Just smile.

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  1. Antu_
     
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    Autore: Antu_
    Titolo: Just smile
    Rating: Giallo.
    Categoria: Commedia, Drammatico, Romantico.
    Avvertimenti: Spoiler sulla 8a stagione.
    Personaggi/coppia:Spencer Reid/Nuovo personaggio), un po' tutti.
    Disclaimer: i personaggi, a parte quelli inventati da me, appartengono a Jeff Davis, così come Criminal Minds appartiene alla CBS. Questa storia non è a scopo di lucro.
    Note: Allora è un secolo che non posto nulla, e sono circa due secoli che non scrivo. Avevo provato a scrivere questa FF tempo fa, ma è rimasta incompleta e poi il mio pc è stato formattato e così è andata persa. Quest'estate ho aperto Word perché dovevo scrivere la tesi, ma mentre per quanto riguarda quella non ho scritto più di una pagina, ho avuto un'illuminazione e ho iniziato a scrivere questa storia, un po' modificata però, visto che la serie si è evoluta diversamente in questi anni.
    Spero mi seguirete in tanti, e non vi fate ingannare da questo primo capitolo, non sarà la classica storiella romantica trita e ritrita.

    “Nuovi arrivi nella capitale”



    Le luci di Washington D.C.. cominciavano lentamente ad accendersi mentre il cielo di settembre ormai inoltrato si tingeva di un rosso sempre più accesso; il sole sarebbe tramontato nel giro di pochi minuti, osservò Spencer Reid appoggiato alla finestra del suo appartamento intento a bere una tazza fumante di caffè. Guardò verso l’orologio, segnalava le 8,15, aveva ancora tre quarti d’ora prima che il suo amico, nonché collega, Derek Morgan venisse a prenderlo.
    Non aveva alcun desiderio di uscire quella sera, come accadeva ormai da diverse sere, ma Derek aveva insistito particolarmente e sapeva che non avrebbe potuto opporgli un altro no, perciò fece un respiro profondo ed accettò l’invito dell’amico. Si disse che era meglio sbrigarsi altrimenti avrebbe fatto tardi, perciò posò la tazza nel lavello della cucina e andò a farsi una doccia cercando di non pensare, per quanto gli fosse possibile, a Maeve.
    Tre quarti d’ora dopo, il citofono suonò, era Derek in perfetto orario; Spencer s’infilò la giacca ed uscì dall’appartamento promettendosi di fare ritorno alla sua quiete al più presto.
    “Dove andiamo?” chiese Spencer all’amico, che aveva un’aria alquanto entusiasta, dopo essersi sistemato la cintura di sicurezza.
    “Andiamo al Jammer Planner” gli annunciò nel mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio. Spencer gli lanciò uno sguardo interrogativo. “Tutto questo entusiasmo per andare in un pub sulla 34esima strada?” lo incalzò dopo una breve riflessione. Derek sorrise guardando l’amico tramite lo specchietto retrovisore.
    “Devo incontrare una mia amica” gli confessò facendo un sorriso un po’ malizioso. A quel punto Spencer si girò verso Derek, rosso in faccia per la rabbia. “Tu mi fai uscire di casa di domenica sera, quando sai che c’è Star trek in tivù”- fece una pausa per riprendere fiato- “per portarmi ad una seratina con una tua amichetta?”
    “Hey, ragazzino! Calmati, ok?” esordì Morgan dopo la sfuriata dell’amico, “Non è quel tipo di amica..”aggiunse.
    “Si è appena trasferita a Washington da New York e mi ha chiamato, non so nemmeno le motivazioni dato che non la sentivo da un po’, e mi è sembrato carino invitarla ad uscire per farla ambientare, per questo ti ho invitato, perché si facesse un amico in più” gli spiegò. “E ad ogni modo con noi ci sarà anche Garcia, quindi non preoccuparti” gli fece un occhiolino in segno d’intesa e parcheggiò. Erano arrivati al Jammer Planner poi si affrettò a scendere dalla macchina prima che il giovane potesse replicare.
    Sulla porta del locale trovarono Garcia, che indossava un vestito rosa sgargiante con delle scarpe dal tacco vertiginoso e un fermaglio a forma di farfalla tra i capelli dello stesso colore del vestito. Derek rivolse un sorriso all’amica e le cinse le spalle con il braccio. “Siamo molto carine stasera” le disse facendo un sorriso che venne immediatamente ricambiato .
    “Si, Garcia, il tuo look è parecchio… vistoso” confermò Spencer dopo aver cercato le parole più adatte con cui descrivere il look dell’analista informatica.
    “Ma la tua amica?” chiese Garcia a Derek ignorando le parole di Spencer e tentando di guardare oltre le spalle di Derek per capire se era con loro.
    “Ci aspetta dentro. Sarà già arrivata” le rispose, poi aprì la porta del locale e iniziò a guardarsi intorno per cercare l’amica. Non furono necessari molti sforzi da parte dell’agente Morgan per individuarla, infatti dopo qualche secondo una ragazza si diresse verso di lui sfoggiando un sorriso a trentadue denti che Derek non esitò a ricambiare.
    “Derek, da quanto tempo!” furono le sue prime parole mentre abbracciava Derek. Poi si staccò e rimase lì in piedi davanti a lui. Era una donna piuttosto giovane non molto alta e dalla corporatura alquanto esile, non dimostrava più di 30 anni, pensò Spencer mentre la osservava asserendo infine che erano certamente coetanei.
    Aveva i capelli rossi un po’ mossi con una lunga frangia che le copriva gli occhi di un verde quasi accecante. Indossava una camicetta bianca con un pantaloncino blu notte a vita alta che le evidenziava i fianchi e una giacca abbinata, ai piedi portava un paio di stivali bassi in pelle nera.
    “Madison, loro sono Penelope Garcia e Spencer Reid, due miei colleghi” li presentò Derek. Madison si avvicinò a Garcia presentandosi a sua volta e le strinse la mano, poi provò a fare lo stesso con Reid ma di fronte alla reazione del genietto del F.B.I. che agitava la mano in aria senza dare alcun segno di voler fare altrettanto, ritirò la mano e si adeguò al saluto del collega di Derek.
    “Com’è avere Derek come collega?” chiese rivolgendosi ai due mentre si sedeva e invitando i suoi nuovi amici a fare altrettanto. “Il cioccolatino qui presente? E’ una gioia” esclamò con estrema convinzione Penelope, “Insomma guardalo!” le sussurrò all’orecchio suscitando le risa di Madison.
    “E’ un bravo collega” fu tutto ciò che disse Spencer abbassando lo sguardo. Quella ragazza lo metteva in soggezione.
    “Madison lavori sempre con l’agente Derrick?” le domandò Morgan, voleva sapere che ne era stato della vita della sua amica negli ultimi due anni, non l’aveva né vista o sentita dal loro ultimo incontro a Baltimora.
    “Ehm..no, non lavoro più con lui” rispose quasi in un sussurro. “Sei un agente dell’F.B.I.?” le chiese Spencer improvvisamente curioso, non aveva l’aria di essere un agente, ma del resto nemmeno lui.
    “Oh no no, io ero il medico legale assegnato alla squadra di Wayne” spiegò in fretta. Notando che i tre la osservavano in attesa di maggiori informazioni, aggiunse: “Ora lavoro al Georgetown university hospital, sono stata assunta nel reparto di diagnostica”
    “Mmm… ma i medici legali lavorano con pazienti, insomma, non esattamente vivi…” esordì Spencer sempre più curioso. “Ottima deduzione, devi essere un genio” lo incalzò Madison, si stava infastidendo, non le piacevano tutte quelle domande.
    Spencer si rabbuiò, improvvisamente si sentì stupido poi gettò un’occhiata ai suoi colleghi che impassibili sghignazzavano.
    “Ho un anche dottorato in malattie infettive, è per via di quello che mi hanno assunta” gli disse infine sperando di porre fine a quell’interrogatorio irritante. Spencer annuì e costrinse se stesso a non fare più domande, nonostante ne avesse molte sulla punta della lingua.
    “Andiamo a prendere qualcosa da bere?” suggerì Morgan per sciogliere quel silenzio imbarazzante che si era creato fra i commensali. Garcia si rivelò subito d’accordo ed insieme si avviarono verso il bar dopo aver domandato cosa gradissero gli altri due.
    Spencer si pentì immediatamente di non essersi offerto per prendere da bere, era in tremendo imbarazzo, non sapeva cosa dire e quella ragazza, muta come un pesce, non gli facilitava di certo le cose. Si guardava intorno alla ricerca di un diversivo anche se ogni tanto gettava un’occhiata alla nuova compagna.
    “Noo, questa è la mia canzone!” esclamò dopo aver riconosciuto le prime note di “Feel this moment”, si alzò in piedi e tese la mano a Spencer invitandolo a ballare. “Uh, io non so ballare, magari se aspetti Morgan, sarà di ritorno fra poco” le disse sperando che desistesse dall’invito.
    “Ma io voglio ballare ora, dai, muoviti” lo incoraggiò tirando per il braccio il genietto che tentava di fare una malferma opposizione. “Spencer, io vengo da New York e noi newyorkesi non siamo abituati a ricevere un no come risposta!” poi alzò il giovane genio di peso e lo trascinò in pista, volente o nolente avrebbe ballato con lei, pensò la rossa.
    Arrivati in pista, Spencer rimase fermo di sasso, iniziava a sudare, si sentiva decisamente a disagio; Madison lo osservava divertita, non riusciva a credere che ci fosse qualcuno incapace di muoversi almeno un minimo. “Allora non sai ballare veramente!” affermò la ragazza ridendo, Spencer la guardò torvo, si stava forse prendendo gioco di lui?
    “Vieni qui!” disse poi avvicinandolo a sé e prendendolo per le mani, a quel punto l’imbarazzo del giovane stava completamente prendendo il sopravvento, avrebbe preferito sprofondare nel buio piuttosto che trovarsi lì.
    “Guarda, ora vai indietro e poi avanti” gli spiegò indicando il movimento. Spencer la imitò, era più semplice di quel che pensava.
    Gli volle un po’ per sciogliersi, ma il risultato non fu da disprezzare, si stava divertendo, doveva ammetterlo. Nel frattempo Garcia e Morgan erano ritornati al tavolino con le ordinazioni, sorprendendosi di non trovare gli altri due.
    “Ma dove saranno andati?” si chiese Garcia mentre posava i cocktail, “Dici che sono andati in bagno?” domandò a Derek.
    “Mmm..a questo punto spero che siano nello stesso bagno!” la scherzò Derek bevendo dal suo bicchiere. Garcia gli lanciò un’occhiataccia e guardò verso la sala. “Eccoli!” esclamò dopo averli individuati e non nascondendo la sua sorpresa dopo aver visto Spencer ballare. Anche Derek rimase stranito, non lo aveva mai visto ballare, senza di lui che lo teneva fermo per le spalle per non farlo scappare.
    “La tua amica ha compiuto un miracolo” disse Penelope dopo essersi ripresa dallo “shock” iniziale.
    “Già, un brindisi in suo onore?” propose Derek, la donna annuì e avvicinò il bicchiere a quello del collega.
    “A Madison!” esclamarono all’unisono mentre i loro bicchieri facevano cin cin. Stavano ancora bevendo quando i due ritornarono dalla pista, Spencer si precipitò sul suo bicchiere di vodka fragola e lemon e lo mandò giù quasi in un sorso.
    “Hey, vacci piano! Non è succo di frutta!” gli ricordò Derek. “Ehm.. si lo so, è che il ballo mi ha messo una gran sete” si giustificò lui, tenendo fissi gli occhi sul bicchiere, era quasi finito.
    Madison era sul punto di prendere in mano il suo quando il suo cellulare iniziò a squillare. “Pronto?” rispose facendo segno ai tre di scusarla mentre si allontanava.
    Dopo meno di un minuto fu di ritorno, e prese con sé la sua borsa. “Scusatemi, ma devo andare. La mia collega si è data malata e io la dovrò sostituire” spiegò “Spencer, ti sei fatto un altro bicchiere”, aggiunse posandoglielo davanti
    poi li salutò stampando un bacio sulla guancia di tutti e tre ed uscì dal locale.
    I tre rimasero a chiacchiera per un’altra ora, poi Garcia annunciò ai due che si era fatto tardi e che preferiva tornare a casa così si salutarono dopo aver accompagnato l’amica alla propria auto e insieme si diressero verso l’auto di Derek.
    “A che pensi, ragazzino?” gli domandò notando l’espressione un po’ assente del giovane collega, che scosse la testa dicendo che non era nulla, ma che era solo un po’ stanco. Poi salì in macchina e aspettò che il suo amico mettesse in moto il veicolo. In realtà pensava a Madison, quella ragazza gli era sembrato molto simpatica oltre che interessante e riconobbe che non gli sarebbe affatto dispiaciuto avere la possibilità di conoscerla un po’ meglio.


    Spencer non dovette attendere molto perché il suo desiderio si avverasse. Era appena rientrato da Indianapolis dopo un caso che aveva richiesto tre giorni di duro lavoro, per fortuna si era concluso bene ed essendo tornati di sabato avrebbero avuto l’intera giornata di domenica a loro disposizione per riprendere fiato.
    Stava salendo le scale del palazzo diretto verso il suo appartamento quando fu costretto a spostarsi per far passare due uomini in tuta blu, erano due impiegati di una ditta di trasloco. Una voce famigliare ringraziò i due che fecero un gesto con la mano in risposta prima di sparire giù per le scale. Spencer stava pensando che conosceva quella voce, anche se non riusciva a capire a chi appartenesse, quando si trovò Madison Thompson davanti che spingeva un grosso scatolone dentro l’appartamento.
    “Madison” esclamò Spencer sorpreso nel vederla lì. La giovane si girò verso di lui facendogli un sorriso mentre si tirava su la frangia con una mano. “Che ci fai qui?” si chiesero all’unisono, i due risero per la coincidenza dopodiché Madison fece segno a Spencer di parlare per primo. “Io abito al 4° piano” spiegò indicando con un dito verso l’alto.
    “Oh, anche io da oggi!” annunciò la ragazza piuttosto fiera. “Come puoi notare, sono nel pieno del trasloco” proseguì spostandosi per mostrare una quantità non indifferente di scatoli posati sul pavimento.
    “Ti serve una mano?” le chiese nonostante la stanchezza, pensò che sarebbe stato carino da parte sua aiutarla per darle il benvenuto. Madison gli sorrise ma rifiutò, temeva di rovinare i suoi piani per quella serata perciò non poteva accettare, tuttavia nel vedere che Spencer insisteva per aiutarla, accettò ben volentieri. Aveva proprio bisogno di una mano d’altronde.
    Lo invitò a entrare dicendo di fare attenzione a non inciampare ed iniziarono a lavorare. Spencer la aiutò a portare alcuni scatoli che contenevano vestiti in quella che sarebbe diventata la camera da letto di Madison, poi sistemarono i mobili in salotto e insieme montarono la biblioteca.
    Madison iniziò a disporre negli scaffali i propri libri e fotografie in piedi su una sedia mentre Spencer seduto per terra le prendeva dallo scatolone e gliele passava.
    “Sei bionda oppure ti tingevi i capelli?” le chiese notando una fotografia della giovane che la ritraeva con i capelli biondi. “No, questo è il mio colore naturale” gli disse mentre sistemava la foto in un altro scaffale, il primo era ormai pieno.
    “Sei molto più carina così” confessò Spencer senza pensarci, lei sorrise mentre scendeva dalla sedia che non le era più necessaria.
    Continuarono a mettere in ordine l’appartamento per il resto del pomeriggio senza smettere di chiacchierare. Poi verso le nove, lo stomaco di Madison si ribellò iniziando a brontolare e anche Spencer si rese conto di avere una gran fame. “Ti inviterei pure a mangiare qualcosa, ma non ho nulla” disse gettando un’occhiata agli scaffali vuoti della cucina, avrebbe dovuto fare la spesa ma il trasloco le aveva rubato più tempo del previsto e ormai i supermercati erano chiusi.
    “Se vuoi, possiamo ordinare una pizza!” gli propose la ragazza, “La linea telefonica è attiva”
    “Che ne dici di un pasticcio di zucca invece? Ne ho uno ottimo in attesa di essere mangiato” chiese Spencer a sua volta.
    “Mmm… mi sembra un’ottima idea”, adorava la zucca perciò non esitò nemmeno un attimo ad accettare poi disse a Spencer che si sarebbe fatta una doccia e che l’avrebbe raggiunto nel giro di dieci minuti. Spencer annuì, anche lui aveva bisogno di una doccia e salì a casa dopo averle detto di bussare all’interno 14c.
    Dieci minuti più tardi, mentre Spencer con i capelli ancora bagnati apparecchiava la tavola, la sua nuova vicina bussò. “E’ aperto” disse rivolto alla ragazza che entrò timidamente nell’appartamento guardandosi intorno.
    “Hai una quantità smisurata di libri!” esclamò lei notando la sua biblioteca e pensando alla sua che a mala pena ne contenevano una ventina. “Oh beh, mi piace leggere” tagliò corto Spencer dicendole di sedersi, il pasticcio era pronto.
    Si misero a mangiare senza smettere di chiacchierare, “Ho notato che hai studiato a Yale” disse Spencer ad una foto che ritraeva Madison insieme a quello che doveva essere suo fratello nel campus della rinomata università.
    “Si, ho studiato Medicina lì” confermò. “Ma il dottorato in malattie infettive l’ho preso alla Columbia” aggiunse.
    “Tu? Non mi ricordo nemmeno se ti ho chiesto in cosa sei laureato” domandò al giovane mentre si versava un bicchiere di acqua.
    Spencer rimase per un attimo in silenzio fingendo di masticare un po’ di pane, era la parte che detestava di più quando stringeva nuove amicizie, quella in cui confessava all’interlocutore di essere un ragazzo prodigio.
    Poi arresosi alla consapevolezza che era inutile nasconderlo, parlò. “Anche io ho studiato a Yale” stava per fare l’elenco delle lauree conseguite quando Madison lo interruppe. “Pure tu? Wow! Scommetto però che tu non hai avuto bisogno della raccomandazione di tua nonna” confessò lei essendo sicura che Spencer fosse molto bravo anche se nessuno glielo aveva detto. “Tua nonna ti ha raccomandata?” le chiese scordandosi per un secondo il suo elenco.
    “Ehm..si. Lo so, non mi fa onore dirlo, ma è andata così. Però ti garantisco che la laurea è farina del mio sacco” affermò la ragazza portandosi una mano al cuore come se stesse facendo un giuramento. Spencer rise di fronte a quel gesto e le disse che non aveva di certo messo in dubbio le sue capacità. Pensava che il discorso fosse concluso quando la giovane gli domandò di nuovo in cosa fosse laureato, ormai non aveva scappatoie, doveva dirglielo.
    “Ho una laurea in psicologia e sociologia, un dottorato in chimica, matematica e ingegneria, e ho di recente ottenuto una terza laurea in filosofia. Mi sono diplomato a 12 anni in un liceo pubblico di Las Vegas, ho un Q.I. di 187.”
    Dopo che il genio del F.B.I. ebbe concluso il suo elenco, Madison rimase a bocca aperta con la forchetta piena di pasticcio di zucca a mezz’aria. Non riusciva a credere alle sue orecchie, non aveva mai conosciuto prima d’ora qualcuno che avesse un Q.I. di 187.
    “Ma tu sei un genio!” esclamò una volta ripresa. “Ed io che ti ho confessato di essere entrata a Yale con una raccomandazione” proseguì un po’ imbarazzata. “Scommetto che le università hanno a gara per averti fra i loro allievi”
    “Non essere sciocca” le rispose. “Yale, come tutte le università private, spesso richiede qualche raccomandazione a prescindere dalla propria bravura, ma scommetto che tu saresti entrata lo stesso” aggiunse il giovane genio, era sincero, non gliene faceva una colpa ed era convinto delle capacità della giovane ragazza seduta di fronte a lui.
    “Ho visto il tuo diploma di laurea, ti sei laureata quasi con il massimo dei voti in Medicina e Chirurgia mentre hai ottenuto il massimo nella tua specializzazione in Medicina legale, senza contare il tuo dottorato.”
    “Tutto indica che devi essere una ragazza intelligente, solo il 37% degli iscritti alla facoltà di Medicina di Yale ottiene simili risultati” concluse il giovane, d’altronde lui di statistica se ne capiva.
    Madison annuì, non aveva considerato le cose da quel punto di vista. Continuarono a parlare del più e del meno, poi ad un certo punto Madison si girò verso l’orologio e notò che era l’una passata.
    “Oddio, è tardissimo!” esclamò lei dopo aver visto l’orario. “Già..” le rispose Spencer, il tempo era volato senza che se ne accorgessero.
    “E’ meglio che torni a casa” disse Madison, si offrì da aiutare Spencer a sistemare la cucina e lavare piatti, ma Spencer le disse di non preoccuparsi.
    Dopo averla accompagnata alla porta, la salutò ricevendo un bacio sulla guancia e un abbraccio per l’ospitalità e l’aiuto che le aveva offerto. Spencer strinse le spalle dicendo che non era niente e dopo averla vista scendere le scale, chiuse la porta dell’appartamento. Andò in cucina con l’intenzione di lavare i piatti, ma finì per arrendersi alla stanchezza e decise di andare a dormire. Aveva proprio bisogno di un sonno ristoratore per riprendersi.
     
