murray. Chiama la mogliettina, si parte per una vacanza nella comoda prigione di New York” gli disse Derrick puntando la pistola alla nuca.
    “Butta giù la pistola e voltati” gli consigliò il detective. L’uomo posò la pistola e si voltò sostenendo lo sguardo di Wayne, che continuava a puntargli la pistola contro. “Ora arriva la parte che preferisco: quella in cui ti metto le manette ai polsi” affermò con convinzione Derrick. Un ghigno si dipinse sul volto di Murray. “Io non ne sarei così sicuro”
    Non appena ebbe pronunciato quelle parole, si udirono due spari, Morgan si precipitò sull’S.I. riuscendo a bloccarlo con una presa nonostante questi si dibattesse mentre Derrick rimasto in piedi osservava il sangue scorrere di Jessie Murray, la cui pistola aveva sparato un colpo in aria. Il detective si voltò per capire chi gli avesse salvato la vita e la persona che individuò lo lasciò senza parole.
    “Tu?” fu tutto ciò che riuscì a dire. “Sì. A quanto pare, non sono un bimbetto impaurito che non sa dove si trova” rispose acido Spencer. “Hey, voi due! Potete continuare a battibeccare più tardi? Dovremmo portare questo qui in centrale” ricordò Morgan mentre alzava di peso Murray che urlava il nome della moglie ormai esamine.
    Il resto della squadra raggiunse i tre agenti, complimentandosi per l’azione svolta mentre la scientifica rimuoveva il corpo di Jessie Murray e altri agenti della polizia sgomberavano la piazza per allontanare i curiosi.
    “Torniamo in dipartimento. Abbiamo ancora del lavoro da svolgere” affermò serio Hotchner ricordando a tutti che non era stato ancora trovato un colpevole per l’omicidio di Felipe Alvarez.

    Più tardi quella stessa sera mentre i profiler si riposavano dopo quella giornata stressante ad eccezion fatta di Hotchner che continuava a lavorare al caso di Alvarez e di Reid che si aggirava per la centrale di polizia alla ricerca di un buon caffè, Derrick ricevette una telefonata.
    “Wayne, sei stato bravo. Sapevo che non mi avresti delusa” disse Madison non appena il detective ebbe risposto alla telefonata. “Non ho fatto nulla io, hanno fatto tutto i profiler” replicò lui abbassando la voce. Era deluso da se stesso, non solo non era riuscito a catturare il sospettato, ma per giunta quel biondino rinsecchito, il nuovo epiteto che aveva attribuito a Spencer, gli aveva salvato la vita.
    “So com’è andata, Morgan mi ha riferito tutto, ma questo non toglie che tu non mi abbia delusa. Sei tornato e hai portato a termine il caso” spiegò lei. Derrick sorrise e si voltò dall’altra parte dando così le spalle a Spencer, che nel frattempo era rientrato con un caffè bollente in mano, soffermandosi sulla scrivania a pochi metri da quella di Derrick. Non voleva ascoltare la conversazione del detective, ma quando sentì pronunciare il nome della dottoressa Thompson fu inevitabile.
    “Madison, torna a lavorare con noi. Sei un ottimo elemento, lo hai dimostrato anche oggi. Hai spodestato Baker con una frase” le propose Derrick ricordando la velocità con cui aveva capito che non si trattava dello stesso assassino.
    Thompson rimase in silenzio, non aveva preso in considerazione la possibilità di tornare a lavorare con la squadra di Derrick; le mancava moltissimo il suo lavoro da medico legale, riprenderlo per quel breve frangente era stato piacevole ma tornare a New York...
    Spencer trattenne il fiato, mandò giù un sorso di caffè bollente ustionandosi la lingua. “Ahia” esclamò il giovane posando il caffè sulla scrivania. Derrick si voltò verso di lui e sollevò un sopracciglio, stava forse origliando la conversazione?
    “Ci vediamo domani, Thompson” disse alla dottoressa riattaccando. “Dottor Reid, desiderava qualcosa?” domandò Derrick con il tono di voce più cortese che riuscì a mantenere.
    “Si, vorrei che richiamassi Madison e gli dicessi che la tua proposta era uno scherzo e che può tornarsene a Washington” pensò il dottor Reid, ma ovviamente non lo disse. Non tanto per la reazione che quella frase avrebbe provocato a Derrick, quanto piuttosto per le conseguenze che avrebbe provocato in lui pronunciare quella frase. Pronunciarla significava ammettere quello che continuava a negare se stesso, ovvero che era innamorato di Madison, e semplicemente lui non poteva.
    Sapeva che per qualcuno poteva sembrare assurdo e stupido da parte sua, ma si sentiva come se tradisse Maeve e non poteva farlo. Il ricordo del suo primo amore era ancora vivo in lui per riuscire ad ignorarlo.
    “Dottor Reid?” lo richiamò Derrick notando che aveva lo sguardo perso nel vuoto. Spencer scosse la testa dicendo che non voleva nulla e salutò il detective Derrick che tuttavia non si decideva a lasciarlo andare. “Ehm.. io prima non ti ho ringraziato.. insomma mi hai salvato la vita..” farfugliò Wayne poco contento di doverlo ringraziare.
    Spencer annuì rispondendo che non aveva nulla da ringraziare e infine uscì dalla centrale di polizia. Avviandosi a piedi verso l’albergo assegnato alla squadra, aveva bisogno di riflettere e una passeggiata cascava a pennello in quel momento.

    La mattina dopo la squadra della B.A.U. riuscì ad individuare il colpevole per l’omicidio di Alvarez, ovvero l’ex fidanzata Romina Suarez decisa a vendicarsi dell’uomo dopo aver scoperto che aveva intenzione di sposare un’altra donna, e grazie ad un’abile interrogatorio da parte dei detective Campbell e Derrick che la costrinsero a confessare, la donna fu incarcerata.
    Wayne era appena uscito dalla stanzino degli interrogatori quando vide Madison entrare nel dipartimento, si avviò subito verso di lei e la condusse nell’ufficio di Gray, il capo del dipartimento, dove i tre si trattennero a colloquio per una buona mezz’ora.
    Spencer non riusciva a staccare gli occhi dalla porta dell’ufficio, desiderava ardentemente sapere cosa avesse deciso Madison, sarebbe rimasta a New York?
    La sua impazienza era evidente: continuava a sbattere nervosamente i piedi contro il pavimento. “Reid, hai deciso di sfondare il pavimento?” lo stuzzicò Morgan che si sedette sulla sedia accanto alla sua.
    “Derrick ha proposto a Madison di tornare a lavorare qui” disse d’un fiato. L’agente di colore annuì, ora era chiaro perché fosse così nervoso. “E lei ha accettato?”
    Spencer fece spallucce, non ne aveva idea, ma sperava con tutto se stesso che non accettasse. “Dalle un buon motivo per restare a Washington, se non vuoi che vada via” affermò il collega rialzandosi in piedi, doveva ultimare di compilare le ultime carte.
    Reid guardò l’amico, ma non rispose. Sapeva che aveva ragione, ma lui non riusciva a prendere una decisione ed era inutile continuare a discuterne con Morgan, non avrebbe mai capito.
    In quel momento la porta dell’ufficio di Robert Gray si aprì e Madison uscì accompagnata dal capo del dipartimento che la teneva a braccetto e Wayne che li seguiva senza proferire parola; la rossa salutò i due stringendo la mano di entrambi dicendo qualcosa che Spencer non riuscì a capire e si avviò verso l’uscita.
    Era arrivata a metà strada quando Spencer spuntò alle sue spalle posando una mano sul braccio per fermarla. “Spence, non ti avevo visto. Dove ti eri nascosto?” gli domandò sorridendogli. Reid indicò la sedia dove era seduto fino a poco prima. “Stai andando via?” chiese lui trattenendosi dal domandarle cosa si fossero detti i tre, non voleva sapere.
    Madison annuì dicendo che stava tornando a casa e Spencer si offrì di accompagnarla; la rossa acconsentì con piacere avvisandolo che sarebbe stata una lunga passeggiata e insieme uscirono dalla stazione di polizia.