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    “Rapporti di buon vicinato”



    Un bussare costante da oltre dieci minuti svegliò il dottor Reid la mattina successiva, si domandò chi di domenica presto potesse avere così tanta urgenza di parlare con lui. Si alzò di controvoglia strofinandosi gli occhi e si diresse verso la porta, nel raggiungerla controllò l’orologio e notò che erano quasi le undici di mattina, forse non era poi così presto, pensò.
    Aprì la porta e rimase un attimo interdetto nel vedere il signor Chester, il suo anziano vicino di piano, davanti a lui.
    “Ragazzo, non ti ho detto nulla quando i tuoi amici hanno riempito il piano di piante, trasformandolo in una specie di serra, ma per favore, i muffin portali dentro casa” lo rimproverò l’anziano. “Quali muf..?” non concluse nemmeno la frase che l’uomo gli porse una cesta con dei muffin e un bigliettino che riportava il suo nome.
    “Ah, questi muffin!” esclamò annuendo il giovane e prendendo la cesta dalle mani del vicino che non sembrava molto contento di lasciarla andare.
    “Ne vuole uno?” gli domandò porgendone uno all’uomo. “Oh no, tranquillo, ragazzo mio. Mi sono già servito e poi ad esserti sincero i muffin alle mele non mi entusiasmano, preferisco quelli al cioccolato” gli disse ed entrò nel suo appartamento lasciando Spencer sulla porta in pigiama e con la cesta in mano.
    Rientrato in casa, prese il bigliettino e lo aprì scoprendo che era da parte di Madison. Si mise subito a leggerlo mentre prendeva un muffin della cesta.
    <<buongiorno, ti ho preparato questi per ringraziarti, te li avrei voluti dare di persona, ma non mi aprivi perciò li ho lasciati sulla porta. Spero ti piacciano. Un bacio, Madison.
    PS: Non sarò a casa in tutto il giorno, sono in ospedale.
    PPS: ti lascio sia il numero di casa che di cellulare…>>
    Dopo aver finito di leggere, posò i muffin nel ripiano della cucina e conservò il bigliettino in uno dei cassetti della scrivania, poi prese il cellulare e compose il numero di Madison, che aveva ormai imparato a memoria con una sola lettura, con l’intenzione di ringraziarla per il pensiero. A rispondere alla sua chiamata fu l’originale messaggio della segreteria telefonica della giovane dottoressa; la voce di Madison risuonò negli orecchi di Spencer: “In questo momento sono intenta a salvare vite umane, tu però lascia un messaggio e sarai presto richiamato. Grazie.” poi seguì un beep. Spencer rimase un attimo in silenzio, non sapeva cosa dire perciò chiuse la chiamata e si promise di richiamarla più tardi oppure di mandarle un messaggio.
    A quel punto andò a farsi una doccia, aveva bisogno di svegliarsi.

    Qualche ora prima del risveglio poco piacevole di Spencer, la sua nuova vicina usciva di casa diretta all’ospedale, aveva ricevuto una chiamata di urgenza da parte del suo nuovo capo, il dottor Christopher Brown.
    Era il suo primo giorno nel reparto di diagnostica, aveva avuto modo di conoscere i suoi colleghi, la dottoressa Jennifer Andrews e il dottor Ronald Perkins in precedenza, mentre svolgeva le sue ore di pronto soccorso previste da contratto, ma il dottor Brown le era ancora ignoto e quella chiamata che aveva anticipato il giorno della loro conoscenza l’aveva spiazzata. Non era ancora pronta psicologicamente.
    Entrò nel reparto e fu accompagnato da un’infermiera nello studio dello stimato dottore, la giovane collaboratrice annunciò l’arrivo della dottoressa Thompson ed uscì dopo aver augurato buona fortuna alla nuova collega.
    Madison la osservò allontanarsi, infine fece un respiro per calmarsi ed entrò. “Buongiorno” disse prendendo posto nella sedia vuota davanti a lui. “E’ un piacere conoscerla” aggiunse tendendo la mano che fu stretta in modo vigoroso da Christopher.
    “Signorina Thompson, benvenuta nel reparto di diagnostica del nostro ospedale. Volevo dirle due parole prima che inizi a svolgere i suoi compiti” esordì alzandosi in piedi. Madison osservò il dottor Brown, era un uomo sulla cinquantina alto e ben piazzato, portava i capelli neri corti e una barba piuttosto folta, d’istinto gli guardò le mani alla ricerca della fede nuziale che tuttavia non intravide. Non era sposato, o forse è divorziato, pensò la giovane donna.
    “Ho letto nel suo fascicolo che lei prima ha lavorato come medico legale quindi ha poca dimestichezza con i pazienti” continuò camminando su e giù per lo studio. Madison annuì, ciò che diceva il suo capo era vero, a parte quella settimana di pronto soccorso, l’ultima volta che aveva lavorato con dei pazienti ‘vivi’ risaliva ai tempi dell’università.
    “Vede, signorina, i pazienti spesso non dicono la verità” s’interruppe notando l’espressione stranita della giovane. “Beh è così per quanto possa sembrare strano” confermò lui, “Perciò mi aspetto che lei indaghi a fondo ogni volta senza mai dare nulla per scontato” concluse l’uomo, infine la invitò ad uscire dallo studio dopo averle dato la cartella del paziente che aveva preso in cura quella stessa mattina.
    Thompson rimase per un attimo spaesata guardando la cartella che aveva in mano, poi scosse la testa per costringere se stessa a concentrarsi e raggiunse i suoi nuovi colleghi.
    Una nuova avventura stava per iniziare e lei era pronta.

    Più tardi quello stesso giorno, la dottoressa Thompson ritornò a casa carica di entusiasmo. Era stata una giornata incredibile, il dottor Brown aveva risolto il caso loro assegnato in pochissimi minuti nonostante loro tre, lei e suoi due colleghi, avessero eseguito numerosissimi analisi e studi dalla mattina senza giungere ad una conclusione plausibile.
    Aveva capito che il male del tredicenne era dovuto ad una garza dimenticata dal chirurgo che lo aveva operato di appendicite qualche anno prima. Madison era rimasta stupida della sua bravura e capì immediatamente che avrebbe imparato moltissimo lavorando al suo fianco.
    Arrivata al palazzo, getto un’occhiata verso l’alto, o più precisamente verso la finestra dell’appartamento del dottor Reid; notò con piacere che la luce era accesa, il che significava che il suo vicino era in casa, aveva con chi dividere la cena a base di sushi che si era procurata prima di ritornare a casa.
    Perciò salì le scale passando davanti al suo appartamento e si fermò davanti all’interno 14c aspettando che Spencer aprisse la porta. “Salve dottoressa” esclamò lui nel vederla indossare il camice bianco.
    “Ciao, ti sono piaciuti i muffin? A proposito, ho visto la tua chiamata, dovevi dirmi qualcosa?” gli chiese entrando e accomodandosi nel soggiorno.
    “No, no, cioè volevo ringraziarti per i muffin, appunto” rispose chiudendo la porta. “Comunque erano davvero buoni” aggiunse, a quel punto notò la busta con l’insegna del ristorante giapponese situato a pochi isolati da casa sua e domandò cosa ci facesse lì.
    “E’ la nostra cena!” esclamò lei sfoggiando uno splendido sorriso, “Ricordi? Te ne dovevo una!” poi si alzò in piedi e si diresse verso la cucina portando con sé la busta. “Tu cosa hai fatto tutto il giorno?” domandò dalla cucina mentre prendeva i piatti dell’armadietto e apparecchiava la tavola. Si comportava come se fosse casa sua, cosa che non diede affatto fastidio a Spencer, anche se gli sembrava strano che qualcuno potesse entrare in confidenza così velocemente con un’altra persona. “Nulla, ho compilato dei rapporti e letto qualche libro” disse in risposta alla sua domanda.
    “Letto qualche libro?” domandò lei strabiliata. “Ah, giusto! Sei un genio, e hai la memoria eidetica!” aggiunse battendosi la testa con il palmo della mano destra. “Mangiamo?” si sedette, aspettò che Spencer facesse lo stesso poi prese le bacchette e addentò il primo morso di sushi. “Cavoli! È buonissimo, credevo che solo a New York sapessero cucinare il sushi, ovviamente dopo i ristoranti di sushi in Giappone, ma questo è ottimo” esclamò lei con evidente soddisfazione.
    “Si, è buono, anche io lo ordino sempre qui” rispose il giovane. “Com’è andata a lavoro?” le domandò poi spostando la conversazione su un altro argomento.
    “Benissimo! Sai oggi era il primo giorno nel reparto di diagnostica”
    “Il tuo primo giorno? Credevo che stessi già lavorando in ospedale”chiese un po’ confuso senza smettere di darsi da fare con le bacchette.
    “Si, in questi giorni ho lavorato in pronto soccorso, ma lunedì, cioè domani, doveva essere il primo giorno. Però il dottor Brown mi ha chiamata dicendo che dovevamo anticipare il mio inizio” spiegò lei. “Anche se prima mi ha ben bene spaventato”
    Spencer le domandò in che senso spaventato, Madison si schiarì la gola e parlò: “Ha iniziato dicendo che devo stare attenta, che i pazienti spesso mentono e che noi dobbiamo capirlo per essere bravi dottori”
    “Ha ragione, le statistiche dicono che il 57-58% dei degenti in ospedale mentono ai propri dottori, principalmente per paura di essere giudicati- il 73% mente infatti riguardo a rapporti extraconiugali od omosessuali-, altri invece omettono dettagli noncuranti che possano essere importanti” sciorinò lui mentre Madison annuiva.
    “Beh allora starò attenta soprattutto ai mariti che mi sembrano un po’ annoiati” disse lei ridendo.
    Continuarono la serata a ridere e scherzare, si comportavano da buoni amici. Spencer si scoprì piacevolmente compiaciuto della cosa, era bello avere un’amica in più, ma soprattutto un’amica fuori dal lavoro.


    Il giorno dopo Spencer tornò al lavoro, aveva un’aria piuttosto serena, si era rilassato parecchio in quei due giorni. Appena entrato nel bureau, andò a versarsi una tazza di caffè, non ne aveva ancora preso uno.
    Era lì da pochi minuti quando il suo collega Derek Morgan fece ingresso nel cucinino dell’ufficio. “Come hai trascorso il weekend?” gli chiese dopo averlo salutato. “Benissimo! Sono stato con Madison a cena sabato, e anche ieri, a dire il vero. L’ho aiutata con il trasloco” disse in risposta mentre sorseggiava la tazza di caffè, stava per dare ulteriori dettagli al collega ma questo lo interruppe. “Cosa? Hai aiutato Madison con il trasloco? Ma soprattutto sei stato a cena con lei?” chiese un po’ scandalizzato. Si aspettava che genietto avesse passato il weekend in compagnia di un libro, o peggio della serie di Star wars, non di certo di una sua amica.
    “Si, non mi hai fatto finire di parlare. Madison abita nel mio palazzo da sabato, infatti prima stava da un’amica, o almeno così mi ha detto” spiegò lui leggermente infastidito per la reazione di Derek. “Ecco, perché l’ho aiutata. Sabato quando siamo tornati, l’ho trovata nel pieno del trasloco” proseguì posando la tazza vuota di caffè nel lavandino.
    “Non mi hai ancora spiegato il perché della cena però” lo provocò Derek con tono malizioso che imbarazzò Spencer non poco. “Dopo aver finito di aiutarla sabato, era tardi e lei non aveva nulla da mangiare così abbiamo cenato da me e poi ieri ha ricambiato la cortesia offrendomi la cena, e i muffin” rispose sperando che Morgan la smettesse con le sue insinuazioni, cosa che ovviamente non accadde.
    “Lo sai come dice il detto, Reid?” chiese al giovane collega che scosse la testa dicendo che non conosceva nessun detto.
    “La via più veloce per arrivare al cuore di un uomo passa per il suo stomaco” disse tutto d’un fiato. “Quindi stai attento a tutte queste cene e muffin, potresti trovarti in difficoltà ad allacciarti i pantaloni oppure a non avere affatto voglia di indossarli” mormorò vicino all’orecchio del collega perché nessuno li sentisse.
    “Derek!” urlò Spencer con voce acuta, quell’insinuazione non gli era affatto piaciuta. Avrebbe voluto dirglielo, ma l’agente Morgan si era spostato prontamente nell’open space e preferì tacere prima che qualcuno potesse prendere parte a quella conversazione del tutto fuori luogo.
    “Sala riunioni fra cinque minuti!” tuonò la voce di Aaron Hotchner distogliendo tutti dalle proprie attività. Spencer pensò che Hotch l’aveva appena salvato da un ulteriore momento imbarazzante, perciò si alzò subito in piedi per seguire l’agente supervisore della sua squadra. Morgan fece altrettanto mentre fingeva di lanciare baci nella sua direzione, a quel punto Spencer accelerò il passo. “Che gli prende?” chiese Alex Blake notando la reazione di Reid.
    Morgan alzò le spalle fingendo di non sapere ma la sua espressione poco convinta incuriosì Blake che si promise di indagare in seguito.
    “Adam Levinsky, 35 anni, trovato morto in un vicolo di Los Angeles da un passante sabato mattina. Questo è solo il primo corpo, oggi la polizia ha rinvenuto un altro cadavere, il cui nome è ancora ignoto” disse Garcia mentre distribuiva i tablet con tutti i dati ai suoi colleghi.
    “Il collegamento fra i due è il modus operandi” esordì David Rossi dopo una breve esamina del fascicolo. “Alquanto preoccupante, sembra che siamo di fronte ad un altro caso di finti vampiri” aggiunse con evidente disgusto.
    “Ne avete già affrontato uno?” domandò Blake essendo l’ultima arrivata non era ancora a conoscenza del caso a cui faceva riferimento l’agente Rossi.
    “Si, qualche anno fa. Ma il colpevole è stato preso e si trova in carcere e ad ogni modo non ha nulla a che vedere con questo caso” spiegò Hotch. “Tuttavia le conoscenze acquisite durante le indagini di quel caso potranno tornarci utili” proseguì, alzandosi e annunciando ai suoi colleghi che il jet diretto a L.A. sarebbe decollato fra mezz’ora.

    Mentre erano sul jet, Hotch divise i suoi agenti, com’era solito fare. Blake e Reid sarebbero andati insieme dal medico legale, mentre Rossi e Morgan si sarebbero recati sulla scena del primo omicidio, JJ e lui nella stazione di polizia per ricevere maggiori informazioni, sul secondo omicidio soprattutto.
    Giunti a Los Angeles, l’accoglienza dei poliziotti del distretto non fu delle migliori, erano infastiditi all’idea che i federali fossero stati interpellati. Avrebbero risolto benissimo i due omicidi senza bisogno del loro intervento, come fece presente uno dei detective con aria annoiata mentre mal volentieri consegnava le prove che la scientifica aveva raccolto sulla seconda scena del crimine. Informò anche i due agenti che l’identità della seconda era stata scoperta, il suo nome era Luke Sanders, residente nella città degli Angeli dalla nascita, e anche lui membro della comunità di vampiri a cui apparteneva la prima vittima.
    Reid e Blake dal medico legale ebbero maggiore fortuna, entrambe le vittime erano morte dissanguate, uccise con un corpo contundente che sfortunatamente non fu rinvenuto né nella prima e né nella seconda scena del crimine.
    Tuttavia su entrambi i corpi furono individuate tracce di schegge di legno che suggeriva che le vittime fossero state uccise da un paletto di legno. “Come veri vampiri” commentò Blake scioccata dopo che il medico legale espose la propria ipotesi.
    Mentre ritornavano alla stazione di polizia per informare gli altri di quanto appreso dal coroner, Blake ne approfittò per chiedere al dottor Reid cosa fosse successo con Morgan.
    Spencer sgranò gli occhi e deglutì prima di parlare, sapeva che era inutile mentire a dei profiler professionisti, perciò disse a Blake cosa era successo. “E’ fantastico Reid!” esclamò la donna dopo aver sentito la storia.
    “Un’amica è proprio ciò di cui hai bisogno ora. Sono contenta per te” aggiunse senza fare alcun commento malizioso.
    Il giorno dopo risolsero il caso dopo un’estenuante indagine che li condusse alla madre adottiva della prima vittima, Adam Levinsky.
    Il figlio era venuto a conoscenza della bugia che la donna gli aveva raccontato riguardo la morte della madre biologica; sua madre non era scappata, bensì fu uccisa da lei stessa in un momentaneo raptus dopo che la donna si era rifiutata di darle il figlio che aveva appena dato alla luce, nonostante si fosse offerta di fare da madre surrogata in cambio di denaro. Così aveva ucciso il figlio a sangue freddo utilizzando il paletto di legno di modo che venissero incolpati i membri della comunità che frequentava; Luke Sanders l’aveva scoperta, ma fu ucciso a sua volta prima ancora che potesse recarsi alla polizia.
    Ritornati a Quantico, il dottor Reid trascorse il resto della serata a compilare il rapporto accompagnato unicamente da Aaron Hotchner e una tazza di caffè nel bureau dell’U.A.C.; non aveva alcuna fretta di tornare a casa, aveva bisogno di riflettere sulle parole dei suoi colleghi e su quell’amicizia appena nata, lontano il più possibile dalla dottoressa Thompson.