    Erano giunti in prossimità dell’Empire State Building quando Madison propose a Spencer di visitare l’edificio. “Io amo l’Empire, non c’è posto più bello su questa terra” confessò consapevole di esagerare, ma era affezionatissima a quell’edificio per tanti di quei motivi che non riusciva nemmeno più a ricordarli tutti.
    Stranamente la fila per accendervi era molto corta e nel giro di mezz’ora si trovarono in cima all’edificio. “Non è magnifica?” gli domandò alludendo alla vista di cui si poteva godere dall’Empire, Spencer sorrise dicendo che era effettivamente molto bella.
    “E’ molto meglio di sera. Un giorno ti ci porterò” aggiunse lei e si appoggiò al cornicione dell’edificio, il vento le scompigliò i capelli costringendola a voltarsi, e fu allora che notò l’espressione triste del dottor Reid.
    “Spence che hai? È successo qualcosa?” si preoccupò, aveva notato anche prima che era piuttosto taciturno, solitamente non smetteva di parlare nemmeno un attimo, ma pensava fosse per la stanchezza.
    Spencer deglutì e distaccò lo sguardo da Madison puntando fisso uno dei tanti grattacieli di NY. “Resterai a New York, vero?” le domandò.
    Madison aggrottò la fronte sorpresa. “Restare qui? Aspetta, tu che ne sai?”
    “Ho sentito Derrick mentre ti proponeva di riprendere il tuo vecchio lavoro” spiegò lui cercando di non guardarla per non farle capire quanto gli dispiaceva che andasse via.
    “Non ho accettato” rispose la giovane, Spencer si voltò verso di lei incredulo. Cosa era andata a fare in centrale quella mattina allora?
    Madison sciolse i suoi dubbi raccontando la vera motivazione della sua visita. “Sono andata in centrale stamattina per ringraziare Gray e Derrick dell’offerta, anche se ero intenzionata a rifiutare. Volevo salutarli di persona, non mi andava di farlo al telefono”
    Spencer sorrise, la sua espressione si rilassò immediatamente, non si preoccupò nemmeno di nascondere quanto fosse felice che avesse deciso di tornare a Washington. Madison si avvicinò a lui pericolosamente e gli spostò i capelli dal viso. “Ti sarebbe dispiaciuto se fossi rimasta qui?”
    Spencer trattenne il fiato e annuì debolmente, non riusciva a parlare. Erano così vicini che i loro nasi si sfiorarono, era chiaro cosa sarebbe successo. Madison chiuse gli occhi e inclinò leggermente la testa verso sinistra, imitata da Reid che fece altrettanto. Schiuse le labbra, sfiorando quelle di Spencer, pronta a ricevere quel bacio che da tanto aspettava, quando il cellulare del dottor Reid squillò; a quel punto il genietto si distaccò da Madison che maledisse quel dannato cellulare, e rispose alla telefonata.
    “Arrivo” disse al proprio interlocutore. “Era Morgan, devo andare” informò Madison che sembrò non ascoltare.
    “Ci vediamo a Washington?” domandò lui mentre era sul punto di andare via, la sua vicina annuì, decisa anche lei di ignorare l’accaduto proprio come il dottor Reid.
    “Spencer?” lo chiamò lei prima che scomparisse giù per le scale. Il giovane si voltò di lei e ricevette un bacio sulla guancia. “Vai” sussurrò all’orecchio del profiler che annuì meccanicamente, poi si allontanò sfiorandosi più volte la guancia.

    Madison ritornò a casa dopo circa un’oretta, non riusciva a smettere di pensare a quel bacio non dato. Aveva forse sbagliato? Forse non si sarebbe dovuta buttare, e se Spencer non volesse saperne di lei?
    No, non era possibile. Ma allora cosa o chi lo tratteneva? E se ci fosse una fidanzata? Magari lontana.. oppure si era lasciato da poco? Doveva parlare con Derek. Era l’unico che potesse svelarle l’arcano e farle capire qualcosa.
    Erano questi i pensieri che occupavano la mente della giovane quando entrò nel suo appartamento, era talmente tanto concentrata che non sentì nemmeno suo padre chiamarla.
    “Madison!” la richiamò il padre per la terza volta, a quel punto la figlia si destò dai suoi pensieri. “Dimmi” disse al padre sorridendo.
    “A chi o a cosa pensavi?” la stuzzicò James, sicuro che avesse qualcuno per la testa, e certo di sapere chi. La giovane mentì dicendo che non stava pensando proprio a nessuno, ma si tradisse quando il padre le sorrise maliziosamente facendola arrossire in viso. “Pensavi a Spencer Reid?” domandò il padre certo di aver colpito nel segno nel vedere sua figlia sgranare gli occhi e diventare ancor più rossa in viso.
    “Come fai a saperlo?” domandò lei, non aveva mai nominato il nome di Spencer, aveva sempre parlato di lui in termini del suo vicino di casa.
    “Mads, sono un avvocato. Mi informo sui soggetti con cui dovrei collaborare, e guarda caso, il figlio di William Reid abita nel tuo palazzo a Washington. Non può essere mica un caso che tu mi abbia chiesto di contattare proprio lui! Sicuramente dovevi conoscere il figlio” spiegò lui con lo stesso tono convincente con cui teneva le arringhe in tribunale.
    La figlia scoppiò a ridere, suo padre era decisamente molto più bravo di un investigatore privato. “Avete una storia?” le domandò a quel punto il padre.
    Madison scosse la testa, confessando che non gli sarebbe dispiaciuto. “E’ un ragazzo un po’ particolare, no?”
    La figlia lo guardò torvo. “Te lo ha detto William? Perché non è affatto vero! Il problema non è Spencer..”
    Il padre la fermò. “Madison, William non mi ha detto nulla di negativo su suo figlio. Sono sicuro che sia un bravo ragazzo e anche intelligentissimo, ma non negare che sia un po’ diverso dalla media”
    “E’ proprio per questo che me ne sono innamorata, perché non è come tutti gli altri. Poi io sono felice quando sono con lui..” ammise Madison, suo padre l’abbracciò e le posò un bacio sulla fronte.
    “Scusami, stellina. Io voglio solo che tu sia felice, e non vorrei che aspettassi qualcosa che non accadrà mai” le svelò la sua paura il padre, mentre la teneva ancora stretta. Madison si accucciò e non rispose, confermando tacitamente che era anche la sua paura.