     
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    “Corse al supermercato e strane reazioni”



    La settimana di Reid e Thompson trascorse senza lasciar loro un attimo di tranquillità, furono completamente sommersi dal lavoro. Madison si trovò nella spiacevole situazione di dover dimostrare più volte di meritare il posto nel reparto che le era stato offerto mentre Spencer si era spostato varie volte negli States insieme alla sua squadra per la cattura di serial killer; la classica settimana in parole povere. Per fortuna era arrivato il venerdì che per entrambi significava una possibile pausa dai propri impegni che accolsero con piacere.
    Madison era tornata a casa con una gran fame, si precipitò in cucina, aprì lo scaffale e a quel punto realizzò che non aveva altro che una scatola vuota di merendine.
    “Fantastico” disse ad alta, “Dovrò andare al supermercato”. Allora riprese la borsa e le chiavi dell’auto, stava mettendosi il cappotto quando il suo pensiero andò a Spencer Reid. “Chissà se ha bisogno di qualcosa…” pensò, in fin dei conti è così che si comportano i vicini, si aiutano a vicenda.
    Il cellulare di Reid squillò diverse volte a vuoto, Madison era sul punto di riattaccare quando la voce dell’agente risuonò dall’altro capo del telefono.
    “Maddie, dimmi!” disse lui, una volta uscito dalla sala conferenze dello Smithsonian dove si era recato per assistere ad un dibattito sulla teoria darwiniana.
    “Ciao..Stavo per andare a fare la spesa e mi chiedevo se avevi bisogno di qualcosa, non so un cartone di latte, un pacco di biscotti, la carta igienica, sai cose così” gli chiese la rossa.
    “Al dire il vero, dovrei fare la spesa anche io quindi non preoccuparti, ci penso io. Grazie comunque”, era stato un pensiero carino da parte sua chiedergli se aveva bisogno di qualcosa.
    “Allora andiamoci insieme, no?” gli propose lei con un tono un po’ infantile che fece ridere Spencer.
    “Il fatto che è ora sono ad una conferenza allo Smithsonian” le spiegò Spencer leggermente dispiaciuto.
    Madison si scusò subito con lui per averlo disturbato, lo stava per salutare quando il dottor Reid gli chiese di aspettarlo. “Quindici minuti e andiamo. Il tempo di tornare a casa” .
    “E la conferenza?”
    “Figurati, le cose più importanti sono già state dette e poi è importante anche mangiare, no?”, a quel punto riattaccò e si precipitò dentro la sala a prendere la giacca.

    “Allora da dove iniziamo?” domandò Madison al suo vicino alzandosi in punte di piedi per avere una panoramica più chiara dei vari reparti. “Controlliamo la lista, no?” suggerì lui cercando nella giacca il foglietto che aveva scarabocchiato di ritorno dallo Smithsonian.
    “Giusto!” esclamò lei annuendo, fu allora che prese il suo smartphone e cliccò sullo schermo. Il dottor Reid osservò la scena con espressione incerta chiedendole cosa stesse facendo.
    “Controllo la mia lista della spesa, no? Ho scaricato un’app apposita per questo tipo di cose. Lo sapevi che c’è praticamente un’app per tutto?” affermò lei divertita.
    Spencer rise e disse che si sarebbe presto aggiornato sulle ultime novità nel campo del mobile, poi insieme si diressero verso il reparto “frutta e ortaggi”.
    “Io ho i biscotti sulla lista” fece presente Madison mentre uscivano dal reparto. “Anche io”rispose Spencer.
    “Mmm..vediamo, eccoli” annunciò la rossa prendendo due scatole di cookies. “E quella sarebbe la tua idea di biscotti?” domandò con espressione quasi schifata al dottor Reid vedendolo stringere una confezione di biscotti di soia.
    “Cosa hanno di male? Sono leggeri e salutari” rispose alzando le spalle. Non capiva quale fosse il problema in quei biscotti.
    Madison roteò gli occhi e tolse la confezione di mano a Spencer. “Appunto! Non sei mica a dieta, anzi dovresti pure prendere qualche chilo” fece lei, poi prese una scatola di cookies al cioccolato e la lanciò nel carrello del dottor Reid. “Ecco così va meglio” disse soddisfatta.
    “La cioccolata fa bene, rende felici le persone quindi te ne prescrivo un po’ ”aggiunse sorridendo.
    “Lo so, il cioccolato, specialmente quello fondente, è un grande propulsore di serotonina, infatti quando si mangia un po’ di cioccolato fondente parte l’ormone del buonumore, tra l’altro...”affermò lui passando in modalità enciclopedia vivente.
    Madison gli ricordò, che avendo conseguito una laurea in medicina, era perfettamente a conoscenza delle proprietà del cioccolato e dei suoi effetti sulla serotonina, Spencer annuì e smise subito di parlare.
    Stavano andando verso il reparto dei latticini e derivati quando due ragazzini tagliarono loro la strada inseguendosi con i carrelli, Madison scoppiò a ridere di fronte alla reazione di Spencer che si era addossato contro lo scaffale sbiancato in viso dalla paura. “Avrebbero potuto romperci qualche osso” esagerò lui con tono stizzito notando Madison che stava quasi rotolandosi per terra dalle risate.
    “E come? Spingendoci su una piramide di confezioni di zucchero semolato?” lo scherzò lei una volta riuscita a smettere di ridere.
    “Dai! È divertente, anche io e mio fratello lo facevamo quelle rare volte che Nancy ci portava al supermercato con lei” continuò lei.
    “Nancy? Credevo che tua madre si chiamasse Natalie” domandò all’amica.
    “Si, infatti si chiama Natalie. Nancy era la nostra tata” tagliò corto Madison. “Allora ci stai? Gara all’ultimo carrello?” lo incalzò con espressione di sfida.
    Spencer disse che non se ne parlava, che loro erano persone adulte e non due ragazzini e che era meglio finire di fare la spesa perciò si avviò verso il banco frigo convinto che la sua vicina lo seguisse. Fu allora che sentì una specie di urlo di battaglia provenire dalle sue spalle e vide Madison sfrecciargli accanto. “Prova a prendermi” gli disse voltandosi verso di lui dopo averlo superato.
    A quel punto, Spencer prese la rincorsa e si lanciò nell’inseguimento senza pensarci, era stato sfidato e aveva il dovere di difendere il suo onore.
    La stava quasi per raggiungere quando la guardia giurata del supermercato si piazzò di fronte a loro ponendo fine alla loro corsa. “Questo è un supermercato non una pista di go-kart” li rimproverò l’uomo con tono severo.
    Spencer e Madison si scusarono con lui per il loro comportamento infantile, l’uomo annuì e si allontanò prima che i due scoppiassero a ridere per la scena a cui aveva appena assistito.
    Dopodiché si avviarono verso le casse, avevano finito la spesa e ad ogni modo la guardia giurata continuava a guardarli storto perciò pensarono che era meglio uscire il più in fretta possibile dal supermercato.

    “Spencer, tu hai una laurea in psicologia, no? Psicanalizzami!” affermò lei convinta di ritorno dal supermercato. Si buttò sul suo divano e indicò la poltrona accanto a lei, se la doveva psicanalizzare, doveva farlo come un vero psicologo.
    “Dovrei mettere a posto la spesa” tentò di giustificarsi Spencer, non aveva voglia di fare il profilo ad una sua amica, il subconscio lo faceva già senza che lo comandasse.
    “Metti la spesa nel mio frigo e poi la porti su. Dai, ti prego!” insistette lei sbattendo le ciglia per risultare più persuasiva.
    “Ok” si arrese, tanto non sarebbe riuscito a convincerla del contrario. Era evidente che fosse molto testarda.
    Mise la proprio spesa nel frigo di Madison e si sedette accanto a lei dopo aver acceso lo stereo scegliendo della musica classica per far rilassare l’amica.
    “Addirittura la musica? Facciamo le cose seriamente!” lo scherzò lei. Spencer sorrise e le chiese di chiudere gli occhi.
    “Concentrati sulla musica e fai un respiro profondo” le suggerì, Madison obbedì e a quel punto Spencer le disse di immaginare di essere in un viale e descriverglielo.
    “Sta tramontando il sole, alcuni raggi filtrano attraverso le chiome degli alberi. E’ autunno, ci sono tante foglie rosse e marroni per terra, io le calpesto. Però non sono io, cioè sono io da piccola” disse la rossa.
    “Vedi qualcos’altro oltre gli alberi?”
    “Si, un immenso prato verde e dei fiori bianchi.”
    “C’è qualcuno con te? Oppure sei da sola?” le domandò Spencer concentrandosi sulle parole dell’amica.
    Madison sorrise tenendo sempre gli occhi chiusi e gli rispose che era con suo fratello, Brian.
    “Perfetto, tuo fratello va via. Tu guardi per terra e trovi un rametto. Com’è e cosa fai?” chiese ancora una volta.
    “E’ piccolo e coperto di muschio verde. Lo butto per terra dopo averlo spezzato”
    Spencer annuì, poi le chiese di immaginare di vedere un tronco e di dirgli quale fosse la sua reazione.
    “E’ grosso e ha delle spine, occupa tutto lo spazio sul viale. Non riesco a superarlo, mi faccio male. Mi siedo per terra, non sono più piccola, piango. Perché non riesco a superarlo?” domandò con tono concitato. Si stava agitando per qualche motivo che Spencer non riuscì a spiegarsi, perciò le disse di lasciare il viale, si accertò che Madison si fosse rilassata e proseguì.
    “Ti trovi ora ad un bivio. Me lo descrivi?”
    Madison descrisse il bivio dicendo che c’era un'unica strada diretta a sinistra, non era un vero e proprio bivio, spiegò all’amico.
    Spencer le chiese di intraprendere la strada. “Sei arrivata in una piazza. C’è una statua, dov’è collocata e di chi è?
    “E’ spostata un po’ verso sinistra, è una donna è in punta di piedi e tende le bracca in avanti. Sembra quasi che stia ballando” disse imitando il movimento della statua con le braccia.
    Spencer le chiese di dire qualcosa alla statua, Madison rimase in silenzio e infine gli disse che non le veniva da dire nulla.
    “Va bene. Davanti a te c’è muro, riesci a vedere al di là di esso?”
    “No, è molto alto, ma riesco sentire delle voci, sono voci di bambini. Non ho voglia di andare al di là del muro però” rispose la giovane donna aggrottando la fronte.
    “Ci allontaniamo dal muro. Siamo su un’isola, è grande? Vedi altre isole?” le domandò Spencer, era quasi arrivato alla fine.
    “Non è troppo grande, io sono sulla riva seduta, guardo il mare. Non vedo altre isole”
    Infine Spencer le chiese di visualizzare un cubo, Madison ci pensò un attimo ma poi gli disse che il cubo lo teneva dentro la borsa che portava con sé.
    “Apri gli occhi. Abbiamo finito” disse Spencer spegnendo lo stereo. Madison si mise a sedere e domandò all’amico se fosse pazza oppure no, il dottor Reid scosse la testa. “No, non sei pazza. Stai tranquilla” la rassicurò e iniziò a raccontarle cosa aveva capito da quel breve esercizio che avevamo appena fatto insieme.
    “Hai immaginato un tipico paesaggio autunnale, significa che sei una persona un po’ malinconica, ma al tempo stesso romantica data la tua descrizione. Ti sei vista da piccola, il che significa che ricordi l’infanzia come un bel periodo” esordì Spencer mentre Madison ascoltava senza fiatare.
    “Quando ti ho chiesto se eri in compagnia, mi hai detto che eri con tuo fratello, questo indica che tu e lui avete stretto un legame molto forte e che è importante per te la sua presenza. Per quanto riguarda la tua persona, vedi te stessa come un’artista, infatti la statua eri tu e tu vedi te stessa come una ballerina”
    Quelle parole fecero ridere Madison che annuì dicendo che era vero. “Ti prego, continua” lo incoraggiò, quel profilo le piaceva.
    “Sull’isola eri seduta sulla riva, ciò significa che sei molto socievole, ti piace stringere nuove amicizie e circondarti di persone, anche se non ami stare troppo al centro dell’attenzione infatti la tua statua era spostata leggermente verso sinistra. Il fatto che non vedessi altre isole intorno a te indica che sei soddisfatta dalle scelte che hai compiuto finora riguardo i tuoi studi e il tuo lavoro. Ti piace cambiare e sei pronta a metterti in gioco dato che non visualizzavi un bivio ma una strada a sinistra che implica che hai una certa propensione al cambiamento” continuò Spencer.
    “Però quando ti ho chiesto di dire qualcosa alla tua statua, tu hai esitato ma alla fine non hai detto nulla, ciò sta a significare che non hai dialogo con te stessa, non ti interroghi, e ti proteggi tantissimo anche, infatti quando ti ho chiesto se vedevi il cubo, tu mi hai detto che lo tenevi in borsa, questo vuol dire che spesso tendi a chiuderti a riccio o che forse non ti piace farti vedere vulnerabile” sottolineò Spencer osservando attentamente la reazione di Madison che annuiva senza dire nulla.
    “Il muro rappresenta il tuo rapporto con la morte. Hai un rapporto sereno con essa, non ti fa paura, ma non ti senti ancora pronta e per qualche motivo la colleghi ai bambini. Hai subito qualche perdita da bambina? Magari è morto qualche persona a te cara quando era ancora un bambino?” le domandò Spencer, la giovane donna scosse la testa dicendo che non le era successo nulla dal genere e abbassò lo sguardo, stava mentendo. Tuttavia il dottor Reid preferì non indagare e continuò con la sua analisi.
    “I piccoli problemi, rappresentati dal rametto, li affronti in modo decisivo, non ti pongono in difficoltà. Invece i grandi problemi, simboleggiati dal tronco che ostruiva il passaggio, ti attanagliano, c’è qualcosa che ti tormenta, un grosso ostacolo che non riesci a superare. Forse è da quello che ti proteggi?”
    A quel punto Madison si rabbuiò, la sua espressione cambiò repentinamente. “Forse è meglio che vai. È tardi.” gli disse mentre si alzava in piedi, il dottor Reid la fissò per qualche secondo senza riuscire a capire perché lo stesse cacciando di casa all’improvviso.
    “Ho detto forse qualcosa che non va?” domandò lui con tono incerto. “No, non hai detto nulla. Ma è tardi e io mi sono ricordata che avevo delle cartelle da compilare, quindi...” rispose lei inventandosi una scusa che a cui Spencer non credé.
    Madison lo salutò di fretta e si chiuse in bagno, lasciando Spencer da solo in salotto, che si sbrigò a prendere la propria spesa e ad uscire dall’appartamento dell’amica.
    Stava per chiudere la porta di casa quando sentì l’acqua del rubinetto del bagno scorrere. Non seppe mai che l’amica lo avesse fatto perché non la sentisse piangere.


    “Confessioni difficili”


    “Derek, capisci? E’ stato molto strana quella reazione” disse Reid all’amico dopo avergli raccontato del suo ultimo incontro con Madison. “Sinceramente non ne ho idea” ammise l’uomo, anche a lui era sembrata una reazione piuttosto esagerata, perciò rassicurò Spencer dicendogli che non era dovuta di certo a qualcosa che avesse detto.
    “Tu che sai di lei? Insomma non siete amici? Saprai pure qualcosa!” insistette il giovane, gli sembrava davvero assurdo che di quella ragazza lui non sapesse nulla, Derek roteò gli occhi, Spencer sapeva irritarlo come nessun altro.
    “Reid, te l’ho detto! Io non ne so nulla. Ho conosciuto Madison tempo fa quando lavorava con Derrick” gli raccontò per l’ennesima volta l’agente Morgan. “L’ultima volta che l’ho vista, eravamo a Baltimora per un caso a cui Derrick mi chiese di collaborare. Lei stava bene ed era fidanzata con un certo Mason. L’ho sentita per un po’ dopo quell’incontro e poi è sparita per quasi due anni finché non mi ha chiamato circa un mese fa per dirmi che si sarebbe trasferita a Washington.”
    “Questo è tutto ciò che so. Ma poi scusami, Reid, cosa importa? E’ una tua amica, mica una sospettata su cui devi indagare. Se ha qualche segreto di cui non ti vuole parlare, sono affari suoi” commentò Morgan sperando di riuscire a dissuadere il dottor Reid dalla “sete” di sapere. Spencer abbassò la testa, forse Morgan ha ragione, pensò.
    “Ora andiamo a prendere una delle tue tazze di zucchero con il caffè, magari sei in preda ad un calo di zuccheri” lo scherzò Derek prendendolo per le spalle perché venisse con lui e la smettesse di pensare al passato della dottoressa Thompson.
    Poco più tardi l’agente Morgan lasciò il genio del F.B.I. da solo dopo averlo informato che aveva delle cose da sbrigare con l’agente Rossi, il dottor Reid annuì e l’agente si allontanò dopo avergli intimato di smetterla di pensare a Thompson.
    Ma Spencer non ci riusciva, pensare per lui era come una droga, non poteva spegnere il cervello a piacimento. Ammetteva che non gli sarebbe affatto dispiaciuto, ma sapeva che era impossibile. Non ricordava un momento della sua, da quando aveva memoria, in cui non fosse stato accompagnato dai suoi pensieri; erano come ombre che lo seguivano, ombre irritanti e spesso dolorose.
    In quegli istanti, il giovane provava una forte attrazione nei confronti del passato di Thompson, voleva sapere tutto della giovane dottoressa; avvertiva lo stesso desiderio di conoscenza che lo attraversava quando stringeva un nuovo pesante manuale preso in biblioteca. Solo che Madison Thompson non era un manuale e non poteva essere aperta.
    Doveva concentrarsi su altro, era l’unico modo per distrarre i suoi pensieri della figura misteriosa della sua vicina di casa, perciò iniziò ad aggirarsi per l’open space, alla ricerca di qualcosa da fare.
    Fu allora che passò di fronte all’ufficio vuoto dell’analista informatica Garcia, sapeva che se avesse inserito il nome dell’amica in quei motori di ricerca, avrebbe scoperto tutto in pochi secondi e Madison non sarebbe stata più un punto interrogativo.
    La tentazione era troppo forte, ma sapeva che era sbagliato. Era dibattuto fra il suo desiderio di conoscere e la consapevolezza che si trattava di violazione della privacy; aveva appena messo un piede nell’ufficio di Garcia quando questa apparve alle sue spalle. “Reid che diavolo stai facendo nel mio santuario?” le chiese la bionda lanciando lo sguardo più cattivo di cui fosse capace. Spencer trasalì al sentire la sua voce e farfugliò che stava semplicemente passando di lì e si frettò ad andarsene, ma Garcia lo prese per un braccio e lo trascinò dentro.
    “Che volevi fare? Qualcosa di illegale? Ci sono, volevi entrare nei database della CIA!” esclamò la donna puntandogli il dito indice contro.
    “No, Garcia, nulla di illegale… Io volevo avere informazioni su una persona” mormorò Spencer con tono imbarazzato, si sentiva come un bambino sorpreso a rubare dei biscotti in un supermercato.
    “Volevi sapere di tuo padre?” gli chiese lei mettendogli una mano sulla spalla per incoraggiarlo; Spencer scosse la testa e confessò che si trattava di Madison. L’amica lo guardò incerta e gli domandò perché fosse così curioso al punto da voler utilizzare il suo super computer per sapere qualcosa di più, Spencer fece spallucce e rimase in silenzio.
    “Reid, il miglior modo per conoscere qualcuno è dargli il tempo di svelarsi” gli spiegò Garcia con tono materno. “Vedrai che non esistesse nulla di più bello di qualcuno che si confida con te e ti racconta i suoi segreti e paure, proprio come tu hai fatto con noi” continuò la donna rivolgendogli un sorriso che fu ricambiato.
    Spencer gli diede ragione e poi uscì dall’ufficio di Penelope; era ancora curioso ma si promise di non cedere. Avrebbe aspettato che fosse Madison a parlargli, anche se questo poteva significare non venire mai a conoscenza del suo passato.