    Doveva capire, sapere se Spencer avrebbe mai fatto quel passo che lei era pronta a fare ad occhi chiusi da tempo, per tale motivo di ritorno a Washington la sera del giorno dopo non andò subito nel suo appartamento, ma bussò alla porta di Derek Morgan.
    “Madison, che ci fai qui?” gli chiese sorpreso, da quando abitava a Washington non si era mai recata nel suo appartamento senza avvisare, si domandò se fosse successo qualcosa. “Tranquillo, sto bene. Non è successo proprio nulla” lo tranquillizzò l’amica dopo aver notato l’espressione leggermente impaurita dell’amico.
    Morgan la invitò ad entrare e lei si accomodò sulla poltrona del salotto, era evidentemente nervosa. L’agente aspettò qualche secondo prima di incitarla a parlare di modo che si calmasse, infine Madison prese coraggio dopo aver fatto un bel respiro.
    “Sono innamorata di Spencer” confessò d’un fiato, aspettandosi un’espressione di sorpresa da parte dell’amico che tuttavia non giunse. “Lo sapevi già?” gli domandò lei notando che Derek era tutt’altro che stranito.
    Lui annuì e le versò un bicchiere di whiskey, forse l’avrebbe aiutata a digerire quanto stava per dirle. “Madison, non dovrei essere io a dirtelo, ma visto che sei mia amica e che si parla comunque di una persona che io reputo parte della mia famiglia, mi sento in dovere di dirtelo.” esordì Derek con tono serio mettendo in evidenza l’importanza di quanto le avrebbe riferito. Madison annuì e rimase in silenzio, forse finalmente avrebbe saputo quale fosse l’impedimento del dottor Reid.
    “Fino a qualche mese fa, Reid era fidanzato con Maeve. Non so molto riguardo al modo in cui si fossero conosciuti, avevano una storia un po’ particolare” introdusse la storia Derek; la giovane sorrise, non poteva che essere particolare una storia se coinvolgeva il dottor Reid, pensò.
    “Per diversi mesi si sono soltanto telefonati, senza mai vedersi.”continuò il profiler, l’amica sollevò un sopracciglio: come era possibile che non si fossero mai visti?
    “Maeve temeva per Spencer per via delle continue minacce di uno stalker, e faceva bene” spiegò lui a Madison, che iniziava a non seguirlo. “Lo stalker di Maeve era in realtà una donna, o meglio la fidanzata del suo ex. Quella donna odiava Maeve al punto da voler essere lei. Desiderava distruggerla, prendere la sua vita”
    “Per questo si era fidanzata con l’ex, voleva togliere a Maeve tutto ciò che amava” continuò. A quel punto fu chiaro a Madison che quella donna avesse preso di mira anche Spencer. “Quindi quando capì che in realtà Maeve amava Spencer ha provato a fargli del male?” domandò con la voce tremante, anche se sapeva che Spencer stava bene, fu inevitabile per lei provare timore per ciò che l’amico le stava per svelare.
    “Ha rapito Maeve e ucciso il suo ex dopo averlo torturato. Spencer capì subito che Maeve era in pericolo e ha chiesto a noi di aiutarlo a trovarla. Eravamo quasi riusciti a salvarla, sai?”
    “Non siete arrivati in tempo?” domandò Madison, che ormai aveva capito la triste fine della storia fra Maeve e Spencer.
    Derek scosse la testa, ancora non riusciva ad accettare quanto successo. “Siamo arrivati in tempo. Spencer ha affrontato la donna, dicendole tutto quello che lei voleva sentirsi dire: che l’amava, che in realtà non voleva Maeve, ma lei. L’ha persino costretto a baciarla e lui ha accettato.”
    “Tuttavia non puoi fingere quello che non provi e lei lo aveva capito -fece una pausa per prendere fiato-. È successo tutto molto velocemente, sembrava che fosse pronta ad arrendersi quando all’improvviso sparò a se stessa uccidendo anche Maeve con lo stesso colpo” concluse Morgan sperando che quel racconto aiutasse l’amica a capire perché Spencer fosse così impaurito di iniziare una nuova storia.
    Madison rimase in silenzio, provava una profonda tristezza per Spencer e non riuscì a trattenere una lacrima che scivolò lungo il viso. “Dagli tempo, non ti arrendere. Io sono sicuro che anche lui prova lo stesso per te, solo che ha paura” la incoraggiò Derek prendendola per mano. Madison sorrise, ma il suo sorriso era triste.
    “Aspetterò e gli darò tutto il tempo di cui ha bisogno, ma non posso aspettare tutta la vita” ammise lei, Derek la rassicurò dicendole che sarebbe andato tutto bene, che con il tempo tutte le ferite di Spencer sarebbero guarite; la giovane pensò che Spencer non era l’unico ad essere ferito, anche lei si trascinava dietro ferite inguaribili, ma non lo disse, non voleva parlarne con Derek.
    Era sul punto di andare via, quando Derek le domandò perché si fosse innamorata del dottor Reid. Era consapevole che era una questione molto personale e che probabilmente non avrebbe risposto, ma era davvero curioso di sapere cosa avesse visto l’amica in Spencer.
    Madison arrossì, si sentì come una liceale che stava per raccontare all’amica della prima cotta. Si appoggiò alla poltrona abbracciando un cuscino, provò a parlare ma scoppiò a ridere per il nervosismo. Non sapeva bene come formulare una risposta. “Spencer mi sa d’infanzia, di tutte le cose belle, come le lunghe passeggiate al tramonto in spiaggia o i baci sotto le coperte la mattina presto” affermò la rossa senza smettere di sorridere.
    “Quando sono con lui è tutto così diverso, è tutto migliore. Mi sento davvero a casa, al sicuro, capisci? È da molto che non mi sentivo così.” confessò all’amico che l’osservava divertito, era evidente che volesse stare con lui più di ogni altra cosa.
    Derek annuì, capiva i sentimenti dell’amica; anche lui era stato innamorato e conosceva quella sensazione di sicurezza e fiducia che si provava quando si era con la persona amata.
    “Ora ho bisogno di bere” esclamò Madison evidentemente in imbarazzo e scoppiò a ridere seguita da Derek che riconobbe di averne bisogno anche lui.


    M.



    Le settimane successive alla conversazione fra Derek e Madison trascorsero senza nessuna novità. Giunse la settimana prima di Natale, le vetrine dei negozi sfoggiavano mille decorazioni e luci colorate, l’atmosfera era di festa, per tutti tranne che per il dottor Reid che tentava di evitare il più possibile l’interno 5b.
    Temeva che Madison avrebbe preteso una spiegazione, e lui cosa le avrebbe potuto dire?
    ‘Vorrei stare con te, ma non posso’? Come poteva pretendere che Madison accettasse una simile spiegazione?
    “Per quale motivo? Per chi?”. Poteva già sentire la sua voce domandarle spiegazioni.
    Non lo meritava, lei meritava molto di più di questo. “Perché, diavolo, continuo a complicarmi la vita così?” pensò, mentre calciava una lattina vuota di Coca-Cola buttata da qualche passante per strada.
    Era tutto così semplice: bastava tornare indietro, bussare alla porta di Madison e restituire quel bacio che gli aveva negato. Eppure perché non ci riusciva? Non aveva bisogno di domandarsi perché; l’unica motivazione era lei: Maeve, il cui nome era scritto in maniera indelebile nel suo cuore.
    Si sedette su una delle tante panchine del parco dove qualche mese prima era stato con Madison, si voltò e notò una coppia di fidanzati sdraiati su un plaid: lui leggeva un libro e lei giocava con i suoi capelli. Pensò che quello poteva essere lui, ma lei chi? Madison o Maeve?
    Non avrebbe saputo rispondere a quella domanda. I due si baciarono, Spencer s’infastidì e si alzò, non riusciva a sostenere la loro vista.
    S’incamminò verso casa borbottando qualche frase incomprensibile che attirò su di sé gli sguardi sconcertati dei passanti. “Ok, sto decisamente peggiorando” pensò e scoppiò a ridere da solo per la situazione, anche se c’era poco da ridere. Stava ancora ridendo quando il suo cellulare iniziò a squillare, era il suo collega Derek Morgan.
    Spencer senza smettere di ridere rispose al telefono. “Pronto?”
    “Reid sei allegro oggi oppure sei ubriaco?” domandò l’altro sentendolo ridere. “Nessuna delle due. Posso fare qualche cosa per te?” rispose lui controllando la propria risata isterica.
    Derek fece spallucce, pensando che era meglio non domandare oltre. “Tra due giorni è il compleanno di Madison, le organizziamo una festa a sorpresa, o meglio Paget la organizzerà. Tu verrai, vero?” domandò con un tono che non sembrava tanto alludere ad un invito quanto piuttosto ad un ordine.
    Reid rimase per qualche secondo in silenzio. Accettare l’invito significa vedere Madison e lui la stava evitando molto candidamente, tuttavia non voleva mancare al suo compleanno. “Ok, verrò”
    Derek le rivelò i dettagli della festa: doveva recarsi a casa di Paget per le nove e mezza, puntuale; cosa che non doveva riuscirgli difficile dato il largo anticipo con cui era stato avvisato; Madison sarebbe arrivata assieme a Paget per le dieci, e quando la festeggiata avrebbe aperto la porta avrebbe trovato la sorpresa.
    “Hai capito, Reid?” domandò Derek quando ebbe finito di spiegargli come si sarebbe svolta la serata, poi gli riferì l’indirizzo di casa di Paget e riattaccò.
    A quel punto Spencer si trovò di fronte a un nuovo dilemma: cosa le avrebbe regalato?
    Pensò a qualche conversazione precedente alla ricerca di qualche dettaglio che gli potesse svelare qualcosa che Madison volesse, ma a parte un pianoforte, riguardo a cui Spencer convenne che fosse un regalo eccessivamente impegnato, non gli veniva in mente nulla.
    Stava dando un’occhiata alle vetrine senza notare nulla che lo colpisse quando all’improvviso si fermò davanti ad una gioielleria. Esitò per qualche secondo decidendo di proseguire, ma poi tornò indietro.
    Aprì la porta e iniziò a dare un’occhiata ai gioielli esposti, nel giro di qualche secondo fu raggiunto da una commessa che con tono cortese gli domandò se avesse bisogno di una mano. Spencer gli fu subito grato, in effetti non aveva idea di che tipo di gioiello regalare.
    “E’ un regalo per una mia amica” riferì alla commessa mentre questa iniziava a mostrargli i primi gioielli.
    “Che tipo di amica? Un’amica amica o un’amica speciale?” domandò la donna facendogli l’occhiolino.
    Spencer arrossì per l’imbarazzo, possibile che tutti saltassero a quella conclusione?
    “E’ solo un’amica” provò a sottolineare Spencer, la donna rise. “Ok, è un’amica che non deve restare amica?”
    Ok, quella donna era decisamente irritante, il dottor Reid si morse un labbro. “Le ripeto, è un’amica. Ora mi faccia vedere qualche collana, per favore”
    La donna annuì e iniziò a mostrargli diversi ciondoli in pietre preziose spiegandogli la qualità e la tipologia di pietra, che ovviamente Spencer conosceva.
    Fu allora che gli mostrò un ciondolo in azzurrite contornato da un filo di oro bianco che colpì molto Spencer, trovava che fosse perfetto per l’occasione. “Mi piace questo” disse indicando, la commessa si complimentò per l’ottima scelta e incartò la collana, racchiusa dentro una scatolina color rosso, avvolgendola con una carta regalo blu scintillante mentre il fiocco era dello stesso rosso della scatolina.
    Spencer ringraziò la commessa e uscì dalla gioielleria, soddisfatto del regalo appena acquistato che ripose nella tracolla. Mentre tornava a casa, pensava a cosa avrebbe scritto nel bigliettino; voleva che il suo bigliettino fosse originale, non i soliti auguri di compleanno del tutto scontati che finivano dimenticati in fondo al cassetto della scrivania.
    Aprì il portone del palazzo e si avviò per le scale quando sentì una voce che ben conosceva, ovvero la voce di Madison che cantava “Girls just want to have fun” di Cyndi Lauper. D’istinto accelerò la sua andatura, salendo i gradini a due a due, e intravedendo la figura della rossa in camice bianco, che rientrava dall’ospedale, la chiamò scordandosi per un attimo che desiderasse evitarla.
    “Sei allegra stamattina?” le domandò, Madison si girò di scatto e sorrise. “Hey, allora vivi sempre qui! Pensavo ti fossi trasferito” esclamò nel vederlo, aspettò che il vicino la raggiungesse e gli offrì una guancia su cui Spencer posò un bacio. “No, per tua sfortuna sono sempre qui” rispose lui, la rossa gli diede una leggera spinta.
    “Allora come mai sei così tanto allegra oggi?” chiese nuovamente Spencer mentre salivano le scale. “Tra due giorni è il mio compleanno” gli rispose. “Al dire il vero, doveva essere questo martedì, ma io non avevo molta voglia di uscire dalla pancia” aggiunse ridendo.
    Anche Spencer rise, la sua risata era molto contagiosa. “Farai qualcosa?”
    L’amica scosse la testa dicendogli che al massimo sarebbe uscita con Paget. “Nel caso verresti?”
    Spencer si trovò un attimo in difficoltà, non sapeva bene cosa dirle perciò s’inventò una cena fra colleghi. “Ogni tanto ci riuniamo” provò a giustificarsi con finto tono dispiaciuto.
    Madison annuì dicendogli di non preoccuparsi. A quel punto era arrivata alla porta del suo appartamento, lo salutò con un altro bacio sulla guancia e rientrò in casa.
    Non appena chiuse la porta, si precipitò sul telefono di casa e chiamò Paget. “Pa ma tu sai qualcosa di una cena fra colleghi prevista per questo sabato?” le domandò piuttosto perplessa, Spencer sembrava averle apertamente mentito.
    La donna aggrottò la fronte. “Cena fra colleghi?” disse a voce alta guardando Derek in cerca di una spiegazione che fece spallucce. “Sì, me lo ha detto Spencer” spiegò Madison.
    “Aaah, si! Hai ragione! Anche Derek me lo aveva accennato” mentì Paget capendo subito che doveva trattarsi di una scusa del dottor Reid. “Mi scordo sempre tutto” aggiunse per rendere il suo stupore più credibile.
    A quel punto Madison, ancora poco convinta della spiegazione ricevuta, riattaccò avvisando all’amica che sabato era libera a partire dalle venti e trenta.
    Chiusa la telefonata, Paget scoppiò a ridere. “Ma questa cena? Ci voglio venire anche io!” scherzò Derek che rise a sua volta, dandole un bacio sulle labbra.