    Per diversi giorni successivi al loro ultimo incontro, Spencer tentò di contattare Madison senza successo. Provò persino a bussare alla sua porta, ma nessuno gli aprì; alla fine dovette cedere, era evidente che la giovane dottoressa non volesse vederlo o sentirlo perciò era inutile insistere nonostante la cosa lo rendesse piuttosto triste.
    Una sera mentre leggeva un libro, qualcuno bussò alla sua porta.
    “Madison!” esclamò con un po’ troppo entusiasmo che non lasciò alcun dubbio riguardo il piacere che aveva provato vedendola davanti a lui. “Ciao” farfugliò la ragazza rimanendo sulla porta, Spencer si fece da parte e la invitò ad entrare.
    “Scusami” dissero entrambi all’unisono, sorrisero per l’accaduto. “Parlo prima io se non ti spiace” disse stavolta la giovane donna, Spencer annuì e rimase ad ascoltarla dopo essersi accomodato sul divano.
    “Mi dispiace per l’altro giorno. Ho esagerato.” esordì lei, dal tono si capiva che fosse davvero dispiaciuta di quanto successo. “E’ solo che ciò che hai detto, ha risvegliato in me brutti ricordi, e..”
    Spencer annuì e le disse che se ne voleva parlare, lui era disposto ad ascoltarla, Madison sorrise e accettò; si sentiva a suo agio con il dottor Reid perciò le venne quasi naturale, superata la ritrosia iniziale a lasciarsi andare, confidarsi con lui.
    Fece una pausa e quando si sentì pronta, raccontò a Spencer cosa fosse successo. “Qualche anno fa, sono caduta in anoressia. Ne avevo sofferto anche al liceo, ma ero sempre riuscita a controllarmi, solo che quella volta la ricaduta fu molto forte e i miei genitori furono costretti a ricoverarmi in una clinica per disturbi alimentari, al Sara Tobin nello stato di New York” confessò la ragazza.
    “Ero in preda ad una forte depressione, ricordo che i medici mi dissero che ero in pieno esaurimento nervoso, e che se avessi continuato a dare i numeri rischiavo di perdere la vita. Sapevano che, avendo una formazione medica, io fossi perfettamente in grado di capire a cosa stessi andando incontro punendomi in quel modo, ma pensavano che se mi avessero messo di fronte alla consapevolezza che pesavo a mala pena quaranta chili, avrei smesso di impormi quel digiuno forzato” continuò, Spencer notò che aveva gli occhi lucidi mentre parlava e inevitabilmente si commosse anche lui. Non riusciva ad immaginarsi una Madison così fragile, nonostante non la conoscesse da molto, gli era sembrata una persona molto sicura di sé e forte. D’istinto posò una mano sulla sua come per farle coraggio e la invitò a continuare il suo racconto se ne aveva ancora voglia.
    Madison annuì e si schiarì la gola cercando di dissolvere il grappolo che le si era formato.
    “Qualche mese dopo, uscii dalla clinica, non ero ancora guarita ma il peso non era più preoccupante e i medici pensarono che potesse essere una buona idea portarmi a casa. Ovviamente si rivelò un terribile sbaglio.- fece un’altra pausa per riuscire a controllare le proprie emozioni- Persi il controllo di nuovo e iniziai a bere, non ricordo un singolo giorno in cui non sia stata portata a casa in uno stato di semi incoscienza. I miei genitori furono costretti a portarmi nuovamente in clinica e fu allora che mi prese in cura il dottor Rhodes.”
    “Mi è stato accanto in ogni momento, mi ha ascoltata fino alla nausea incoraggiandomi in ogni modo perché ritrovassi la voglia di vivere che avevo perso. Ci vollero altri sei mesi perché mi riprendessi, ma il dottor Rhodes non smise di venirmi a trovare finché non trovai la forza di riprendere il controllo della mia vita e così uscii dalla clinica.”
    “Non bevo da allora e non ho più avuto ricadute, è passato quasi un anno e ormai non faccio nemmeno la cura contro la depressione che mi era stata prescritta”concluse Madison.
    “Scusami se non te ne ho parlato l’altro giorno, ma temevo che mi avresti giudicata e così..”si giustificò con la voce che tremava, aveva paura di averlo deluso. Spencer la interruppe dicendole che non lo avrebbe mai fatto e che la considerazione che aveva di lei non era cambiata di una virgola, anzi si era fortificata. Fu allora che Madison con un gesto impulsivo abbracciò il dottor Reid, che rimase per un attimo interdetto, ma rispose all’abbraccio e strinse la giovane che appoggiò la testa sul suo petto.
    Spencer chiuse gli occhi e sentì un profumo dolce di pesca e miele invadergli le narici. Rimasero in quella posizione per diversi secondi, poi Madison si staccò e sussurrò un grazie all’amico appena udibile.
    “Ti va se andiamo a fare una passeggiata?” propose Spencer, pensò che prendere un po’ di aria avrebbe fatto bene ad entrambi.
    Madison annuì e gli disse che le sembrava un’ottima idea, poi indossò il cardigan che Spencer le aveva prestato e uscirono di casa. Camminarono fianco a fianco per circa una ventina di minuti senza dirsi molto, si recarono al parco e senza accorgersi si presero per mano.
    “Guarda un mago!” esclamò indicando una folla radunata attorno un giovane vestito come uno stregone dei film su Merlino e la tavola rotonda, la giovane accelerò il passo e lasciò andare la mano di Spencer che in quel momento realizzò di averla stretta.
    Era sorpreso, si sentiva bene e per nulla imbarazzato, come se fosse una cosa normale e del tutto spontanea. “Quello non lo si può definire un mago” asserì il dottor Reid dopo aver osservato il presunto mago all’opera.
    “Agente Reid, lei pensa di poter fare di meglio?” lo incalzò alzando un sopracciglio, Spencer si avvicinò e sussurrò al suo orecchio di sapere di poter fare meglio e poi fece apparire davanti un fiore finto di colore blu, Madison applaudì e si mise il fiore fra i capelli. Nel frattempo il mago aveva terminato il trucco e chiese se c’era un volontario per quello successivo, il mago scrutò la folla guardando i ragazzini che si sbracciavano per essere scelti, stava per prendere uno di loro quando Spencer si fece avanti chiedendogli di prendere lui.
    “Costui vi vuole sfidare, mio giovane mago, perciò dovrà accettare l’offerta se non vuole perdere l’onore” esclamò la rossa rivolgendo un sorriso accattivante alla folla che si era girata verso di lei, convinta che si trattasse di una recita. Il mago sgranò gli occhi, non capiva cosa volessero quei due, ma concludere lo spettacolo in quel momento significava perdere le offerte perciò decise di lasciarli fare.
    “Bene, bene. Chi sei? Ti prego, presentati alla folla” domandò il mago con un gesto teatrale. “Sir Reid, a suo servizio” si presentò Reid e fece un inchino alla folla e presentando l’amica, che s’inchinò a sua volta, come lady Madison.
    “Non so che intenzioni abbiate, ma spero che non roviniate il mio spettacolo. Per te sarà solo un modo di colpire la ragazza, ma per me è la cena di stasera” sussurrò il giovane a Spencer quando si avvicinò. “Stai tranquillo, il tuo spettacolo è salvo e anche la cena” lo rassicurò Spencer, poi gli diede delle indicazioni che il giovane eseguì.
    Terminata l’esibizione, la folla esplose in un grande applauso, i due maghi si inchinarono. Mentre il mago passava fra la folla con il cappello per raccogliere le offerte, Spencer si allontanò per raggiungere l’amica che si complimentò con lui per la sua performance. “Grazie” disse ad entrambi il giovane mago, sollevò per qualche secondo il cappello che indossava e poi se ne andò.
    “Lady Madison le andrebbe di andare a cena? Conosco una taverna a pochi passi da qui” le chiese con tono cavalleresco. “Con immenso piacere, accetto il suo invito, sir Reid” gli rispose la rossa. Spencer offrì il braccio e insieme si avviarono verso il ristorante.

    Mentre rientravano dal ristorante furono sorpresi dalla pioggia che li costrinse a correre fino al palazzo.
    Madison giunta al portone si fermò a prendere fiato, stava ansimando. “Sono decisamente fuori allenamento” riconobbe quando fu in grado di parlare mentre Spencer la guardava divertito.
    In quel momento il cielo s’illuminò quasi fosse giorno e dei forti tuoni rimbombarono su tutta Washington. “Caspita, si è scatenato un brutto temporale” commentò Reid. “Meno male che siamo rientrati” aggiunse guardando fuori.
    Madison rimase muta, stava quasi tremando, aveva una paura matta dei temporali fin da quando era piccola, ma non voleva ammetterlo perciò fece finta di niente e si avviò per le scale preceduta dal dottor Reid.
    Giunti al secondo piano, il suo vicino la salutò, augurandole la buonanotte, ma Madison mentì dicendogli che aveva scordato le chiavi di casa nel suo appartamento e doveva salire a prenderle. “Sei sicura?” ribadì confuso l’amico. “Non mi pare di averle viste”
    Madison gli rispose che era sicurissima che fossero di sopra e insieme si avviarono verso l’appartamento di Spencer, non aveva alcuna intenzione di rimanere sola finché il temporale non fosse passato.
    “Le hai trovate?” domandò l’amico, Madison le fece cadere dalla tasca sul divano e poi le alzò facendo finta di averle trovate. “Erano finite fra i cuscini” spiegò.
    Reid le sorrise e le augurò nuovamente la buonanotte convinto che la sua vicina se ne sarebbe andata, Madison rimase sulla porta senza muoversi mentre il genietto la guardava. “Qualcosa non va?” le chiese.
    “Posso dormire con te stanotte?” gli domandò tutto d’un fiato, poi si portò una mano alla bocca; Spencer deglutì e per poco non gli andò la saliva di traverso, una domanda del genere non se l’aspettava minimamente.
    “No, Spence, aspetta. Non in quel senso…” spiegò la rossa mettendo una mano avanti. “Io ho paura dei temporali. Posso restare qui finché passa?”
    Spencer tirò un respiro di sollievo. “Certo, comunque dai, è solo della pioggia, che vuoi che succ..” non finì di dire la frase, che l’appartamento sprofondò nel buio, il temporale aveva fatto saltare la corrente nell’intero isolato.
    Reid lanciò un urlo e scattò in avanti verso Madison. “Che vuoi che succeda, eh?” protestò lei. “A quanto pare, il grande Reid non-ho-paura-dei-temporali ha paura del buio invece” lo accusò lei, non le piaceva essere presa in giro.
    Reid si scusò e le chiese di accompagnarlo in cucina a prendere delle candele, stavano raggiungendo la cucina quando sentirono un rumore alle spalle, d’istinto Madison si aggrappò a Reid che fece altrettanto, aveva decisamente troppo paura pure lui per fare lo spavaldo alla Derek Morgan. “Che cos’è stato?” domandò la rossa con un filo di voce. “Non lo so, ma propongo di rimanere in questa posizione finché non sarà tornata la luce” rispose lui, Madison annuì e strinse ancora di più al dottor Reid.
    Fu in quel momento la luce si accese, Reid si staccò da Madison che teneva gli occhi ancora chiusi. “Hey, era solo un libro. È caduto dalla libreria” le disse lui per farla calmare mostrandole il libro.
    “Posso comunque restare un altro po’ oppure mi cacci?” gli domandò facendo gli occhi da cucciola.
    Reid non riuscì a resistere a quello sguardo, e le disse che poteva restare finché il temporale non fosse passato, Madison gli stampò un bacio rumoroso sulla guancia e si lanciò sul divano. “Che facciamo? Ci guardiamo un film?” propose la ragazza.
    “Mmm...si! Star wars? Ti piace?”, l’amica fece una smorfia di disgusto sottolineando che odiava quella saga, cosa che dispiacque a Spencer, fan appassionato qual era.
    “Che ne dici se guardiamo qualcosa in streaming? Così scegliamo quello che vogliamo!” affermò Madison, sicura che fosse un’ottima idea.
    “Maddie, è illegale” ribadì Spencer. “Ma dai! Neanche fossimo della polizia!” protestò lei.
    “No, sono un agente del F.B.I., che, guarda caso, ha chiuso Megavideo qualche anno fa!” le ricordò lui, a quel punto Madison scoppiò a ridere e rinunciò. Dopo qualche minuto, Spencer si ricordò del dvd che gli era stato regalato qualche anno prima. “Ho un dvd. Dovrebbe essere una commedia, “Tutti pazzi per Mary” mi pare...”
    “Perfetto, Cameron mi piace!” esclamò lei accomodandosi i cuscini dietro la schiena. “Cameron?”
    “Si, Cameron Diaz, l’attrice del film! Charlie’s Angels, The Mask, la voce della principessa Fiona in Shrek …” citò i nomi i film della famosa attrice nella speranza che all’amico si accendesse una lampadina, ma questo continuò a non capire di chi si stesse parlando, Madison roteò gli occhi ed infine gli disse di mettere il film. Spencer obbedì e si sedette vicino a lei mentre fuori continuava a piovere a dirotto.
    Spencer rise per una battuta e si girò verso Madison commentandola quando si rese conto che l’amica si era addormentata, perciò spense la tv e le diede una leggera scossa perché si svegliasse. “Maddie… Il temporale è passato, vuoi che ti accompagni giù?” le domandò una volta che la rossa aprì gli occhi.
    “E’ finito il film?” gli domandò con la voce impastata dal sonno. “Non proprio, ma tu eri più interessata a intrattenere rapporti con Morfeo che a guardarlo, perciò ho spento” rispose divertito Spencer aggiungendo che si era addormentata proprio sulla scena più bella.
    Madison si alzò dal divano e con gli occhi ancori chiusi gli diede un bacio sulla guancia per augurarle la buonanotte sfiorando involontariamente troppo da vicino l’angolo della bocca di Reid, le cui guancia avvamparono, provocando una risata alla vicina.
    “Sembri un ragazzino che ha ricevuto il suo primo bacio” lo scherzò lei.
    Spencer la guardò storto. “Torna nel mondo di Morfeo, stai dicendo troppe cavolate” replicò risentito.
    Madison rise ancora una volta e si avviò verso la porta. “Comunque Mary sceglie Ted alla fine” disse lei svelando il finale prima di lasciare l’amico, che le tirò un cuscino addosso accusandola di avergli rovinato il film, colpendo però la porta che era stata velocemente chiusa dalla ragazza.


    “Doppio appuntamento”




    “E’ arrivato un ragazzo questa mattina, Tom Collins, ha 27 anni, fa il cameriere in un ristorante di classe “Chez Martin” dichiarò il dottor Brown entrando nella sala in cui erano riuniti i suoi collaboratori.
    “Caspita! Si farà delle belle mance in quel posto” commentò Perkins, attirando su di sé gli sguardi storti dei colleghi, era solito interrompere per fare dei commenti del tutto fuori luogo, il dottore alzò le mani in segno di scusa e promise di non dire più nulla.
    “Il ragazzo è stato portato in pronto soccorso dalla sua fidanzata dopo che ha vomitato sangue per una buona mezz’ora” continuò Brown mentre i tre lo ascoltavano prestando la massima attenzione.
    “Qual è la diagnosi dei medici del PS?” domandò la dottoressa Andrews riportando la conversazione su Tom Collins.
    “Il medico del PS che lo ha visitato non ha la più pallida idea di cosa possa averlo colpito.” riferì Brown mostrando la cartella che il medico del PS aveva scarabocchiato.
    “Andate lui e cercate di scoprire quanto più possibile.” continuò l’uomo, i tre scattarono in piedi e si avviarono verso la porta. Prima che Madison potesse uscire dalla sala, il dottor Brown si rivolse a lei: “Thompson, tu rimani qui. Ho un altro caso per te”.
    “Un caso da sola?” domandò stranita lei, era entrata a far parte del team da poco più di mese, non si sentiva ancora in grado di affrontare un caso senza il supporto dei suoi colleghi. “Sono sicuro che te la caverai” affermò con sicurezza il dottor Brown, infine consegnò la cartella a Madison, che ancora incredula continuava a fissarlo, e uscì anche lui per raggiungere i suoi collaboratori.
    Madison si sedette sul tavolo e aprì la cartella; la paziente era una ragazzina di 14 anni residente nella città di Washington, era stata portata in ospedale in preda a forti allucinazioni e febbre alta.
    “Si tratterà di qualche malattia infettiva” pensò Madison ad una prima lettura delle analisi del sangue. Uscì dalla sala anche lei e si recò dalla giovane paziente.
    “Salve, sono la dottoressa Thompson” si presentò entrando nella stanza, subito i genitori si avvicinarono e le chiesero se sapeva cosa avesse.
    “Purtroppo no, le analisi ancora non sono arrivate. Ma ho il sospetto che si tratti di qualche infezione, vedrete che sarà una cosa da nulla” li tranquillizzò Madison, poi controllo i parametri della ragazzina che le sembrarono apparentemente normali e si congedò dopo aver fatto qualche domanda alla ragazzina, che la raccontò di essere stata in campeggio di recente. Mentre raggiungeva di nuovo la sala, un’infermiera la raggiunse consegnandole il resto delle analisi, “Il dottor Brown gliele manda, ha detto che si era scordato di portargliele” spiegò prima di allontanarsi.
    Madison le diede un’occhiata alle altre analisi che lo stesso dottor Brown aveva ordinato quella mattina stessa, che le confermarono quanto aveva dedotto; si trattava di un’infezione da batterio che poteva essere stato contrattato facilmente durante la sua escursione. Tuttavia le allucinazioni erano un sintomo anomalo che non riusciva ancora a spiegarsi, stava ricostruendo la cartella che aveva letto un’ora prima nella sua testa quando entrò nella sala dove i suoi colleghi discutevano del caso loro assegnato.
    “Abbiamo fatto ogni possibile analisi, non riesco a capire” disse Brown continuando a rileggere la cartella “Non so, c’è qualcosa che non mi convince” sottolineò Perkins.
    “Thompson, tu che ne pensi? Cosa può essere?” chiese alla nuova collaboratrice che con aria assente continuava a pensare al suo caso. “Uh, non saprei. Un tumore?” ipotizzò lei, Jennifer spiegò che quell’ipotesi era stata scartata. “E se fosse avvelenamento da radiazioni?”
    “La sua fidanzata non presenta alcun sintomo, come può essere lui soggetto ad avvelenamento da radiazioni, e lei no?” insistette Jennifer.
    “Magari è dovuto all’ambiente in cui lavora” suggerì Madison, a quel punto il dottor Brown inviò i due collaboratori a visitare il noto ristorante francese.
    “Come va con il caso?” le domandò il dottor Brown non appena rimasero da soli. “Bene, ho scoperto che si tratta di un’infezione da batterio. Insomma, un po’ di medicine e starà bene” rispose Madison, anche se non era convinta, non era ancora riuscita a dare una spiegazione alle allucinazioni.
    “Ma le allucinazioni? A cosa sarebbero dovute? Non può essere solo a causa della febbre alta” replicò il dottor Brown, la giovane dottoressa rispose che anche lei era dubbiosa e così il dottor Brown le suggerì una tac, “Se si tratta di un problema a livello neurologico, di sicuro così lo saprai” poi uscì, aveva un appuntamento con il direttore dell’ospedale.

    Madison spiegò ai genitori che doveva sottoporre la figlia ad una tac, descrisse il tipo d’esame alla ragazzina, che non ne aveva mai sostenuto uno e la condusse nella sala mentre i genitori aspettavano fuori.
    “Ci siamo, che il cervello ci illumini la strada” disse il tecnico che svolgeva lo studio insieme a Madison, un uomo molto strano ma simpatico. “Stai ferma, mi raccomando. Ci vorranno solo pochi minuti” raccomandò la dottoressa Thompson alla ragazzina che urlò un “ok” da dentro il macchinario.
    Dopo circa cinque minuti, la causa delle allucinazioni della paziente fu chiara. “Oh no” affermò Madison non appena si accorse che si tratta di tumore al cervello in fase terminale.
    Il tecnico spense il microfono e fece uscire la ragazzina che fu accompagnata dai genitori da un’infermiera. “Difficile dare le brutte notizie, eh?” le domandò l’uomo notando l’espressione rammaricata di Madison.
    “Difficile soprattutto quando si tratta di una ragazzina di 14 anni e tu non lo hai mai fatto” rispose lei, appoggiò la testa contro il muro, si sentiva sconfitta anche se sapeva che non era di certo colpa sua.
    “Dovrai occupartene tu per forza? Oppure magari il dottor Brown può dare la notizia alla famiglia?”
    “Non so, forse il dottor Brown può farlo, anche se il caso è mio.” Si illuse Madison, poi si congedò dal tecnico e andò a parlare con il dottor Brown evitando i genitori della ragazzina affinché non le venissero rivolte altre domande.

    “Avevi ragione tu Thompson. Si trattava di avvelenamento da radiazioni. A quanto pare il ristorante francese non aveva alcun problema, ma il paziente era stato di recente licenziato dal ristorante dopo un litigio con un cliente e, di nascosto dalla fidanzata, si era procurato un altro lavoro a nero, poco sicuro in una fabbrica, dove è entrato in esposizione alle radiazioni” le riferì il dottor Brown non appena la vide.
    “La mia paziente ha un tumore al cervello, le rimangono circa 2 settimane di vita” disse lei ignorando quanto le aveva detto il dottor Brown.
    “Brutto affare. I genitori come l’hanno presa?” le domandò l’uomo, Madison gli confessò che non aveva ancora parlato con loro e che sperava che fosse lui a farlo.
    “Non si può fare Thompson, questo è il tuo caso e la tua paziente. Te ne dovrai occupare tu” rispose freddo il suo capo. Fu in quel momento che Madison capì che il dottor Brown era a conoscenza del tumore della sua paziente. “Tu lo sapevi!” lo accusò.
    “No, non lo sapevo. L’ho pensato, ma non ne avevo la certezza” ammise lui. “Thompson, il nostro lavoro a volte ci richiede di dare notizie che mai vorremmo dare, ma purtroppo noi siamo i dottori e non ci possiamo tirare indietro” la confortò notando l’espressione smarrita di Madison.
    “Madison non sarà né la prima e né l’ultima, purtroppo, paziente a cui dovrai fare una simile comunicazione. Ti ci dovrai abituare perciò ora vai e parla con loro”
    Madison sospirò, sapeva che era inutile discutere con il dottor Brown quindi smise di provarci e gli disse che lo avrebbe fatto. “In ogni caso, ottimo lavoro. Hai risolto due casi oggi” si complimentò l’uomo prima che uscisse dalla sala.
    Madison si girò e abbozzò un sorriso. “Uno avrei preferito non risolverlo” rispose, poi chiuse la porta e si avviò a passo sostenuto verso la stanza della quattordicenne.
    Intravide la propria immagine riflessa alla vetrata della stanza; “Sembro un fantasma!” si disse guardandosi, si ravvivò i capelli e si pizzicò le guancie perché avessero un colorito diverso dal bianco pallido, infine fece un respiro profondo e richiamò l’attenzione dei genitori affinché uscissero dalla stanza.
    “Dottoressa? Qualcosa non va?” domandò il padre della paziente notando l’espressione sconsolata della giovane.
    “Signori Field, mi dispiace, non è facile quello che sto per dirvi. Vostra figlia ha un tumore al cervello, è in fase terminale. Non possiamo fare più nulla”
    Madison poté vedere come possa per qualcuno crollare tutto in pochi secondi, e si sentì colpevole dell’accaduto, come l’antagonista di una fiaba che cospira contro la coppia per impedire il lieto fine. Tutto si svolse rapidamente, la madre scoppiò in singhiozzi, le mancava il respiro perciò fu costretta ad allontanarsi con il sostegno di un’infermiera, che si prese subito cura della donna. Il padre rimase in silenzio davanti a Madison, che provò a dargli in qualche modo conforto sottolineando più volte che loro non avevano colpe e che c’era alcun modo per loro di venirne a conoscenza prima di quel momento. L’uomo annuì con scarsa convinzione e si scusò dicendole che doveva raggiungere la moglie; Madison sentì i suoi occhi inumidire e una mano posarsi sulla spalla, era il dottor Brown. “Non è colpa tua, anzi non è colpa di nessuno” la confortò l’uomo, capiva come si potesse sentire in quei momenti. Aveva esperienza sul campo, ma dare la brutta notizia che cambia la vita non diventa mai facile, neanche dopo anni di esperienza.
    “Ora vado a casa” gli comunicò Madison poi consegnò la cartella che il dottor Brown prese subito in custodia ed infine lo salutò.
    Non si preoccupò nemmeno di cambiarsi, voleva solo uscire dall’ospedale. Era seduta sul sedile della sua auto, con le mani posate sul volante e lo sguardo fisso in avanti quando il suo cellulare prese a squillare. Controllò il display e lesse il nome della sua vecchia compagna del college, Paget, che l’aveva ospitata nelle sue prime settimane a Washington.
    “Hey dolcezza” la salutò con tono un po’ smorto. “Maddie, tutto ok? Sembri un po’, come dire, morta?” risuonò la voce squillante dell’amica.
    “Ehm.. si. È stata una lunga e brutta giornata, tutto qui” spiegò velocemente. “Bene, allora la mia proposta non potrà che farti piacere”. Madison rimase un attimo incerta, le proposte di Paget avevano sempre a che fare con due cose: lo shopping e le feste.
    “Andiamo ad una festa” annunciò vittoriosa confermando la seconda ipotesi della giovane dottoressa, che immaginò l’amica mentre faceva il suo solito sorriso malizioso. Per Paget andare ad una festa significava anche rimorchiare.
    “Non so se sono dell’umore adatto”. Provò a giustificarsi, ma non c’era nulla da fare, l’amica aveva deciso: quella sera sarebbero uscite e non avrebbe rinunciato finché Madison non avesse accettato.
    Dopo diversi minuti d’insistenze, Thompson accettò. “Mi passi a prendere tu alle dieci? La mia macchina languisce dal meccanico” chiese Paget prima di chiudere la conversazione.
    “Certo”. Riattaccò e mise in moto il veicolo.

    Era appena scesa dall’auto quando vide il dottor Reid intento a rovistare nella sua tracolla alla ricerca di qualcosa davanti al portone del palazzo. “Perso qualcosa?” gli domandò arrivata dietro alle sue spalle.
    Spencer si girò e le sorrise. “Le chiavi, mi sa che le ho scordate” le disse senza smettere di cercarle.
    “Dai, ti apro io”. Aprì il portone ed insieme si avviarono per le scale. “Tutto bene?” domandò lui dopo aver notato l’ espressione assente della vicina.
    “Ho detto ad una ragazzina di 14 anni che ha due settimane di vita” rispose d’un fiato. Spencer annuì e non fece commenti, anche lui detestava dare quel genere di notizie, per sua fortuna nella maggior parte dei casi, se ne occupava JJ, ma quelle poche volte che era toccato a lui dare la brutta notizia si era sentito a pezzi dopo.
    Arrivati al secondo piano, Madison si scusò con lui dicendogli che aveva un appuntamento e che doveva essere pronta nel giro di due ore. “Un appuntamento?” chiese Spencer curioso. Non pensava che si frequentasse con qualcuno e quell’annuncio lo sorprese.
    “Sì, con un’amica” riferì la giovane, a quel punto lo salutò nuovamente ed entrò nel suo appartamento.
    Spencer continuò a salire le scale, senza smettere di pensare al presunto appuntamento della vicina; gli aveva detto che si trattava di un’amica, e se gli avesse mentito?
    “Che importa se mi ha mentito? Sono affari suoi se ha una storia” disse a se stesso mentre cercava la chiave di riserva sotto uno dei vasi di piante che teneva nell’ingresso. “Parli da solo, ragazzo?” gli domandò il signor Chester divertito mentre tirava una boccata di fumo dalla pipa, stava annaffiando le proprie piante. Spencer trasalì al sentire la sua voce e rimase in silenzio, il vecchio vicino lo metteva sempre in imbarazzo.
    L’uomo scosse la testa e tirò un sospiro. “Le donne, eh? Difficile vivere con loro, ma forse è ancora più difficile vivere senza” dichiarò il signor Chester con tono un po’ malinconico.
    “Lei è sposato signor Chester?” si trovò a domandargli Spencer, fu una domanda di getto. Non aveva mai parlato con il vicino, a parte quella volta dei muffin.
    “Si, lo ero. Con Sue, una donna meravigliosa la mia Sue”. Spencer notò una punta di nostalgia nella voce del vicino, doveva averla amata moltissimo. “E’ morta cinque anni fa. La leucemia me l’ha portata via”
    “Mi dispiace” gli disse il giovane. Il signor Chester fece spallucce e gli rivolse un sorriso.
    “Allora è la misteriosa giovane dei muffin a darti problemi?”
    Il dottor Reid aprì la bocca per negare, ma le parole gli rimasero intrappolate in gola, perciò annuì, d’altronde che senso aveva negare la cosa?
    Il vecchio gli fece l’occhiolino. “E’ molto carina, dovresti provarci”, infine gli disse che era arrivato il momento della medicina e rientrò in casa, seguito da Spencer che entrò nel suo appartamento.
    Posò la tracolla sul divano e si precipitò sul telefono. “Morgan, hai impegni stasera?” domandò all’agente senza dargli nemmeno il tempo di rispondergli.
    “Wow, che è successo?” lo scherzò incredulo Derek, una simile iniziativa non era usuale da parte del dottor Reid.
    “Allora usciamo?” ripeté Reid ignorando la domanda di Derek, che accettò informandolo che sarebbe passato a prenderlo per le dieci.
    “Chissà che intenzioni ha” si chiese Derek dopo aver chiuso la telefonata, poi andò a farsi una doccia. Doveva mettersi in tiro, aveva ottimi presentimenti per quella serata.

    Un’ora dopo la bizzarra chiamata di Spencer al suo collega, Madison bussava alla porta dell’amica con una ciocca di capelli in mano. “Sei in anticipo di mezz’ora” le disse l’amica dopo averle aperto in accappatoio.
    “Lo so, mi devi applicare queste”. Scosse le extensions davanti al viso ed entrò.
    “Meglio il vestito rosso con lo scollo a v o quello nero paillettato?” le domandò Paget mostrando i due vestiti appoggiati sul letto all’amica.
    “Paillette” affermò Madison, che si accomodò sulla sedia davanti alla toeletta dell’amica mentre questa si cambiava.
    Si guardò allo specchio, non era molto soddisfatta del modo in cui si era truccata, ma non aveva voglia di rifarlo perciò decise di accontentarsi. “Ho esagerato con il trucco?” chiese all’amica quando apparve dietro di lei.
    “Sei perfetta”. Le sorrise e iniziò a spazzolare i capelli dell’amica all’indietro per racchiuderli in una coda di cavallo.
    Le applicò le extensions e poi la voltò verso di lei. “Sai che cosa ti ci vuole? A parte un uomo, ovviamente”
    Madison fece una smorfia, odiava Paget quando s’intrometteva nei suoi love affairs, anche se ammetteva che non aveva tutti i torti.
    “Un po’ di rossetto rosso!” esclamò l’amica, poi prese il rossetto e con un pennellino glielo applicò sulle labbra.
    “Magnifica” le fece un sorriso malizioso e l’aiutò ad alzarsi. “Oggi vedrai che il mondo sarà ai tuoi piedi, anzi ai nostri” dichiarò mentre Madison rideva.
    “Che la serata abbia inizio” disse Madison mentre metteva in moto l’auto. Paget accese lo stereo e lanciò uno sguardo d’intesa all’amica. “No, tesoro, che la caccia abbia inizio” la corresse.

    Non appena arrivarono alla festa, furono adocchiate da un gruppetto di tre trentenni che si avvicinarono offrendo loro qualcosa da bere, che entrambe rifiutarono. “Allora ragazze di dove siete?” chiese uno di loro, non erano intenzionati a mollare la presa.
    Paget rispose per entrambe dicendo che abitavano a Washington ma che in realtà nessuna di loro due era nativa del posto, la conversazione andò avanti per un po’ senza la partecipazione di Madison che scrutava il locale alla ricerca di una via di fuga; quel gruppetto non le ispirava affatto simpatia.
    Fu in quel momento che intravide l’agente Morgan e il suo vicino entrare nel locale, che notarono subito la dottoressa a loro volta. “Proprio nel momento giusto!” pensò, entrambi la salutarono da lontano e Madison fece segno di avvicinarsi con un cenno del capo. Derek intuì immediatamente che doveva intervenire per allontanare gli ospiti indesiderati.
    “Ragazze qualcosa non va?” domandò Derek con tono protettivo quando fu davanti a loro. Il trio non appena vide l’agente Morgan si scusò dicendo che non stavano facendo nulla per poi dileguarsi rapidamente fra la folla.
    “Hey! chi vi ha chiamato?” urlò Paget, poi si voltò per continuare la ramanzina che le morì in gola quando fu davanti all’agente Morgan. “Chi sono i tuoi amici, Maddie?” domandò all’amica lanciando uno sguardo malizioso all’agente di colore. “Lui è Derek Morgan, il mio amico, ricordi? E lui è il mio vicino di casa, Spencer. Sono colleghi, lavorano entrambi per l’F.B.I.” li presentò Madison.
    Paget offrì la mano all’agente Morgan, che gliela baciò, ignorando del tutto Spencer, sul cui volto si dipinse un’espressione stranita che fece ridere Madison. “Piacere” sussurrò Derek con voce suadente.
    “Io sono Paget, una ex compagna di college di Madison” si presentò da sola la giovane donna senza dare il tempo a Madison per farlo. “Anche tu sei un medico?” le domandò Spencer ignorando gli sguardi intensi fra i due.
    “Oh no, ho abbandonato il college, ora faccio l’educatrice di bambini” disse in risposta alla domanda del dottor Reid senza smettere però di fissare il suo collega. “Soprattutto di bambini cattivi” aggiunse mordicchiandosi le labbra mentre l’agente Morgan le sorrideva.
    “Ok, forse è meglio che andiamo a prendere qualcosa da bere” affermò Madison dopo aver notato gli sguardi che si lanciavano i due, prese per un braccio il dottor Reid che protestava perché lui non voleva nulla da bere.
    “Va bene, non bere niente però lasciali da soli” gli disse all’orecchio Madison quando furono lontani dai due che nel frattempo si erano spostati verso uno dei tanti divani che arredavano la sala.
    “Perché?”. Non capiva il motivo di quella riservatezza, non si conoscevano nemmeno.
    “Davvero non lo hai capito?” domandò lei scandalizzata. Possibile che non avesse capito?
    Reid scosse la testa, rivelando di essere più confuso di prima. “Paget ci ha provato spudoratamente con Derek e lui sembra che ci sta” gli spiegò incredula che non avesse colto le intenzioni dell’amica, era stata così esplicita. “Davvero non lo avevi capito?”
    Spencer annuì riconoscendo che non era molto bravo a decifrare quei tipi di comportamenti, Madison rise. “Svegliati allora!” lo scherzò dandoli una leggera spinta, poi si sedette ad uno degli sgabelli del bancone del bar invitandolo a seguirla e ordinò una birra per entrambi.
    “Vedi la tizia seduta al terzo sgabello? Ti sta fissando da quando ti sei seduto!” gli disse mentre sorseggiava la birra indicandola il mignolo in modo che la donna non se ne accorgesse.
    “Ma chi quella mora?” le chiese sporgendosi in maniera troppo evidente e attirando su di sé gli sguardi della donna.
    Madison lo guardò storto e lo rimproverò . “Si, lei. Non ti sporgere troppo però”
    “Secondo me pensa che stiamo insieme” disse divertita. “Facciamoglielo credere, sempre se non ti interessa”
    Spencer scosse la testa, e le domandò cosa intendesse fare. “Ora vedrai” rispose la rossa e si alzò diretta verso la donna che la guardava di sottecchi.
    Madison le porse una fotocamera che prese dalla borsa. “Scusami, ti spiace fare una foto una foto a me e al mio fidanzato?”
    “Certo, nessun problema”. Le strappò la fotocamera di mano e si alzò dallo sgabello.
    “Amore, vieni” lo chiamò Madison, Spencer scosse la testa pensando che la sua vicina fosse una pazza.
    Quando fu accanto a lei, la giovane dottoressa gli prese un braccio e lo posò attorno alle spalle, mentre lei lo abbracciava in vita. “Vado?” domandò stizzita la donna sbattendo un piede come per sottolineare che aveva fretta.
    Madison annuì e, non appena la donna scattò la foto, stampò un bacio sulla guancia di Reid; “Va bene?” chiese ai due porgendo la fotocamera a Madison che si era sciolta dalla posa assunta.
    “E’ perfetta, grazie”. La donna fece un cenno con la mano e tornò a sedersi.
    “Andiamo via?” propose Madison mentre rimetteva la fotocamera dentro la pochette.
    “Ma io sono in macchina con Derek”
    “Non credo che ti convenga aspettarlo. Ti darò un passaggio io”. Poi uscirono insieme dal locale e si avviarono verso il corso principale.
    “Ho davvero una gran fame” disse Madison mentre passeggiavano. “Ho voglia di dolci” aggiunse dopo una breve pausa di riflessione.
    “Mmm, ci dovrebbe essere un bar aperto tutta la notte a pochi isolati di qui, se vuoi, ci andiamo” le propose Spencer, Madison annuì entusiasta e lo prese a braccetto.