    “Quindi questo sabato noi dovremmo andare a cena?” domandò Derek a Spencer, che rileggeva dei fascicoli, non appena arrivò nell’open space.
    Il dottor Reid fece una smorfia. “Era la prima cosa che mi è venuta in mente” si giustificò.
    L’agente di colore scosse la testa. “Quando ti inventi una balla, avvisa così evitiamo di rimanere spiazzati”; poi gli diede una pacca sulla spalla e andò nel suo ufficio.
    Blake si avvicinò al dottor Reid. “Cosa succede questo sabato?” domandò curiosa, li aveva ascoltati mentre parlavano prima.
    Reid si voltò verso di lei e la salutò. “Organizziamo una festa a sorpresa a Madison” spiegò lui arrossendo leggermente, sapeva che la donna avrebbe fatto una battuta.
    Blake gli lanciò un’occhiata molto esplicita senza dire nulla e andò a prendersi una tazza di caffè.
    “Tutti in sala riunioni. Abbiamo un caso” annunciò Aaron Hotchner procedendo a passo spedito verso la sala dove Garcia aveva già preparato il materiale per illustrare il caso.
    “Questa volta è un po’ meno cruento” esordì Garcia mostrando le immagini dei corpi ritrovati. “Tre uomini sono stati trovati impiccati questa mattina in un parco a Fairfax. Nicholas Green, 37 anni, Steve Hill, 39 anni e Peter Bell, 34 anni, sono stati trovati impiccati questa mattina nel parco” illustrò il caso l’analista informatica.
    “Ok, non può trattarsi di suicidio” affermò Rossi. “Veramente per quanto strano e improbabile potrebbe. La probabilità è del 0,037 per cento” ribadì Reid, Derek roteò gli occhi. “Reid, per favore” lo esortò il collega.
    “E se si fosse trattato di un suicidio collettivo?” domandò Blake.
    “Indotto da cosa?” chiese JJ. “Magari le vittime facevano parte di qualche setta, ne esistono diverse che predicano la fine del mondo e inducono i propri adepti al suicidio” suppose Spencer.
    “Garcia fai ricerche sulla vita delle vittime. Scopri se erano coinvolte in questo genere di setta” ordinò Hotch a Penelope che tornò di corsa nel suo ufficio. “Morgan, Reid, voi andate dal medico legale. È stato già avvertito del nostro arrivo” diede le istruzioni l’agente Hotchner.
    “JJ, parla con i parenti, magari scopriamo qualcosa di più” continuò. “Rossi invece andrà sulla scena del crimine”
    A quel punto i profiler si alzarono di scatto e partirono verso Fairfax.

    “Si tratta senza dubbio di suicidio. Si sono impiccate in contemporanea. Non posso essere molto preciso, ma di sicuro si sono suicidate intorno alle 22,40. ” sentenziò il medico legale scostando il telo bianco dal corpo delle vittime.
    “Non c’è traccia di droga per cui sembra che fossero consapevoli di quello che stavano facendo” aggiunse l’uomo prima che i due profiler domandassero.
    “Nello stomaco di tutti e tre ho trovato questo”. Mostrò un amuleto con una strana incisione, sembravano degli ideogrammi.
    “E’ un ideogramma giapponese significa libertà” spiegò il dottor Reid mentre lo esaminava. Poi racchiuse i tre amuleti in una busta di plastica per portarli dagli altri.
    “Bene, la ringrazio. Arrivederci” salutò l’agente Morgan il medico legale, seguito dal dottor Reid che uscì dalla stanza chiudendo la porta.
    Mentre tornavano verso l’automobile, Derek richiamò Hotch per riferirgli gli ultimi dettagli appresi dal medico legale.
    “Hotch, nello stomaco delle vittime è stato trovato un amuleto con una scritta. Reid dice che si tratta dell’ideogramma giapponese; significa libertà” sciorinò l’uomo in fretta.
    “Perfetto. Anche Garcia forse ha trovato qualcosa. Vi aspettiamo in centrale” rispose l’uomo riattaccando.