    “Secondo te passeranno la notte insieme?” domandò Spencer all’amica pentendosi quasi subito di averlo fatto mentre aspettavano le loro ordinazioni seduti ad un tavolino. Madison fece spallucce. “Può darsi, chi lo sa”
    Nel frattempo, la cameriera posò sul tavolino due fette di cheesecake al cioccolato guarnito con sciroppo di fragole.
    Madison prese la forchetta e l’affondò subito nel dessert. “Gnam! E’ squisito” esclamò dopo aver dato il primo morso.
    Spencer le sorrise, sembrava una bambina in quel momento. “Certe volte mi chiedo come faccia, io non ci riesco” disse il giovane, Madison gli domandò se stesse sempre parlando di Derek e il suo vicino annuì.
    Madison posò la forchetta abbandonando per un attimo lo squisito dessert. “Spencer, prima hai avuto la dimostrazione che anche tu fai colpo! E chissà quante volte sarà successo senza che tu te ne accorgessi”
    Notò l’espressione poco convinta dell’amico che continuava a giocare con il proprio cheesecake, allora si alzò e si sedette accanto a lui, che abbassò la testa evitando di guardarla negli occhi.
    “Hey, guardami”, Spencer si girò e Madison le mostrò la fotografia che aveva scattato prima al locale.
    “Guardati! Sei carino e hai davvero un bel sorriso, più bello di quello di Derek” gli disse, non stava mentendo, lo pensava veramente.
    Spencer arrossì, non riceveva un complimento dai tempi delle telefonate con Maeve, ricordo che lo rattristì, ma preferì fare finta di nulla. Non voleva parlarne con Madison in quel momento.
    “Anche tu sei molto bella”. Le fece un complimento a sua volta.
    “Ma quello lo sapevo già” lo scherzò lei, tornando a sedersi al suo posto. “Ora possiamo goderci questa delizia senza farci più ingrippi mentali?”.
    Spencer annuì divertito e promise che avrebbe fatto del suo meglio, poi prese la forchetta e assaggiò il dolce. “Hai ragione, è buonissimo!” esclamò deliziato. “Dobbiamo ordinare assolutamente un'altra fetta”
    Convennero entrambi che quello era il cheesecake più buono di sempre, e che quel bar d’ora in avanti sarebbe diventato il loro preferito. “Sarà il nostro posto” disse Madison mettendogli un abbraccio attorno al collo mentre uscivano dal locale, e infine s’incamminarono verso casa insieme.


    “Per il piacere di uccidere (parte 1)”



    “Che diavolo di suoneria hai?” domandò Paget a Derek mentre questi con gli occhi ancora chiusi cercava il cellulare tastando il comodino. “Rispondi, ti prego” lo esortò la donna; la mattina era il momento della giornata che odiava di più ed essere svegliata da una suoneria improbabile non lo rendeva di certo migliore.
    Avevano passato una magnifica notte insieme e Derek progettava di passare un’altra magnifica mattinata, ma quella chiamata di sabato mattina aveva rovinato i suoi piani. Aprì gli occhi rassegnato e si alzò di controvoglia offrendo lo spettacolo di se stesso con indosso soltanto i boxer a Paget che in quel momento pensò che forse quella mattina non era poi così male.
    “Agente Morgan” rispose serio l’uomo di colore dopo che riuscì a trovare il cellulare nascosto sotto i suoi stessi vestiti. “Arrivo”. Riattaccò e iniziò a vestirsi. “Hey, cosa fai? Mi piaceva guardarti” affermò la mora mordendosi un labbro.
    “Mi dispiace, piccola. Ma devo scappare”. Finì di vestirsi e lanciò un bacio in direzione di Paget che continuava a lamentarsi.
    “Chiamami!” urlò lei per poi tornare a sonnecchiare mentre l’agente Morgan usciva dalla casa della sua nuova conquista.

    Le porte dell’ascensore si aprirono su un’open space vuoto e silenzioso, Morgan gettò un’occhiata verso l’ufficio di Hotch e notò la figura del loro agente supervisore china sulla scrivania. In quel momento le porte dell’ascensore si aprirono nuovamente, erano Reid e l’agente Rossi. “Fatto le ore piccole ieri?” domandò l’agente di origini italiane notando l’espressione assonnata dell’agente di colore che annuì. “Una notte senza precedenti, ma forse non sono stato il solo” aggiunse, indicò Spencer e fece l’occhiolino a Rossi che rise guardando il dottor Reid che arrossì violentemente e scappò dicendo ai due che aveva bisogno di una tazza di caffè.
    “Reid, che ti prende? Scappi?” domandò Morgan seguendolo in cucina. “No, nulla. Volevo il caffè, vedi?” indicò la tazza e cominciò a sorseggiare il caffè che era bollente e gli bruciò la lingua.
    Derek rise. “Dalla tua reazione sembrerebbe il contrario. E in ogni caso sei sparito ieri sera, non che non mi abbia fatto piacere, se mi capisci… -fece una breve pausa e Spencer annuì- ma mi chiedevo che fine avessi fatto”
    Reid posò la tazza sul tavolino. “Siamo andati via, abbiamo mangiato del cheesecake e siamo tornati a casa. Tutto qui”
    “Tutto qui?” domandò poco convinto l’uomo di colore fissando l’amico per cercare di capire se mentiva. Il dottor Reid fece spallucce e ribadì quanto aveva riferito.
    “La richiamerai?” gli domandò Spencer mentre si recavano nell’0pen space. “Penso di si, mi piace Paget”
    “Ragazzi, dobbiamo correre in sala riunioni, Hotch e JJ sono già lì” li informò Rossi interrompendo la loro conversazione.
    Penelope fece il suo ingresso in sala riunioni sfoggiando un vestito di un insolito colore giallo e con fiore abbinato fra i capelli. “Allora, queste sono le foto che sono state scattate poco fa della polizia di Las Vegas. Io mi rifiuto di guardarle” dichiarò rimanendo sempre di spalle al proiettore.
    “Sono stati trovati tre corpi finora. Abby Brooks, 35 anni, insegnante nella scuola elementare O’ Roarke di Las Vegas, Mark Humphrey, 53 anni, cardiologo nell’ospedale Sunrise della città e Jonathan Ramirez, 27 anni, cameriere in uno dei tanti casinò” introdusse il caso JJ mentre scorrevano le immagini sul proiettore.
    “La vittimologia è confusa. Queste persone non sembrano avere nulla in comune, se non la città di residenza” commentò Reid, leggendo velocemente le informazioni ricavate sulla vita delle tre vittime.
    “Sembra che vengano scelte a caso. Quindi lo scopo potrebbe essere uccidere per il piacere di farlo?” ipotizzò il giovane.
    “Può darsi. Del modus operandi che sappiamo?” domandò Rossi. “Annie Brooks è stata uccisa con un colpo di pistola alla tempia dopo essere stata torturata e picchiata, riportava segni di bruciature di sigaretta, nonché lividi, su tutto il corpo, specialmente sui seni” illustrò JJ mostrando lei le immagini del corpo deturpato di Brooks. Garcia fece un’espressione di disgusto e uscì dalla sala.
    “Mark Humphrey è morto dissanguato dopo che si è amputato un braccio” continuò la bionda, stava per terminare la propria narrazione con il caso di Ramirez quando Derek la interruppe.
    “Aspetta, si è amputato un braccio?” domandò l’agente Morgan con evidente stupore, JJ annuì e spiegò che era stato dedotto dal medico legale dopo aver considerato l’angolazione con cui era stata compiuta l’amputazione.
    “Questo è pure sadismo. Magari la vittima sperava che amputandosi il braccio sarebbe riuscito a fuggire?” suggerì Blake dopo una breve riflessione, ipotesi che sembrò trovare l’accordo dei suoi colleghi.
    “Infine Jonathan Ramirez è morto per asfissia. È stato soffocato con una busta di plastica, come potete vedere. Il medico legale nel rapporto ha aggiunto che non ha rilevato alcun segno di tortura sul corpo” terminò il proprio racconto JJ.
    Reid rabbrividì. “A parte Ramirez, le altre due vittime sono state evidentemente uccise da un soggetto violento, che prova piacere nell’infliggere dolore. Ma qualcosa mi dice che non si tratti della stessa persona. La prima vittima è stata torturata, mentre la seconda è stata costretta ad auto infliggersi dolore. L’SI in quel caso era spettatore e carnefice, mentre nel primo caso era solo il carnefice” espose la propria tesi il giovane agente.
    “Non può trattarsi della stessa persona. Anche il modo in cui è stato uccisa la prima vittima è strano; un colpo di pistola è molto impersonale, dopo una simile tortura. Come se provasse piacere nella tortura, ma non nell’uccisione in sé e per sé. Invece la seconda vittima si è spenta poco a poco e se la teoria di Reid è valida, molto probabilmente l’SI era rimasto lì a guardarla.” dedusse Rossi.
    “Quindi siamo di fronte a trio di assassini?” domandò JJ stupita.
    “E’ probabile. Decolliamo fra un quarto d’ora” annunciò Hotch.


    “I nostri assassini sembrano invece avere un punto d’accordo nel modo in cui si sbarazzano dei corpi. Tutte e tre le vittime sono state rinvenute nella propria auto nel posto in cui sono state viste vive per l’ultima volta questa mattina” spiegò Rossi mentre erano seduti sui divani del jet privato diretto a Las Vegas.
    “Quindi i nostri assassini le catturano e una volta uccise le riportano nel luogo della cattura. Dove sono state trovate le vittime?” chiese Hotch a Garcia che era in collegamento con loro.
    “Ramirez nel parcheggio del casinò dove lavorava, Brooks fuori da un supermercato, dentro la sua auto sono state trovate le buste della spesa, e infine Humphrey è stato trovato fuori da un teatro. E’ stato rinvenuto un biglietto dello spettacolo “Madame Bovary”, attualmente in scena nel teatro e opera che io detesto, a dire il vero non sopporto proprio quel tipo di..”
    “Garcia” la richiamò Hotch distogliendola dal suo monologo. “Scusi signore. Dicevo che è stato trovato un biglietto nella sua giacca” concluse la donna. “Secondo le dichiarazioni dei parenti delle vittime, Brooks era solita fare la spesa il venerdì dopo il lavoro, usciva ogni giorno alle 18,30, ma ieri dei colleghi hanno riferito che è rimasta almeno fino alle venti in ufficio, mentre Ramirez aveva finito il proprio turno di lavoro alle 22,30 e lo spettacolo di Humphrey era finito alle 21,40” lesse Blake.
    “Bene, Garcia fatti mandare le registrazioni possibili dei luoghi del ritrovamento e analizzale, magari riusciamo ad individuare qualcosa di strano.” ordinò Hotch all’analista informatica che si mise subito al lavoro.
    “JJ dovrai parlare con i parenti delle vittime, chissà che loro non sappiano qualcosa di più che magari è sfuggito in un primo colloquio” disse Hotch, la donna annuì.
    “Reid e Rossi, voi due andate dal medico legale, mentre Morgan e Blake andranno sulla scena del ritrovamento del corpo. Cominceremo dalla prima vittima” finì di smistare i propri agenti e rimase in silenzio.
    Un brutto presentimento s’insinuava nella testa dell’agente supervisore della B.A.U.

    Nel frattempo, lontano dalla squadra della B.A.U e dagli oscuri pensieri che si facevano strada nella mente di Aaron Hotchner, la dottoressa Thompson si versava una tazza di caffè. Si era svegliata da poco, quella mattina era intenzionata a fare un po’ di jogging; la corsetta del giorno del temporale con il suo vicino l’aveva messa di fronte alla consapevolezza che era decisamente fuori allenamento quindi doveva assolutamente rimediare.
    Aveva appena finito di cambiarsi quando il citofonò suonò. “Chi è?” chiese con stupore, non riceveva molte visite nel suo appartamento.
    “Sono Paget, Thompson. Mi apri?” rispose l’amica mora con la sua solita voce squillante. “Subito” e premette il tasto per l’apertura del citofono.
    Qualche minuto più tardi, l’amica entrò nell’appartamento e saltò sulla poltrona. “Io adoro i tuoi amici” esclamò una volta ottenuta l’attenzione totale di Madison.
    “Nottata piacevole?” dedusse Madison dato l’entusiasmo percepibile nella voce dell’amica che annuì.
    “Stamattina però è fuggito di tutta fretta” si lamentò la donna incrociando le braccia per evidenziare la sua delusione.
    “Sarà andato a lavorare. E’ un agente dell’F.B.I., per loro non esistono i festivi” rispose andando in cucina.
    “Vuoi una tazza di caffè?” urlò dalla cucina, Paget accettò e si alzò per raggiungere l’amica.
    “Tu invece che hai fatto? Sei stata con il biondino?” le domandò con un tono leggermente malizioso.
    “No, Paget, non sono stata con il biondino” rispose stizzita la rossa.
    Paget rise e le domandò se per caso aveva lei la sua fotocamera. “Si, si. È qui” confermò Madison e andò a prenderla nella pochette. “Eccola” gliela porse e tornò a sedersi sulla sedia di fronte all’amica.
    “Hai scattato una foto! Sai, siete carini insieme” affermò l’amica guardando la fotografia che avevano scattato i due la sera prima. “C’è qualcosa in ognuno di voi che ricorda qualcosa dell’altro” proseguì concentrandosi sulla fotografia.
    Madison rise. “Come sei poetica” la scherzò, Paget fece una smorfia e mise la fotocamera nella borsa.
    “Credi che mi chiamerà il tuo amico?” le domandò tornando seria.
    “Derek? Perché non dovrebbe?”
    “Non lo so, magari non gli interesso. Tu sei sua amica! Che tipo è? Non è che sei stata insieme a lui, vero?” chiese sporgendosi verso di lei con espressione minacciosa.
    “No, tranquilla. Tra me e Derek non c’è stato mai niente, a parte una sincera amicizia. Ci siamo conosciuti qualche anno fa quando io lavoravo con Derrick” spiegò l’amica.
    Paget sospirò pensando a Derrick. “Ah, l’agente Derrick! Un gran figo”.
    Madison scosse la testa, ammettendo però che aveva ragione. “Dovevi metterti insieme a lui e non insieme a quel bastardo di Van der Meer” sottolineò l’amica che ancora nutriva un profondo odio nei confronti dell’ex fidanzato della giovane dottoressa.
    “Mason è stato un errore” riconobbe Madison, che si era rabbuiata pensando al suo ex. “Ma ormai è tutto passato, e comunque Derrick non faceva a caso mio” ribadì sperando che con quell’affermazione la conversazione si sarebbe conclusa.
    Paget annuì e non disse più nulla intuendo che l’amica non gradiva che s’intraprendesse di nuovo l’argomento.
    “Andiamo a correre?” le propose Madison che non si era dimenticata dei suoi buoni propositi per quella mattinata.
    “Mai!” disse l’amica quasi scandalizzata per la proposta di Thompson.
    “Dai, una passeggiata almeno” insistette la rossa facendo un sorriso che sperava fosse abbastanza persuasivo.
    “Che ne dici di una colazione al bar?” propose a sua volta l’amica, Madison rise e accettò la proposta, dopo tutto non aveva così tanta voglia di correre.

    “Quindi la nostra vittima è stata catturata qui, l’SI probabilmente l’ha sorpresa alle spalle mentre sistemava la spesa nel bagagliaio” ipotizzò Blake imitando il gesto che la donna avrebbe potuto fare prima di venire rapita.
    “Magari l’SI le ha puntato una pistola per costringerla ad andare con loro, forse la stessa con cui è stata uccisa” suggerì a sua volta l’agente Morgan, Blake annuì.
    il cellulare di Morgan prese a squillare, era Garcia con delle informazioni sul caso. “Bambolina, illuminami” disse l’agente una volta risposto al telefono.
    “Cioccolatino, ho qualcosa per te. Dopo aver passato a rassegna le registrazioni dei video sorveglianza del supermercato e del casinò, posso dirti che ho notato qualcosa di strano. Entrambe le vittime sono seguite all’uscita da due uomini che, a mio avviso, sono gli stessi” lo informò Garcia. “Purtroppo nessuna delle due videocamere inquadra il parcheggio, quindi non so dirvi nulla su come sia avvenuta l’aggressione” aggiunse rammaricata.
    “Sei sicura, Garcia?” le domandò Blake dopo averla ascoltata attentamente. “Sicurissima, mia cara agente” affermò l’analista informatica. “Ho già inviato sui vostri tablet i video. Ora continuo le mie ricerche sul teatro. A dopo, amori miei”. Derek riattaccò. “Chiamiamo Hotch” disse alla collega e si mise subito in comunicazione.
    “Hotch , forse sappiamo chi sono due dei tre rapitori” esordì Morgan non appena riuscì a rintracciare Hotch al cellulare mentre Blake guidava il veicolo di ritorno alla centrale.
    “Garcia ha individuato una coppia seguire sia Ramirez che Brooks mentre si recavano alla propria auto. Anche a me sembrano le stesse persone” spiegò Derek che aveva finito di guardare i video.
    “Perfetto, sappiamo altro?” domandò Hotch con tono serio dopo aver appresso le informazioni dei due agenti.
    Morgan rispose che per il momento non sapevamo nient’altro e Hotch riattaccò dopo aver detto loro che li aspettava alla centrale.
    “Agente Hotchner, è arrivata la perizia balistica.” Un agente gli porse una busta gialla e si allontanò lasciando Aaron a leggere il documento.
    “Di che pistola si tratta?” domandò Rossi che nel frattempo era rientrato dalla visita al medico legale insieme a Reid.
    “Sembra una pistola a tamburo dei primi del ottocento” rispose l’agente senza nascondere il suo stupore per la stranezza dell’arma utilizzata.
    “Si tratta del primo “revolver”, fu prodotto da Samuel Colt, che prendendo spunto dalle multicanna “Pepperbox” presentò il brevetto di un’arma “a rotazione del tamburo” nel 1836” spiegò Reid ai due. “E’ da collezione, ricercatissima dai collezionisti moderni e di sicuro molto difficile, penso impossibile, da procurarsi ricorrendo al mercato nero. Gli S.I. dovevano avere a disposizione ingenti somme di denaro e averla ottenuta per vie legali” ipotizzò il giovane.
    “Quindi è un’arma che può essere stata acquistata rivolgendosi ad un collezionista di antiquariato oppure tramite un’asta magari?” domandò Rossi, Spencer annuì dicendo che era un’ipotesi del tutto probabile.
    “Chiama Garcia e dille di cercare se si è tenuta un’asta o se qualche negozio di antiquariato ha venduto una simile arma di recente” ordinò Hotch a Spencer che si allontanò per chiamare l’analista informatica .
    “Dal medico legale cosa avete saputo?” chiese Hotch a Rossi.
    “Non molto. A quanto pare, il medico legale ha rinvenuto del DNA femminile sul corpo di Ramirez, è probabile che abbia un rapporto sessuale prima di morire. Purtroppo non è stato possibile identificare di chi sia il DNA, ma non combacia con quello della fidanzata di Ramirez”
    “Quindi il terzo S.I. potrebbe essere una donna?” dedusse Hotch, l’agente Rossi fece spallucce, quel caso cominciava a diventare complicato.
    “Garcia ha trovato qualcosa!” annunciò Reid tornando dai due. Mise in vivavoce la donna e l’esortò a parlare.
    “Allora la bella pistola che avrebbe sparato a Brooks dal costo di 90.000 dollari sarebbe stata venduta nella casa d’asta Hastings mercoledì pomeriggio, insieme ad una lista di oggetti improbabili e dal valore, a quanto pare, inestimabile” comunicò ai tre. “Hai l’indirizzo?” le domandò Hotch.
    “Si, l’ho inviato ora stesso, chiedete di Ronald Mills”. Chiuse la conversazione e tornò a digitare sulla tastiera.
    “Rossi, Reid andate a parlare con il signor Mills sicuramente avrà una qualche ricevuta della vendita. Magari avremo un nome” disse ai due che uscirono dalla centrale diretti alla casa d’asta Hastings.


    “Certo che ricordo quella pistola” affermò Ronald Mills, il proprietario della casa d’asta, dopo aver inforcato gli occhiali e guardato la fotografia. “E’ valsa alla mia cliente 90.000 dollari, eravamo partiti da un’offerta iniziale di 15.000” aggiunse mentre si dirigeva verso il proprio ufficio seguito dai due agenti.
    “Ricorda a chi l’ha venduta?” domandò Rossi prendendo posto in una delle comode poltrone in pelle vera che arredavano il suntuoso ufficio del signor Mills. “Certo, è quella la parte più curiosa” rispose l’uomo che si versò un bicchiere di scotch, l’offrì anche ai due agenti che però rifiutarono. “Siamo in servizio” si giustificò Rossi.
    “Bene, vi dicevo. Ad avere acquistato la pistola sono due uomini, sui 35 anni presumo. Hanno pagato in contanti e avevano fretta ad impossessarsi della pistola. Uno di loro è rimasto al telefono per tutto il tempo. Credo che non fossero loro i reali acquirenti” spiegò l’uomo, Reid gli chiese se era frequente una simile situazione.
    “Al dire il vero, si. Sa, gli oggetti che noi mettiamo all’asta vengono spesso acquistati da importanti famiglie, i cui patrimoni dovevano essere oggetto di una dichiarazione molto dettagliata, soprattutto perché si tratta oggetti il cui acquisto sarà registrato necessariamente quando compiuto dal proprietario vero, se invece ad acquistare è un’altra persona, l’oggetto non compare e nessuno può ricondurlo al reale proprietario” chiarì l’uomo, seguito attentamente dai due agenti.
    Rossi annuì. “La ringrazio. Sa dirmi il nome del soggetto che ha acquistato la pistola?”
    L’uomo prese un foglio e dopo aver dato una breve occhiata, riferì il nome in questione. “Finn Emerson”
    I due uomini si congedarono dopo aver nuovamente ringraziato il signor Mills.
    “Garcia, abbiamo un nome per te. Finn Emerson” le riferì Reid mentre salivano nuovamente in auto.
    “Perfetto. Vediamo… Finn Emerson” fece una breve pausa “Mmm, mi sa che l’unico modo a vostra disposizione per interloquire con il signor Emerson è tramite una tavola ouija. Emerson è morto cinque anni in un incidente d’aiuto”
    Il dottor Reid la ringraziò e riattaccò. “Hanno dato un nome falso”
    “Prevedibile” affermò Rossi, che si mise in contatto con Hotch per informarlo di quanto appresso.
    “Hotch, mi dispiace, ma è stato un buco nell’acqua. Hanno dato un nome falso alla casa d’asta Hastings” riferì velocemente Rossi.
    “Forse noi abbiamo una pista. Blake ha parlato con un testimone al supermercato, ha detto che le sembrava che i due uomini siano scesi da un furgone bianco” spiegò Hotch. “Ho già chiamato Garcia per dirle di procurarsi le video registrazioni della banca all’angolo della strada, chissà che riusciamo ad individuare il veicolo”
    “Perfetto, teneteci informati. Noi stiamo rientrando in centrale”

    “Garcia ha individuato la targa del furgone tramite le registrazioni messe a disposizione dalla banca. Ci sta mandando i dati” annunciò Blake quando i due agenti rientrarono in centrale.
    “Daniel Smith, 36 anni, originario di Little Rock, Arkansas. Precedenti per rapina a mano armata, estorsione e furti con scasso” lesse JJ. “Un curriculum di tutto rispetto” commentò ironico Rossi.
    “Attualmente abita al numero 17 di Fremont st assieme a suo fratello Timothy di 31 anni “ li informò JJ.
    “Lui ha precedenti?” le chiese Rossi. “A quanto pare è pulito” rispose la bionda dopo una breve occhiata.
    “Andiamo a prenderli” affermò Morgan che fu accompagnato da Rossi.
    “Spencer tutto bene?” gli domandò Blake quando rimasero soli. Aveva notato che il giovane era piuttosto taciturno quando erano arrivati nella città del peccato. “Si, tutto ok. Venire qui ha sempre questo impatto su di me, non è mai facile” le spiegò alludendo al suo passato.
    Blake annuì e gli chiese se ne voleva parlare, Spencer scosse la testa, preferiva evitare di intraprendere quel discorso e andò a versarsi un’altra tazza di caffè.

    “Siete stati ripresi nei video sorveglianza di due posti diversi inseguendo due delle tre vittime ritrovate questa mattina, mentre il vostro furgone compare nella registrazione di una banca vicino al teatro dove è stato visto Humphrey vivo per l’ultima volta, io direi che non è una coincidenza” affermò Morgan con tono sufficientemente serio per intimorire i due uomini.
    “Quindi? Questo è un paese libero” lo sfidò Daniel fissando imperterrito l’agente di colore; il fratello teneva lo sguardo basso e muoveva nervosamente il piede sinistro, comportamento che non sfuggì all’agente Hotchner che osservava l’interrogatorio al di là del vetro.
    “Da Daniel non otterremo molto, l’anello debole è suo fratello”commentò all’agente Blake. “Dobbiamo separarli” suggerì la donna all’agente che entrò nella stanza.
    “Possiamo andare?” domandò Daniel sul cui viso si dipinse un’espressione beffarda.
    “Non ancora, dobbiamo verificare i vostri alibi” lo informò Hotch mantenendo un tono calmo. “Suo fratello però viene con me”
    Timothy sgranò gli occhi e deglutì, il fratello gli mise una mano sulla coscia per incoraggiarlo. “Stai tranquillo, noi non abbiamo fatto nulla”
    “Questo lo vedremo, signor Smith” disse Hotch mentre con suo fratello usciva dallo stanzino.
    “Siete fuori strada se pensate che noi abbiamo a che fare con gli omicidi di questi tre” insistette Daniel quando fu rimasto da solo con l’agente Morgan.
    “Scommetto però che se portiamo una tua foto al proprietario della casa d’asta Hastings verrai sicuramente identificato come acquirente di questa pistola” lo intimidì Derek mostrando una foto dall’arma a Smith che cambiò espressione. “Non avete la pistola. Non potete dimostrare che a sparare sia stato io o mio fratello” si tradì Smith svelando un dettaglio che l’agente non aveva riferito.
    “Io non ti ho mai detto che non avevamo l’arma del delitto” rispose Derek con soddisfazione. A quel punto si alzò e uscì dalla stanza.
    “Non abbiamo niente. Anche se possiamo dimostrare che loro hanno acquistato la pistola, non possiamo dimostrare che abbia sparato uno di loro” disse Morgan a Blake.
    “Con il fratello come sta andando? Hotch ha ottenuto qualcosa?”
    “Niente, per il momento. Hotch prova a metterlo sotto pressione, ma non dice nulla. È muto” le riferì la donna.
    “Ragazzi, venite. Garcia ha trovato un video interessante. Potrebbe essere l’omicidio di Brooks” li richiamò Reid.
    I tre agenti riconobbero subito Abby Brooks, era legata con delle catene che stringevano i piedi e le mani ad una sedia completamente nuda, aveva gli occhi bendati.
    “Ti prego, ho due bambini piccoli. Ti prometto che non dirò nulla. Non mi uccidere” lo implorò la donna fra i singhiozzi. Si sentì la voce di un uomo che rideva dicendole che era troppo tardi per lei, poi apparve un figura nera davanti alla donna che sparò un colpo secco alla tempia. Il video s’interrompeva in quell’istante.
    “Mio dio” disse Blake che si portò una mano alla bocca dopo aver visto la scena. “Dove l’ha trovato?” chiese Morgan al dottor Reid.
    “Stava incrociando dei dati alla ricerca di qualche notizia sugli omicidi ieri notte, quando ha trovato questo. Purtroppo non le è stato possibile rintracciare l’indirizzo ip di chi ha caricato il video, ma ha detto di dare un’occhiata al sito”. Il giovane prese il pc che aveva con sé e digitò l’indirizzo che gli aveva fornito l’analista informatica.
    “E’ una chat?” domandò Blake mentre osservava le scritte comparse sullo schermo. “Commentano l’omicidio. Che cos’è questo “the dying game”?”
    “Chiamo Garcia, vediamo cosa sa dirci” rispose prontamente Morgan.
    “Dolcezza, sapevo che mi avresti chiamato. “The dying game” è un gioco di ruolo terrificante, ispirato al film ‘Hostel’ probabilmente” spiegò la donna prima ancora che Derek potesse chiederle qualcosa.
    “I partecipanti acquistano delle persone per poter fare quello che desiderano, incluso ucciderle. Comprano la loro vita in pratica” continuò la donna.
    “Credevo che queste cose accadessero solo nei film di Tarantino” commentò uno dei poliziotti della centrale che aveva assistito alla chiamata.
    “Hostel, il film a cui si ispira questo gioco, è tratto da una storia vera comunque” disse Spencer attirando su di sé lo sguardo disgustato del poliziotto.
    “Come si partecipa a questo ‘gioco’?” domandò Derek all’analista incerto di poter definire gioco quell’atrocità.
    “I partecipanti acquistano le proprie vittime tramite un sito online, che è stato oscurato momentaneamente, le cifre arrivano a sfiorare anche i 250.000 mila dollari” riferì la donna che continuava a leggere dati sul terribile gioco.
    “Non capisco, che ruolo hanno i fratelli Smith? È evidente che non sia stato uno di loro ad uccidere Abby Brooks e non credo che siano loro ad organizzare questa sorte di olocausto” affermò il dottor Reid evidentemente confuso.
    “Devono lavorare per qualcuno. Forse loro devono incaricarsi di catturare le vittime” ipotizzò Morgan, che interruppe la conversazione con Garcia dicendola di continuare a cercare ulteriori informazioni su “the dying game”.
    Infine si recarono da Hotch e Rossi per riferire gli ultimi agghiaccianti dettagli appresi. Il caso sembrava lontano da una possibile soluzione e la giornata stava volgendo a termine.


    “Per il piacere di uccidere (parte 2)”



    L’agente Hotchner guardava fisso il muro davanti a sé, ripensava alle informazioni ottenute, cercava di assegnare un ruolo ai fratelli Smith in quella strana faccenda, senza successo però.
    Aveva bisogno di un loro aiuto, ma Daniel Smith, il fratello maggiore, si rifiutava di parlare se non fosse stata garantita loro l’immunità mentre Timothy era troppo spaventato per confessare.
    “Dobbiamo metterlo ancora di più sotto pressione. Facciamogli vedere il filmato dell’uccisione di Abby Brooks, magari riusciamo a farlo parlare” suggerì Rossi mentre ricostruiva in mente una possibile dinamica degli omicidi.
    “Hotch, Rossi. Garcia ha trovato un’altra pista” annunciò Blake entrando nella stanza dove i due agenti erano riuniti, Reid entrò mettendo in vivavoce la bionda. “Sei in vivavoce, Garcia” l’avvisò il dottor Reid.
    “Signori” esordì la donna. “Chattando con quelli che erano collegati sul sito, gente davvero malata, se mi permettete, ho scoperto che l’organizzatore sarebbe un certo S.C., lo chiamano “Caronte” anche. Nessuno sa il suo nome però”
    “Caronte?” domandò Rossi non riuscendo a capire cosa c’entrasse il nome del famoso personaggio di Dante.
    “Si, come Caronte, lui traghetta le vittime verso l’Inferno, o almeno così lo hanno descritto” spiegò.
    “Azzeccato, direi” fu il commento del dottor Reid. “Bene, cerca altre informazioni su questo S.C., noi intanto vediamo se il nome di questo soggetto ricorda qualcosa ai fratelli Smith” le ordinò Hotch, l’analista informatica disse che avrebbe fatto del suo meglio e riattaccò.
    “Andiamo a parlare con Timothy” disse a Rossi che lo seguì nello stanzino degli interrogatori mentre il dottor Reid rimase fuori ad ascoltare l’interrogatorio assieme ad Alex.
    “Smith, abbiamo qualcosa da farti vedere” gli disse Rossi, dispose il portatile davanti al sospettato e aspettò che si avvisasse il filmato dopo aver premuto il tasto play.
    La reazione del minore dei fratelli Smith fu esattamente quella che i due agenti si aspettavano: Timothy si portò la testa fra le mani e scoppiò in singhiozzi quando il filmato si concluse. “Che cosa ho fatto?” ripeté più volte.
    “Timothy, se collabori, ti promettiamo che faremo qualcosa per te. Ma devi dirci chi c’è dietro tutto questo” lo rassicurò l’agente Hotchner, dalla reazione dell’uomo si capiva che voleva uscire da quella terribile situazione.
    “Se io ve lo dico, lui mi ucciderà. Conosce troppe persone”
    “Avrai la nostra protezione” affermò Rossi per invogliarlo a parlare. Il giovane si lasciò sfuggire una risatina isterica. “E quando sarò dentro? Come vi proteggerete?” chiese ai due agenti. “Mi dispiace, io non vi dirò niente”
    “Timothy, so che tu non volevi che succedesse nulla di tutto questo. Lo vedo nei tuoi occhi, ma se ti ostini a non parlare, questo gioco-fece una pausa per vedere la reazione del giovane che trasalì- non avrà mai fine e altre persone moriranno. È questo che vuoi?” provò a convincerlo l’agente supervisore della B.A.U., il giovane fece un respiro profondo che fece capire ai due che era pronto a parlare.
    Iniziò il proprio racconto con la voce e le mani tremanti. “Noi dovevamo catturare le vittime. Non avevamo idea di cosa facessero con loro, pensavamo che volessero solo spaventarle oppure avere rapporti sessuali con loro” fece una breve pausa per riprendere fiato. “Io avevo bisogno di soldi e Daniel mi disse che così avrei risolto tutti i miei problemi. Dovevo solo guidare, lui catturava”
    “Quando capii cosa c’era dietro, provai a tirarmi fuori, ma lui mi disse che ormai era troppo tardi, sapevo troppo, capite? Ero senza via d’uscita” urlò Timothy disperato senza smettere di singhiozzare.
    “Lui chi?” gli domandò Rossi, l’uomo scosse la testa, non lo poteva dire.
    “E’ S.C.?”, al sentire quelle iniziali l’uomo alzò la testa e guardò i due agenti. “Voi non sapete con chi avete a che fare” provò a intimorirli.
    “Credimi, è lui che non sa con chi ha a che fare” rispose Rossi, mentre Aaron fissava il giovane con espressione seria. “Dì il suo nome, ci penseremo noi”
    Timothy rimase in silenzio per qualche secondo. Gettò un’occhiata all’ultimo fotogramma dell’atroce filmato e infine parlò. “Si chiama Scott Cusack, è lui che organizza tutto mentre i suoi uomini scaricano i corpi. Per questo non sapemmo da subito cosa succedesse una volta che consegnavamo le vittime. Lo abbiamo capito guardando il telegiornale” confessò l’uomo.
    “Dove possiamo trovarlo?”
    “Non lo so, io non ci ho mai parlato. Era mio fratello a fare tutto. Mi aiuterete, vero?” li implorò Smith prima che i due uscissero dalla stanza.
    “Faremo il possibile” disse Rossi e uscì dalla stanza lasciando l’uomo da solo che si abbandonò ad un lungo pianto.
    Hotchner si diresse verso la stanza dell’interrogatorio dove veniva torchiato Daniel dall’agente Morgan da oltre mezz’ora. “Sappiamo tutto di Scott Cusack, ti conviene parlare” interruppe Hotch irrompendo nella stanza.
    Sul volto di Daniel si dipinse un’espressione di odio. “Quell’idiota ci farà ammazzare” urlò scattando in piedi e riferendosi al fratello minore.
    “Daniel, ti conviene calmarti. Non costringerci a fare qualcosa di brutto” lo minacciò Morgan.
    Daniel si risedette. “E quale sarebbe la differenza? Credi che Cusack sarà meno clemente? Forse mi conviene farmi uccidere da voi”
    Hotchner si sedette davanti a lui e lo costrinse a guardarlo. “Dove possiamo trovarlo?” ripeté la domanda fatta già al fratello Timothy.
    “Anche se riuscirete a trovarlo, non potrete fermarlo. Troppe persone sono invischiate per lasciarvi indagare. I pezzi grossi vi fermeranno subito” riferì l’uomo.
    “Sono invischiati dei politici nella faccenda?” domandò Hotchner. L’uomo annuì e disse loro che coinvolgeva gran parte della società bene di Las Vegas.
    “Dicci dove possiamo trovarlo, ci pensiamo noi al resto” lo invogliò Hotch.
    “Se ve lo dico, tirerete fuori dai guai mio fratello? Lui non c’entra nulla, io mi assumo tutta la colpa” richiese Smith in cambio dell’informazione. “Parlerò con il procuratore. Hai la mia parola” garantì Hotch, certo che avrebbe incontrato l’appoggio del procuratore Richardson.
    “Uno dei suoi scagnozzi gestisce un casinò sul boulevard. Tutte le notti organizza un torneo di poker, lo troverete certamente, ma non arriverete a lui facendo irruzione, scapperebbe molto prima che voi possiate mettere piede nel casinò. Per potergli parlare dovrete giocare con loro” suggerì Smith, poi diede il nome del casinò e i due agenti si congedarono promettendogli che avrebbero fatto il possibile perché il fratello venisse liberato.
    “Reid, stasera dovrai giocare” lo informò l’agente Hotchner dopo che riferì quanto confessato da Smith.
    Il dottor Reid deglutì. “Io? Scherzate vero?”
    Hotch spiegò che avrebbe dovuto garantirsi di giocare con lui faccia a faccia, quindi serviva qualcuno che sapesse giocare.
    “Hai anche l’accento del posto, questo faciliterà la tua copertura” aggiunse.
    “JJ sarà il tuo portafortuna” gli disse Rossi che concluse la spiegazione dell’operazione informando che anche lui e Morgan sarebbero entrati nel casinò fermandosi nel bar mentre Blake e Hotch assieme ad una squadra di SWAT avrebbero aspettato nel retro del casinò nel caso qualcosa fosse andato storto.
    Reid sospirò e annuì. “Posso farcela, o almeno lo spero”
    Stilarono gli ultimi dettagli dell’operazione, ultimando la copertura tanto di Reid quanto di JJ e partirono alla volta del casinò in una berlina nera.
    “Sei nervoso?” gli domandò JJ mentre Reid guidava in direzione del casinò. Reid si voltò verso di lei e non proferì parola. “Ok, sei nervoso” dedusse la bionda. “Andrà tutto bene, sei un genio. Il poker non sarà un problema” lo rassicurò poi.
    Arrivati al casinò, consegnarono le chiavi dell’auto ad uno dei parcheggiatori e fecero il loro ingresso. Mentre Morgan e Rossi arrivarono dieci minuti più tardi come progettato. “Abbiamo individuato il gruppo di scommettitori” informò JJ ai due tramite un microfono nascosto.
    Come stabilito, JJ si avvicinò a questi. “Vorremmo giocare” affermò la donna mettendo in mano ad uno di loro 25.000 dollari, la cifra minima per accendere al tavolo.
    L’uomo passò la mazzetta al suo compare, che annuì sottintendo che si trattasse di soldi veri dopo averli esaminati. Gettò un’occhiata ai due agenti, soffermandosi sulla scollatura di JJ, che strinse la mano di Reid per assicurarsi che mantenesse la calma. “Chi gioca dei due?”
    “Lui è il genio. Io sono il suo portafortuna” rispose maliziosa e fece un occhiolino all’uomo che con un gesto della mano li invitò ad accomodarsi al tavolo.
    “Chi abbiamo qui?” domandò un uomo dai capelli brizzolati ben vestito, puntò gli occhi celesti sulla coppia e chiese informazioni ad uno dei suoi uomini. JJ dedusse che doveva essere Scott Cusack, e gli sorrise.
    L’uomo annuì alle parole dell’uomo e poi si rivolse alla coppia. “Benvenuti. Iniziamo?”
    I partecipanti annuirono e le carte furono distribuite. L’aria si fece tesa, JJ scrutava l’ambiente alla ricerca di una via d’uscita nel caso la situazione fosse precipitata, mentre Spencer si concentrava sulla partita tentando di pensare il meno possibile alla sua condizione. Gli sudavano le mani, costrinse sé stesso a non perdere il controllo, era indispensabile ai fini della riuscita del piano che arrivasse in fondo alla partita.
    Man mano che il gioco procedeva, i partecipanti abbandonarono la partita e il tavolo finché non rimasero Spencer e Cusack, come progettato.
    “Adesso siamo solo io e te” disse Cusack per mettere pressione a Reid che deglutì.
    Il dottor Reid si fece coraggio e spostò tutte le fiches in avanti. “All in”
    Cusack si abbandonò ad una leggera risata. “Coraggioso” mosse anche le sue fiches e scoprì le proprie carte, certo di aver vinto. “Scala reale”
    “Mi dispiace, piccola” disse rivolgendosi a JJ che sgranò gli occhi, Cusack rise. A quel punto Spencer scoprì le carte, mostrando una scala a colori minima che batté la scala reale di Cusack, il quale rimase a bocca aperta, mentre JJ tirava un respiro di sollievo.
    “Complimenti” disse l’uomo dopodiché chiamò uno dei suoi uomini. “Accompagna i vincitori nel mio ufficio” gli ordinò, l’uomo annuì. Spencer e JJ balzarono in piedi, quella mossa non era stata prevista. Avrebbero dovuto improvvisare.
    “Il suo ufficio? Signore, quale onore ci riserva” disse JJ per dare un segnale a Morgan che lanciò un’occhiata a Rossi, era il momento di entrare in azione.
    I due si mossero lentamente, cercando di non dare troppo nell’occhio, pagarono il conto del bar e infine si diressero verso l’ingresso del privè dove si teneva il torneo, dopo aver informato Hotchner del cambio di piano.
    “Dovremmo vedere i nostri amici” comunicò Rossi alla guardia del corpo di Cusack.
    “Non credo sia possibile” rispose l’uomo mantenendo ferma la sua posizione.
    “Io invece dico di si” affermò Morgan poi lo atterrò con un colpo alla nuca, stendendo l’uomo che cadde in avanti svenuto.
    Il colpo sferrato da Morgan non sfuggì al secondo scagnozzo di Cusack che sguainò la pistola, puntandola verso JJ. “Fate un passo e la vostra amica è morta” minacciò Cusack.
    “Io non ne sarei così sicura” affermò JJ che colpì l’uomo con una gomitata allo stomaco, questi perse l’equilibrio e lasciò cadere la pistola che fu presto raccolta da Spencer, Cusack sparò un colpo in aria per attirare l’attenzione dei suoi uomini che si precipitarono nella stanza, e approfittando della distrazione dei federali tentò la fuga, che fu bloccata sul nascere dalla squadra di SWAT che entrò nella stanza seguito da Hotchner e dal capo del distretto di polizia.
    “Sei circondato, Cusack, ti conviene costituirti” gli disse Hotchner.
    L’uomo alzò le mani e fu presto ammanettato dal poliziotto, in seguito fu scortato in centrale dove ebbe inizio il suo interrogatorio.