    Nel frattempo che i due agenti tornavano in centrale, JJ era a colloquio con l’ex moglie di Steve Hill assieme a Blake.
    “Quando è stata l’ultima volta che ha visto Steve?” le domandò la bionda. La donna sospirò, non ricordava l’ultima volta che aveva parlato con il marito. “Steve ed io abbiamo divorziato a febbraio dell’anno scorso e da allora non ci siamo visti molto. Saranno almeno quattro mesi che non ci vediamo”
    “Se posso chiedere, è stato un divorzio difficile?” chiese Blake cercando di non sembrare troppo invadente.
    “Al dire il vero, abbiamo semplicemente capito di non essere compatibili e senza figli lasciarsi è stato più facile” spiegò la donna. “Steve era un uomo piuttosto schivo, credo che non mi abbia mai amata. Stava con me solo perché non voleva rimanere solo” aggiunse con rammarico.
    “Come mai ne è così sicura?” domandò JJ. “Ci sono cose che in una coppia si capiscono. Quando era fuori per lavoro, cosa che accadeva spesso, non chiamava mai. Non si è mai ricordato del nostro anniversario in cinque anni di matrimonio”
    Blake sollevò il sopracciglio. “Non ha mai pensato che potesse avere un’amante?”
    La donna rise e scosse la testa. “Certo che l’ho pensato, ma non ne ho mai avuto la prova o conferma che fosse così e credo che a questo punto non la avrò più”
    JJ e Blake si scambiarono uno sguardo, quella donna sembrava non provare proprio alcuna pena per la fine dell’ex marito. “Sapete non è sempre stato così. All’inizio del nostro fidanzamento, era un uomo piuttosto premuroso. Poi ad un certo punto è cambiato. Spesso gli ho domandato se fossi io la causa ma lui continuava a ribadire che io non c’entravo. Forse era depresso e io non l’ho mai capito” disse la donna sperando che le due donne capissero che lei non aveva nulla a che vedere con il suicidio dell’ex marito.
    JJ rassicurò la donna sottolineando che sicuramente il suicidio del marito non aveva a che fare con lei. A quel punto le due donne si congedarono dicendole che l’avrebbe aggiornata nel caso di novità.

    “Anche Steve cambiò improvvisamente” affermò Blake mentre entrava nella stanza dove Hotch veniva aggiornato dal dottor Reid e Morgan appena ritornati dal colloquio con il medico legale.
    “Non si vedevano molto spesso. Non ha saputo dirci quando lo ha visto l’ultima volta” aggiunse JJ.
    “Garcia ha trovato qualcosa. È probabile che le vittime si siano conosciute dallo psicologo Flores” riferì Hotch. “Ho mandato Rossi a parlare con lo psicologo. Blake raggiungilo” aggiunse rivolgendosi all’agente che obbedì immediatamente.
    “Per quanto tempo le vittime hanno frequentato il dottor Flores?” domandò Reid.
    “Sono in cura con lui da circa 7 mesi” rispose Hotch. “Hill e Green venivano curati per depressione, mentre Bell per un disturbo post-traumatico da stress”
    “Quindi erano soggetti piuttosto inclini al suicidio” asserì Morgan. “La percentuale dei suicidi nei malati di depressione è del 34,58%” confermò Reid.
    In quel momento richiamò Garcia con novità sul caso. “Belli miei, ho scavato nel passato di Flores e quello che ho scoperto scommetto non vi stupirà” esordì l’analista informatica. “Flores è stato sospeso dall’albo circa tre anni fa per maltrattamenti dei propri pazienti. Da quel momento non c’è stata traccia dello psicologo fino a circa un anno fa quando ha aperto lo studio a Fairfax, che non è registrato”
    “Ho trovato anche una dichiarazione di Flores fra la documentazione del tribunale. Lo psicologo ha negato il maltrattamento dei propri pazienti sostenendo di aver semplicemente assecondato le loro inclinazioni naturali.” aggiunse. “Leggete la testimonianza di una paziente”
    “Il dottor Flores ci ha sempre detto che l’unico modo per guarire era assecondare i nostri pensieri, anche quelli più pericolosi. Io soffro di disturbi d’ansia, spesso mi ha indotto attacchi di panico. Una volta mi ha chiuso in una stanza bianca senza finestre per capire quanto potevo resistere” lesse Reid.
    Mentre gli agenti discutevano su Flores asserendo che doveva senza dubbio trattarsi di un psicopatico, Blake richiamò per informarli che l’uomo non era nello studio, che corrispondeva anche alla casa dello psicologo. Dentro trovarono la conferma che si trattava dell’assassino, erano state rinvenuti gli stessi amuleti trovati nello stomaco delle vittime esposti nel mobile d’ingresso.
    “Bambolina, cerca qualche altra proprietà a nome di Flores” chiese Morgan. La bionda iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. “Cioccolatino, non c’è niente”
    “E se fosse andato a casa di uno dei suoi pazienti? Forse si aspetta che la polizia si metta sulle sue tracce!” esclamò Reid.
    “Richiamiamo Blake e Rossi e vediamo se riescono a trovare qualche informazione” affermò l’agente supervisore.

    Il suggerimento di Reid si rivelò giusto, lo psicologo fu raggiunto a casa di una delle sue pazienti. Voleva liberare anche lei dalle sue paure inducendola al suicidio. I profiler erano arrivati appena in tempo per impedire a Flores di portare a termine il suo piano.
    “Solo così saranno liberi. Devono andarsene” urlava l’uomo mentre veniva portato via in manette.
    Di ritorno a Quantico, la squadra dell’unità analisi comportamentale fu impegnata nella redazione dei rapporti. Reid s’immerse nel lavoro cercando di fare il prima possibile; aveva pensato di festeggiare insieme a Madison a mezzanotte e doveva procurarsi ancora la torta e le candeline. Non aveva dubbi sulla torta che avrebbe scelto: il loro cheesecake.
    Finì di compilare il rapporto e andò di fretta da Hotch posandoglielo sulla scrivania. “Come mai così di fretta?” domandò l’agente supervisore alzando gli occhi dal rapporto che stava leggendo.
    Reid si portò i capelli dietro all’orecchio. “Ho un appuntamento” farfugliò. Hotch annuì e congedò il giovane profiler augurandogli un buon fine settimana.
    Uscito dal bureau, andò al supermercato alla ricerca delle candeline. Aveva girato mezzo supermercato senza trovarle quando s’imbatté in Paget piuttosto indaffarata, stava facendo la spesa per la festa.
    “Ciao Paget” la salutò sorridendole, non l’aveva più vista dal giorno in cui era uscito con Morgan, però la riconobbe subito, quel taglio di capelli alla Cleopatra era inconfondibile.
    “Reid? Ciao! Anche tu stai facendo la spesa?” domandò guardando il cestello vuoto del giovane. Reid annuì, a quel punto notò che la donna aveva nel proprio carrello le candeline e le domandò dove fossero.
    “Che ci devi fare con le candeline?” domandò lei con lo sguardo insospettito. Spencer arrossì, avrebbe dovuto raccontare del suo piano.
    “Pensavo di fare gli auguri a Madison a mezzanotte” confessò imbarazzato guardandosi le scarpe.
    Paget trattenne una risata. “Ok, sono di là, accanto agli ingredienti per i dolci” spiegò lei poi lo salutò ricordandogli che l’indomani doveva essere a casa sua per le nove e mezza e proseguì con la sua spesa.
    Trovate le candeline, il dottor Reid uscì dal supermercato e andò a comprare il cheesecake; per fortuna, ne era rimasto uno.
    Tornò a casa e andò a farsi una doccia; una volta finita, si asciugò i capelli con calma, scelse con cura i propri vestiti e il paio di calzini da spaiare, controllò l’orario erano appena le dieci passate. “Che faccio fino a mezzanotte?” si domandò, si guardò intorno cercando qualche libro con cui passare il tempo.
    Il primo libro che gli capitò sotto mano fu “Il rosso e il nero” di Stendhal; non avevo mai amato la letteratura francese più di tanto, per cui quel libro non lo ricordava e decise di leggerlo per ammazzare il tempo.
    Era immerso nella lettura quando sentì un suono acuto provenire da fuori, era un clacson.
    D’istinto come Julien, alzò lo sguardo verso l’orologio. Mancavano circa tredici minuti a mezzanotte, indossò le scarpe e scese le scale.
    Bussò alla porta e rimase in attesa, sembrava che nessuno fosse intenzionato ad aprire. Bussò di nuovo e sentì dei passi dietro la porta. Con voce assonnata, la rossa domandò chi fosse.
    “Sono Spencer” disse lui con tono impaziente. Madison aprì la porta e si trovò davanti il dottor Reid che trillò un “buon compleanno”.
    “Grazie Spence” rispose entusiasta dandogli un bacio sulla guancia poi si spostò per farlo passare e richiuse la porta.
    “Stavi già dormendo?” le domandò notando che aveva i capelli arruffati e che indossava il pigiama.
    Madison rise riflettendo sull’aspetto sexy che doveva avere in quel momento. “Mhm, si.”
    Spencer si scusò per essere piombato all’improvviso nel suo appartamento, l’amica gli disse di non preoccuparsi lasciandosi cadere sul divano accanto a Spencer che le ordinò di chiudere gli occhi.
    Madison obbedì e rimase con gli occhi chiusi mentre il dottor Reid sistemava la candelina sul cheesecake e l’accendeva. “Aprili” le disse, la giovane sorrise vedendo Spencer che teneva in mano il loro cheesecake, lo trovò un gesto carinissimo. “Esprimi un desiderio” sussurrò lui.
    Madison rifletté un secondo, anche se non ne aveva bisogno, tutto ciò che voleva era lì davanti a lei poi soffiò la candelina; a quel punto posò un dito sul cheesecake per prendere un po’ di sciroppo di fragola e se lo portò alla bocca. “Come fanno a farlo così buono?” esclamò mentre lo assaporava.
    Spencer rise e andò in cucina a prendere un coltello per tagliare le fette. Madison gli urlò di prendere il vino dal frigo, cosicché avrebbero potuto brindare. Il giovane versò il vino nei primi due bicchieri che trovò e ritornò in salotto.
    “Tanti auguri Maddie” le disse mentre i loro bicchieri tintinnavano, mangiarono il cheesecake e rimasero a parlare fino alle 3,30 del mattino.
    A quel punto, Madison sbadigliò e si appoggiò al divano, aveva gli occhi socchiusi. “Io vado” le disse il dottor Reid notando che l’amica era sul punto di crollare addormentata.
    “Buonanotte Maddie” sussurrò al suo orecchio dandole un bacio sulla guancia mentre la giovane si sistemava sul divano.

    Il giorno dopo Spencer venne svegliato dall’agente Morgan. “Ragazzino, abbiamo bisogno di te” gli disse con tono concitato. “Devi andare a prendere gli amici di Madison che vengono da New York, arrivano verso le sette e mezza di sera alla stazione. Si chiamano Daniel e Hannah” gli spiegò.
    “Ok, tutto bene?” domandò Spencer che sentiva l’amico un po’ strano. “Sì sì, tutto ok. Stiamo impazzendo a preparare tutto, però tranquillo” lo rassicurò, avere il dottor Reid con la sua goffaggine fra i piedi non avrebbe giovato affatto.
    Spencer fece spallucce. “Ok.. allora a dopo” e riattaccò.
    Si cambiò il pigiama e fece colazione, doveva ancora scrivere il biglietto di auguri per Madison, perciò si mise all’opera.
    Prese carta e penna e si sedette alla sua scrivania; fissò prima il foglio bianco senza righe davanti a lui poi il muro, scarabocchiò qualcosa. “Maddie, tanti auguri..”
    “Non va bene” si disse accartocciando il foglio che buttò nel cestino sotto la scrivania. Si appoggiò con i gomiti alla scrivania, posando il viso sul dorso delle mani e rimase pensieroso.
    Si rese conto di essere una frana nel fare gli auguri, non gli veniva in mente nulla, nessuna frase ad effetto, anzi nessuna frase, a parte il banalissimo “tanti auguri” che anche un bimbo di quattro anni sarebbe riuscito a pensare.
    “Un Q.I. di 187 e poi non so scrivere nemmeno un biglietto di auguri” pensò a voce alta, a quel punto si collegò su Internet alla ricerca di qualche frase simpatica da scrivere.
    Leggendo le frasi proposte da Google si scandalizzò. “ Ti auguro un compleanno felice, ma così felice... che più felice non si può”, ma che frase era?
    Accantonò l’idea di Internet e riprovò a spremere di nuovo le meningi, ricevendo infine l’illuminazione: sarebbe stato semplicemente sincero.
    “Ci ho provato a scriverti un biglietto di auguri, ma credimi non ne sono proprio capace; il meglio che riesco a fare è questo. Tanti auguri, Maddie.
    Ps: Lo so che fa schifo, ti accontenterai vero?”

    “Di sicuro degli auguri così brutti non possono che rimanere impressi” si disse rileggendo il bigliettino con la sua pessima calligrafia. Prese il bigliettino che mise dentro una bustina da lettera e la spillò al pacco regalo.
    Il resto della giornata trascorse lentamente, sembrava che le sette di sera, l’orario in cui doveva uscire per andare a prendere Hannah e Daniel, non arrivassero mai.
    Alle sette meno un quarto uscì di casa, non ne poteva più di aspettare. Arrivò alla stazione con largo anticipo, controllò il binario di arrivo del treno proveniente da New York city e si sedette ad un panchina.
    Alle sette e mezza spaccate, spuntò una coppia che litigava spingendosi a vicenda. “Come hai fatto a scordati il regalo di Mads? Ma sei un cretino!” urlava lei imbronciata.
    Spencer si alzò e andò al loro incontro. “Scema, figurati se l’ho scordato! È normale che lo abbia portato, è la prima cosa” disse lui ridendo. “Rimani comunque un idiota” rispose lei mentre s’infilava un cappellino di lana rosso in testa e i guanti abbinati.
    “Scusate voi siete gli amici di Madison?” domandò il dottor Reid leggermente in imbarazzo, come era solito accadere quando conosceva nuove persone. I due annuirono all’unisono. “Io sono Hannah e lui è Daniel. Tu devi essere Spencer, giusto?” domandò la giovane con tono cordiale, Reid le faceva tenerezza.
    Spencer annuì e rimase in silenzio fissando la coppia che lo fissava a sua volta. “Ehm… andiamo?” domandò Daniel.
    “Certo”esclamò il dottor Reid e si avviarono verso le scale.
    La coppia che seguiva Spencer lo fissava per cercare di capire che tipo fosse, sapevano che Madison lo considerava più che un amico e volevano ben inquadrare il tipo.
    Mentre erano in auto, Spencer provò a conversare con loro che erano eccessivamente loquaci per i suoi gusti, praticamente parlavano solo loro. “Sei di Las Vegas, scommetto!” disse Hannah riconoscendo l’accento del dottor Reid.
    Spencer annuì. “Non pensavo che si sentisse così tanto” ammise lui, la giovane gli disse che era particolarmente brava a decifrare gli accenti.
    Arrivarono a casa di Paget più tardi del previsto, avevano incontrato molto traffico sulla strada. Erano quasi le 9 quando riuscirono a imboccare lo stradone diretto a casa della mora.
    I tre scesero dall’auto e trovarono la porta aperta, s’infilarono dentro e trovarono Garcia scalza che sistemava i tavoli con Jennifer, la collega di Madison. “Ti serve una mano?” le chiese Hannah dopo essersi presentata assieme a Daniel.
    Garcia la ringraziò e diede ai tre qualche istruzione per finire di preparare il tutto.
    Finirono di sistemare tutto poco prima dell’arrivo delle due amiche, sentirono la voce di Paget dire alla festeggiata che aveva scordato il cellulare, insospettendo Madison che sapeva che Paget si portava il cellulare persino in bagno.
    La mora aprì la porta e trovò l’appartamento al buio, aspettò che Madison fosse dietro di lei e accese le luci.
    “Sorpresa” urlarono tutti all’unisono. “Lo sapevo” esclamò lei imbarazzata, le feste a sorpresa la imbarazzavano sempre.
    Abbracciò Paget, sicura che fosse stata lei ad organizzare il tutto. “Grazie tesoro” le mormorò all’orecchio mentre l’altra la sbaciucchiava. Era ancora abbracciata a Paget quando notò Hannah e Daniel che tesero le braccia, la giovane si staccò dall’amica e corse dai due. “Ci siete pure voi? Che bello” trillò la rossa mentre baciava sulle guancie Daniel e poi Hannah.
    “Si, anche se non dovremmo, visto che sei venuta a NY e non ci hai avvisati” la rimproverò Hannah incrociando le braccia.
    Madison rise. “Non è stata una piacevole visita, credimi”
    Li riabbracciò stritolandoli contro la loro volontà, e infine salutò il resto dei presenti con un abbraccio per ringraziarli, a quel punto Penelope, risalita sui suoi tacchi vertiginosi, accese lo stereo facendo partire la musica.
    Trascorsero tutta la serata a ridere e scherzare, Madison ne fu molto felice. Non aveva festeggiato il compleanno negli ultimi tre anni e le mancavano le feste di compleanno.
    Paget e Hannah organizzarono anche un balletto come ai tempi del college coinvolgendo anche Madison che si trascinò dietro il suo vecchio compagno di scuola, Daniel.
    Verso mezzanotte Paget fece il suo ingresso in salotto con la torta, cucinata da lei stessa, ovvero un pan di Spagna al cioccolato ripieno di crema alla nocciola e glassato con delle decorazioni di pasta di zucchero a forma di farfalla; Madison soffiò le candeline per la secondo volta e stappò una bottiglia di spumante facendo finire il tappo della bottiglia contro il soffitto che poi cadde in testa a Derek. “Scusami” gli disse mentre gli accarezzava la testa rasata.
    Dopodiché aprì i regali, Hannah e Daniel le avevano comprato un bauletto di colore blu, Penelope invece il suo profumo preferito, Miracle di Lancôme, Jennifer e Ron un’agenda in pelle. “Ci siamo stancati di vederti con quel cellulare in mano” dissero i due ridendo, mentre Derek e Paget, oltre la festa, le regalarono due biglietti per la mostra di Monet al National Gallery of Art. “Magari trovi qualcuno con cui andare” disse Paget sottovoce mentre glieli mostrava facendole un occhiolino.
    La festa continuò finché verso le due, Penelope, Jennifer e Ron, l’altro collega di Madison, si ritirano, seguiti dalla coppia Hannah e Daniel, che avevano un bed and breakfast per una notte, per i quali Derek aveva prenotato un taxi.
    “Ci vediamo domani, amore” le disse Hannah abbracciandola insieme a Daniel prima di salire sul taxi.
    “Spencer l’accompagni tu a Madison?” domandò Paget a Reid, che annuì. Madison ringraziò ancora una volta tanto Paget quanto Derek per la bella sorpresa che le avevano organizzato e uscì di casa portandosi le buste con i regali.
    Durante il tragitto, Madison accese la radio e beccò una delle sue preferite di Bon Jovi, “It’s my life”; “Nooo, posso alzare il volume? Ti prego”
    Spencer non fece nemmeno in tempo a rispondere che lei aveva già alzato il volume e iniziato a cantare a squarciagola, sotto lo sguardo divertito dell’altro. “Sei completamente pazza” le disse dopo aver assistito alla performance della dottoressa che adoperò il suo cellulare come microfono.
    Arrivati a casa, Madison salì di corsa le scale, non aveva affatto sonno. “Tu vai a letto?” domandò all’amico, che scosse la testa, mentre lei apriva la porta. “Devo darti una cosa” farfugliò e s’infilò in casa.
    Madison sollevò il sopracciglio. “Che mi devi dare?”, l’amico infilò una mano nella tracolla ed estrasse il pacco regalo che lo allungò verso di lei. “Un altro regalo? Wow! Non dovevi” disse lei, l’amico le rispose che era il minimo e poi la invitò ad aprirlo.
    “No, prima il biglietto” ribatté lei, aprì il foglio e lo lesse. “E’ perfetto così” disse ridendo.
    A quel punto scartò il proprio regalo. “E’ bellissima” affermò mentre la sollevava, si girò alzandosi i capelli e gli chiese di mettergliela. “Sai, dicono che l'azzurrite sia una pietra misteriosa e magica: ai tempi degli Egizi e dei Romani era considerata sacra perché favoriva il contatto diretto con gli Dei e l'interpretazione dei loro messaggi. Ancora oggi è usata come pietra per la meditazione e come talismano porta fortuna” le spiegò mentre chiudeva il gancetto della collana. “Dicono anche che faciliti la consapevolezza di sé e delle proprie idee”
    Madison si girò di nuovo verso di lui e gli sorrise mentre Spencer continuava a blaterare sulle proprietà dell’azzurrite.
    “Spencer, tu vuoi stare con me, vero?” disse d’un fiato senza pensarci, era stanca di aspettare.
    Reid sgranò gli occhi e deglutì, era finalmente arrivata la domanda che da tempo cercava di evitare. “Madison, io..”
    La dottoressa lo interruppe. “So tutto di lei, Spencer. Credimi, ti capisco, ma continuare così non ha senso. Lei non tornerà più, io invece sono qui ora” disse provando a prenderlo per mano.
    Spencer si scostò. “Non posso” disse a bassa voce. “Mi dispiace”
    Madison sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò indietro. “Non la posso accettare” aggiunse mentre gli restituiva la collana.
    “Ora per favore, vai via” pronunciò quelle parole dure e fredde che non lasciavano alcun addito a possibili repliche e andò a chiudersi nella sua camera di letto mentre Spencer usciva da casa sua senza poterla nemmeno salutare.


    Durante la notte Madison non riuscì a prendere sonno, continuava a rigirarsi nel letto ripensando alla conversazione di qualche ora prima. “Bel compleanno di schifo” disse a voce alta buttando i cuscini per terra.
    Si alzò dal letto, prese carta e penna e iniziò a scrivere una lettera per lui. Scrisse di getto, voleva che sapesse tutto della sua storia, era l’ultimo tentativo che si riservava prima di rinunciare per sempre.

    “Spencer, forse avrei dovuto dirtelo diversamente, ma ci sono cose che io non riesco a dire a voce alta perciò ho deciso di scriverti questa lettera. Spero che tu la legga fino in fondo.
    Il giorno in cui ti ho parlato della mia anoressia, non ti ho detto tutto, tu non hai chiesto e io ho preferito non raccontarti tutto ciò che volevo semplicemente dimenticare, ma ora voglio che tu sappia.
    Poco dopo che ho iniziato a lavorare come medico legale, ho conosciuto un uomo, Mason.
    Siamo stati insieme per più di due anni. Dopo un anno di fidanzamento, eravamo così felici insieme ché abbiamo deciso di andare a convivere. Per mesi andò tutto bene, litigavamo ogni tanto ma erano i normali litigi di una coppia, un giorno però Mason cambiò. Non ho mai capito cosa fosse scattato in lui, ma iniziammo a litigare sempre più spesso, anche senza un’apparente motivazione.
    Tuttavia pensai che fosse solo stress, che fosse sotto pressione a lavoro, quindi decisi di non farci caso. Per qualche mese la situazione si calmò, e fu allora che ricevetti la più bella notizia della mia vita, scoprii di essere incinta, non potevo essere più felice. Ricordo che corsi a casa per raccontarlo a Mason, pensando anche lui sarebbe stato contento quanto me, ma non fu così.
    Reagì molto male alla notizia, mi disse che ero stata un’incosciente perché non ero stata attenta, e uscì di casa sbattendo la porta. Dopo quella prima reazione, avrei dovuto capire che dovevo andarmene, ma non lo feci. Pensavo che avrei potuto recuperare il rapporto, mi sbagliavo. La situazione non fece che peggiorare, i nostri litigi si fecero sempre più accesi, al punto che Mason iniziò a mettermi le mani addosso.
    Dopo ogni eccesso di rabbia, si prostrava chiedendomi perdono, io avevo paura e stavo zitta; non saprei dirti perché glielo ho permesso, sapevo che era giusto andarmene ma non ci riuscivo.
    Arrivai al sesto mese di gravidanza, cercavo di resistere come meglio potevo. Evitavo i miei e gli amici perché non si accorgessero di quello che stava accadendo finché un giorno successe ciò che mai avrei voluto accadesse.
    Mason rientrò a casa ubriaco, mi tirò giù dal letto e iniziò a insultarmi pesantemente, provai a farlo ragionare, ma tutto ciò che ottenni fu una reazione ancora peggiore. Mi spinse facendomi cadere contro il tavolino in vetro del salotto; non ricordo molto su cosa successe dopo, persi conoscenza.
    Mi svegliai in una pozza di sangue, Mason era scappato. Chiamai subito i miei, ma ormai era troppo tardi. Avevo perso il bambino.
    Nei mesi successivi, tutto ciò che desideravo era scomparire, volevo che il mio ventre si seccasse per sempre, non doveva esserci alcuna vita in me. Ero convinta che fosse la cosa giusta, che io non meritassi di vivere e fu così che caddi in anoressia e in depressione. Il resto della storia la sai già, dopo due anni sono riuscita ad uscire da quel buco nero in cui ero caduta e ancora oggi vedere bambini mi fa stare male. Non so se questo possa cambiare qualcosa, ma volevo che lo sapessi.
    Volevo anche che sapessi che, grazie a te, in questi ultimi mesi sono stata felice, ora so che prendere la decisione di trasferirmi qui è stata quella giusta perché ho conosciuto te.
    Mi sono resa conto che ti amo, e spero che un giorno anche tu proverai lo stesso per me.”

    Finì di scrivere la lettera e scoppiò in lacrime, per se stessa ma soprattutto per il suo bambino; pensare a quel bimbo che non aveva mai visto la luce la rattristava e le faceva male. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro, ma questo non era più possibile.

    Qualche giorno più tardi, si recò nell’appartamento di Derek per salutarlo per le feste, trovò lì anche Paget che si stava preparando psicologicamente per il primo incontro con la famiglia dell’agente di colore.
    “Mads, ciao! Sei di partenza?” le domandò, sapeva che avrebbe trascorso le ferie a New York in compagnia della famiglia.
    “Sì, parto oggi” confermò lei. L’indomani sarebbe stata la vigilia di Natale, per cui preferiva partire con calma. “Volevo augurarvi un buon Natale, vi ho anche portato un pensierino” disse ad entrambi.
    Aveva regalato un soggiorno per due in una spa per un weekend. “Wow! Altro che pensierino!” esclamò Paget dopo averla ringraziata. Madison fece spallucce. “Mi avete organizzato una festa di compleanno, ve lo siete meritati”
    Rimasero a chiacchiera per un altro po’, poi Paget che doveva finire ancora le valigie, si scusò e tornò in camera a sistemare dopo aver salutato l’amica.
    “Derek, senti, avrei un favore da chiederti” esordì lei. “Potresti fare in modo che Spencer abbia questa?” domandò mostrandogli la lettera che aveva scritto. “Gliela devo dare?” chiese lui.
    Madison scosse la testa. “Infilala nella giacca o nella tracolla, ma non gliela dare in mano” gli ordinò, Derek la guardò stranito. Quei due sono davvero strani, pensò; tuttavia disse che avrebbe fatto come lei aveva richiesto.
    La dottoressa lo ringraziò, gli augurò nuovamente di trascorrere delle belle vacanze e partì per New York.

    Il giorno dopo, Derek prima di partire fece una piccola deviazione passando per l’appartamento del dottor Reid, che aveva deciso di trascorre tutte le ferie a Washington.
    “Reid, sono passato per augurarti buon Natale” si annunciò Derek una volta salito insieme a Paget.
    Approfittando di un momento di distrazione di Reid, che era andato in cucina a prendere un bicchiere d’acqua per la fidanzata dell’amico, infilò la lettera nella prima giacca che gli capitò a tiro.
    Dopodiché i tre si salutarono. “Mi raccomando, ragazzino” gli disse poco prima di andare via, Spencer lo rassicurò dicendogli che stava bene e dopo aver augurato alla coppia di passare un buon Natale e un felice anno nuovo, si rinchiuse nel suo appartamento, dove aveva deciso di trascorrere da solo tutte le feste, senza accorgersi minimamente della lettera.



    “Gli occhi pieni di te”


    Volano le libellule,
    sopra gli stagni e le pozzanghere in città,
    sembra che se ne freghino,
    della ricchezza che ora viene e dopo va,
    prendimi non mi concedere,
    nessuna replica alle tue fatalità,
    eccomi son tutto un fremito, ehi.



    Giunse l’ultimo giorno dell’anno, Spencer era seduto sulla sua poltrona davanti alla finestra abbracciato al libro che gli aveva regalato Maeve nella semi oscurità del suo appartamento. Si sentiva solo e svuotato mentre ascoltava il suono delle risate delle persone che passavano per le strade senza tuttavia vederle. Pensò che in mezzo a tutte quelle persone che festeggiavano l’inizio del nuovo anno doveva esserci anche lei. Avrebbe festeggiato?
    “Mi stai pensando?” si trovò a domandare ad un’ipotetica lei. La poteva immaginare ridere e scherzare con i suoi, ballare con i suoi amici. E lui cosa avrebbe fatto senza lei?


    Passano alcune musiche,
    ma quando passano la terra tremerà,
    sembrano esplosioni inutili,
    ma in certi cuori qualche cosa resterà,
    non si sa come si creano,
    costellazioni di galassie e di energia,
    giocano a dadi gli uomini,
    resta sul tavolo un avanzo di magia.


    Seduta a davanti allo specchio di camera sua, Madison sentiva il padre cantare alla madre la loro canzone mentre si truccava per la festa. Provò un po’ d’invidia nei confronti dei suoi, un giorno avrebbe festeggiato anche lei così?
    Le sembrò di sentire la voce di sua nonna Rosemary sussurrarle all’orecchio: “L’amore verrà”. Un tempo ci avrebbe creduto, ora non più; troppe delusioni aveva ricevuto per portarci credere.
    Si alzò e scese di sotto per accogliere gli invitati fingendo un sorriso.



    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti al cielo
    e non so leggere, vienimi a prendere,
    mi riconosci ho le tasche piene di sassi.



    Il telefono di casa squillò, Spencer si alzò di scatto dalla poltrona facendo cadere il libro. “Spencer” era la voce di sua madre. “Buon anno”
    “Buon anno anche a te, mamma” rispose con la voce triste che non sfuggì a sua madre. “Perché non sei da lei?” domandò Diana a suo figlio, che rimase in silenzio, non sapeva come rispondere a quella domanda.
    “Spencer, andare avanti non significa dimenticare” gli ricordò la madre. “Prova ad essere felice per una volta” e riattaccò.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti a scuola,
    mi vien da piangere,
    arriva subito,
    mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
    la faccia piena di schiaffi,
    il cuore pieno di battiti
    e gli occhi pieni di te.



    Riprese il libro da terra e lisciò la copertina; con un gesto automatico lo aprì e lesse la dedica che gli aveva scritto Maeve, non poteva essere più azzeccata, pensò. Se era vero che l’amore è il vero destino di ognuno di noi, sarebbe sbagliato correre da lei?
    Posò il libro sulla libreria accanto agli altri, lo sguardo cadde sulla sua giaccia posata sulla poltrona. Non aveva notato prima un foglio piegato spuntare dalla tasca. Lo prese e lo aprì, era la lettera di Madison.


    Sbocciano i fiori sbocciano,
    e danno tutto quel che hanno in libertà,
    donano non si interessano,
    di ricompense e tutto quello che verrà,
    mormora la gente mormora
    falla tacere praticando l'allegria,
    giocano a dadi gli uomini,
    resta sul tavolo un avanzo di magia.




    Madison si unì alle cugine e al fratello che stavano brindando all’anno nuovo; sollevò il calice verso l’alto. “A noi e all’anno che verrà” disse lei distrattamente. Suo fratello l’abbracciò e le diede un bacio sulla guancia. “Ti voglio bene” mormorò Brian, poi le offrì la mano per invitarla a ballare.
    Madison fece un inchino e accettò l’invito. “Anche io ti voglio bene” rispose mentre poggiava la testa sulla spalla di suo fratello. Sul suo viso nascosto scivolarono due lacrime mentre tutti si divertivano.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti al cielo
    e non so leggere, vienimi a prendere
    mi riconosci ho un mantello fatto di stracci.




    Nell’aprire la lettera, quel profumo inconfondibile misto di miele e di pesca gli invase le narici. Gli sembrò di sentire la sua voce mentre la leggeva. Inevitabilmente si commosse.
    Quella lettera era tutto ciò di cui aveva bisogno, ora sapeva cosa doveva fare.
    Prese le chiavi dell’auto e uscì di casa.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti a scuola,
    mi vien da piangere,
    arriva subito,
    mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
    la faccia piena di schiaffi,
    il cuore pieno di battiti
    e gli occhi pieni di te.




    Il telefono di Madison squillò svegliandola, con gli occhi ancora chiusi rispose. “Maddie, scendi giù?”
    Riconobbe la voce di Spencer immediatamente, si alzò dal letto e si affacciò alla finestra notando la figura del dottor Reid in strada, che guardava verso l’alto, non aveva idea di quale fosse la sua finestra.
    Indossò un cardigan e scese di corsa le scale.
    Fu come incontrarsi per la prima volta. I loro sguardi s’incrociarono, lei sorrise, lui sorrise. “Ciao” sussurrò Madison accarezzandogli il viso. Spencer la prese per mano e l’attirò a sé con delicatezza. “Scusami, se ci ho messo tanto” le
    disse mentre le posava un bacio sulla fronte.
    “Non importa” rispose Madison che appoggiò il viso nell’incavo del collo. Senza smettere di accarezzargli i capelli, gli sfiorò dolcemente il collo con le labbra.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti al cielo
    vienimi a prendere
    mi vien da piangere,
    arriva subito,
    mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
    la faccia piena di schiaffi,
    il cuore pieno di battiti
    e gli occhi pieni di te.



    Rimasero abbracciati mentre pian piano le strade di NY s’illuminavano con i raggi del sole che sorgeva sulla città senza muoversi. “Mi prometti che sarà per sempre?” domandò lei alzando lo sguardo verso di lui che annuì.
    Spencer le prese il viso fra le mani, poteva sentire il battito del suo cuore contro il petto accelerare. Le sfiorò le labbra morbide con le dita e l’avvicinò ancora di più a sé.
    “Per sempre” sussurrò restituendole quel bacio, carico di speranza e di amore, che tempo fa le aveva negato.



    Angolo autore:

    La canzone è "Le tasche piene di sassi" di Jovanotti, ascoltala, è davvero molto bella.
     
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3 replies since 24/8/2013, 14:57   278 views
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