    “Vi darò tutti i nomi che volete. Ma prima dovete garantirmi l’immunità” affermò Cusack con espressione beffarda.
    Morgan s’infuriò e scattò in piedi, Hotch lo fermò mentre il criminale rideva della reazione dell’agente.
    “Ne riparleremo più tardi” disse Hotchner e uscì dalla stanza portandosi con sé Morgan.
    “Dammi il via e ti giuro che lo faccio a pezzi” esclamò l’agente di colore guardando dentro la stanza.
    “Non sarà necessario. Possiamo incriminarlo grazie alla confessione dei fratelli Smith, al procuratore basterà” rispose l’agente Hotchner senza tuttavia placare la rabbia di Morgan.
    “Garcia ha trovato uno stabilimento a nome di Cusack, abbiamo inviato una squadra per verificare se quello è il luogo della casa delle torture” annunciò Rossi.
    I due agenti annuirono. “Dobbiamo avere i nomi, Hotch” insistette Morgan.
    L’agente supervisore si sedette nell’ufficio assegnatogli e si posò il mento fra le mani. “Se gli concediamo l’immunità, sarà liberato e uscirà da quest’ufficio come se nulla fosse successo”
    “Ma i nomi ci servono. Qualcuno dovrà rispondere dei tre omicidi” commentò Blake. “Controlliamo movimenti dei principali politici e impresari di Las Vegas” suggerì Reid.
    “Non possiamo farlo senza un mandato” fece presente Hotchner.
    Morgan fece spallucce. “Facciamoglielo fare a Garcia”
    “Non possiamo. Si tratta di facoltosi uomini di affari, avranno i migliori avvocati dalla loro parte, non potremo nemmeno trattenerli quando verranno a scoprire il modo in cui ci siamo procurati le prove incriminanti” chiarì Hotch.
    “Incastriamoli per qualcos’altro. Magari portandoli in centrale, Smith li potrà riconoscere e avremo un testimone” suggerì Rossi. Hotch si trovò d’accordo con la proposta dell’anziano agente e diede ordine all’analista informatica di mettersi al lavoro.
    Nel frattempo l’agente Hotchner andò a parlare con il procuratore per negoziare la libertà del fratello minore di Daniel, Timothy Smith. Non potevano fare nulla per il momento se non aspettare notizie da Penelope e sperare di aver qualcosa su cui lavorare dopo.
    Morgan assieme a JJ e Blake andarono a prendere qualcosa da mangiare, invitarono anche Rossi e Reid che rifiutarono l’invito dicendo che preferivano ritirarsi in albergo.
    Reid entrato nell’albergo si fece una lunga doccia, aveva bisogno di rilassarsi; era stata una missione piuttosto impegnativa, quella che l’aveva visto protagonista nelle ore precedenti.
    Era in piedi davanti alla finestra che fissava il viavai instancabile di turisti che da sempre contraddistingueva Las Vegas quando il suo cellulare iniziò a squillare.
    Rispose alla telefonata senza controllare chi fosse. “Pronto”
    “Spencer? Sono Madison. Tutto bene?” domandò la rossa, qualcosa nel tono dell’amico le suggerì che qualcosa non andava.
    “Al dire il vero no” rispose sincero. Aveva bisogno di sfogarsi e quella chiamata cascava a pennello.
    Spencer le raccontò del caso e dell’operazione che avevano condotto, mentre l’amica lo ascoltava attentamente.
    “Mio dio, ma è orribile” esclamò Madison dopo che Reid concluse il suo racconto. “Quei bastardi non la devono passare liscia” aggiunse.
    Spencer sospirò. “Non so se sarà così semplice” le confessò lui, l’esperienza acquisita nei suoi anni di lavoro gli aveva insegnato che i soldi possono coprire ogni cosa.
    “Troverete un modo” disse l’amica per incoraggiarlo, Spencer a quel punto le disse che era parecchio stanco e che aveva bisogno di dormire, si scusò con la giovane che lo rassicurò ancora una volta dicendo che sarebbe andato tutto bene, infine riattaccò e cadde immediatamente addormentato sul letto.

    La mattina dopo Hotch comunicò a suoi agenti che Garcia era riuscita ad individuare tre persone della società bene di Las Vegas, il cui alibi per la notte dell’omicidio era piuttosto incerto, e che erano state attirate in centrale con l’accusa di frode al fisco.
    “Sono Paul Steward, futuro candidato del partito democratico al congresso, Grace Keller, una delle donne più potenti di tutta Las Vegas, possiede alcuni degli hotel più lussuosi della città e Colin Lee, uno dei principali azionisti della Chrysler” riferì Hotcher.
    In quel momento uno dei poliziotti del distretto annunciò che i tre sospettati erano arrivati in centrale scortati dai loro avvocati, Spencer si affacciò per vedere in faccia i responsabili di quella strage e fu allora che vide qualcosa che lo lasciò senza parole.
    “Papà” farfugliò dopo aver visto su0 padre seguire il suo cliente Paul Steward. “Che ci fa lui qui?”
    “Reid, tuo padre è un avvocato. Cosa che vuoi ci faccia qui? Una partita a guardie e ladri?” rispose l’agente Morgan c0n tono sarcastico.
    Reid lo ignorò e si diresse verso suo padre. “Non vorrai sul serio difendere un assassino?” lo incalzò apparendo davanti a lui e indicando Steward che si girò verso il giovane rivolgendogli un’occhiata di disprezzo.
    “Reid, faccia presente all’agente che io non sono un assassino” disse al suo avvocato, William Reid deglutì e prese per il braccio il figlio. “Spencer, non scelgo io chi difendere” chiarì l’uomo sperando invano che suo figlio fosse comprensivo. “La tua posizione non cambia. Puoi sempre rifiutare” ribadì freddo Spencer svincolandosi dalla presa di suo padre.
    Suo padre scosse la testa di fronte alla reazione del figlio. “Credi che sia così facile?”
    “Si, lo è. Sai a volte ti penso e per qualche minuto mi viene voglia di chiamarti per chiederti come stai, ma poi mi vengono in mente tutte le tue mancanze di questi anni e mi rendo conto che chiamarti non ha proprio senso.” Quelle parole ferirono suo padre che per qualche secondo vacillò.
    “Se considero poi che ogni volta che ti incontro, mi dai un motivo in più per tenerti fuori dalla mia vita, beh a questo punto, sto decisamente meglio senza di te”.
    Detto ciò, Spencer se ne andò senza dare il tempo al padre di replicare, William provò ad andargli incontro ma l’agente Rossi lo richiamò dicendogli che il suo cliente si rifiutava di iniziare l’interrogatorio senza il suo avvocato, l’uomo annuì, fece un respiro profondo e seguì l’agente Rossi.

    Spencer uscito di corsa dalla centrale di polizia andò nell’unico posto dove in quella città poteva sentirsi al sicuro, ma soprattutto dall’unica persona che in tutta la sua vita, nonostante tutti gli spiacevoli momenti, lo aveva fatto sentire al sicuro: sua madre.
    Entrò nella clinica che ospitava sua madre da oltre un decennio e aspettò che un’infermiera lo accompagnasse dalla loro degente. “Spencer, che piacere vederti! Era da un po’ che non ci facevi visita, vero?” esclamò lo psichiatra di sua madre, Wyatt Crossman. “Salve, dottor Crossman. In effetti è un po’ che non vengo..” mormorò, non aveva molta voglia di conversare con lo stimato psichiatra, voleva solo parlare con sua mamma.
    “Ti accompagno io da Diana” gli disse l’uomo mettendo un braccio sulle spalle. “Sai, tua madre ha trovato un ottimo passatempo: scrivere. Ha riempito un sacco di quaderni ormai, io sono curioso di sapere cosa scrive, ma non lo vuole far vedere a nessuno” gli raccontò mentre raggiungevano la sala comune dove i pazienti trascorrevano la loro giornata impegnati in diverse attività.
    Spencer sorrise, gli fece piacere sapere che sua madre aveva ritrovato la voglia di scrivere come un tempo; erano anni che non scriveva nulla, a parte le lunghe lettere che erano soliti scambiarsi. “Vediamo se io riesco a leggere qualcosa” disse al dottor Crossman.
    “Eccola” affermò lo psichiatra avvicinandosi alla donna che era di spalle seduta su una sedia a dondolo guardando fuori la finestra. “Guardi, chi è venuto a trovarla” annunciò alla signora Reid che nel voltarsi s’illuminò vedendo il figlio.
    “Spencer!” lo chiamò, si alzò in piedi, ma il suo figlio la trattenne. “Stai pure seduta”
    “Bene, io vi lascio. Ci vediamo più tardi, signora Reid. Arrivederci Spencer” li salutò il dottore, Spencer ricambiò e avvicinò una sedia per stare accanto a sua madre.
    “Ti trovo meglio” disse alla madre che lo guardava senza smettere di sorridere. Era sempre felice quando Spencer veniva a trovarla; i giorni in quel luogo trascorrevano molto lentamente ed erano sempre contraddistinti da una stancante monotonia. Le visite del figlio, per suo spiacere poco frequenti, la rallegravano, erano il suo modo di ricordarle che fuori da quella clinica, che era ormai diventata la sua casa, esisteva un mondo e qualcuno che l’aveva a cuore. “Il dottor Crossman mi ha detto che hai ripreso a scrivere”
    Diana annuì e si sporse verso il figlio per sussurrarle qualcosa all’orecchio. “Lui è molto curioso, sbircia sempre quando passa davanti ai fogli. Io non voglio che legga”
    Spencer rise per quell’atteggiamento più adatto ad una cospirazione che ad una banale confessione.
    “Comunque si tratta di un romanzo” gli disse la donna tornando a comportarsi normalmente.
    “Di che parla?” domandò curioso Spencer. Ricordava ancora come fosse ieri i giorni trascorsi sul lettone di sua madre a leggere qualsiasi genere di storie, a parlare per ore; spesso sua madre le raccontava storie inventate che lo vedevano come protagonista, avventure ambientate in luoghi inesistenti, ricchi di storia e di emozioni.
    “Parla di un bambino prodigio e di una mamma un po’ problematica” gli rispose scombinandoli i capelli castani come quando era piccolo. Spencer sorrise, avrebbe dovuto intuire che si trattava di una storia che parlava di loro.
    Sua madre non poté fare a meno di notare che il figlio aveva un’aria triste. “Cosa hai Spencer?”
    Spencer provò a parlare, ma gli si formò un grappolo in gola che glielo impedì. Improvvisamente sentì il respiro bloccarsi e gli occhi inumidirsi, provò a ricacciare indietro le lacrime ma non ci riuscì. Si buttò tra le braccia di sua madre, che senza esitare lo strinse, e pianse tutte le lacrime che da tempo reprimeva.
    Pianse per suo padre, per Maeve, anche per sua madre, ma soprattutto per se stesso. Si sentiva sconfitto, solo, per la prima volta in tutta la sua vita nemmeno sua madre riuscì a colmare quel vuoto che lo divorava.
    “Perché deve essere tutto così difficile?” domandò a Diana fra le lacrime, la donna inevitabilmente si commosse nel vedere suo figlio così indifeso e vulnerabile.
    “Bambino mio, si sistemerà tutto. A tutto c’è un rimedio” lo incoraggiò sua madre. Prese il suo viso fra le mani e con i polpastrelli delicatamente asciugò le lacrime calde che scivolavano lungo il viso. “Ti manca tanto?” chiese sua madre alludendo a Maeve, di cui sapeva tutto. Suo figlio spesso gli aveva scritto di lei e della loro storia che sua madre aveva paragonato alla tragedia di Romeo e Giulietta.
    Spencer annuì, ma disse che non era solo per lei che si sentiva così triste, le raccontò dell’incontro con William e di quanto gli facesse male ogni volta vederlo.
    Diana sospirò, sapeva che per il figlio suo padre era una ferita inguaribile e si sentiva colpevole di non aver potuto far nulla per aiutarlo a superare la sua perdita, o per impedirla.
    “Io volevo soltanto che mi volesse bene” confessò Spencer tirando fuori quella verità che si trascinava dietro da quella notte in cui suo padre andò via senza una spiegazione. La madre gli posò un bacio sui capelli e lo trattenne ancora fra le sue braccia. “Lo so, Spencer”
    Rimasero abbracciati per ore, o forse solo per pochi minuti, Spencer non avrebbe saputo dirlo. Quando si calmò, salutò suo madre promettendole che sarebbe tornato presto.
    “Ti voglio bene” le disse prima di andare via, la madre gli diede un altro bacio. “Anche io, e così sarà per sempre”

    “Reid dove eri finito? Stai bene?” gli chiese Derek non appena lo vide entrare nella hall dell’albergo. Aveva provato a rintracciarlo per ore al cellulare senza ricevere una risposta o un sms.
    “Sto bene. Ero da mia madre”. Morgan annuì e rimase incerto davanti a lui senza sapere cosa dire o fare; gli era molto affezionato, lo considerava come parte della sua famiglia e in quanto tale il suo benessere gli stava davvero a cuore, ma spesso non sapeva come dimostrarglielo. Si domandava se fosse il caso di abbracciarlo, ma Spencer sciolse tutti i suoi dubbi.
    “Morgan non preoccuparti, non c’è bisogno che mi abbracci”, Derek rise per quell’affermazione. “Lo so, magari vorresti un abbraccio da una certa dottoressa Thompson” lo stuzzicò, Spencer sbuffò. “E’ solo un’amica, Derek”
    “Com’è finita con il caso?” gli chiese spostando la conversazione su un altro argomento.
    “Abbiamo incastrato la Keller con l’esame del DNA, anche Colin Lee non ha avuto scampo. Il suo alibi non ha retto e abbiamo trovato le sue impronte sulla pistola, la scientifica l’ha trovata abbandonata nello stabilimento, ricordi che Garcia ne aveva trovato uno a nome di Cusack?”
    Spencer annuì. “E per Paul Steward?”
    Derek scosse la testa lasciando capire a Reid che non c’era stato modo di incastrarlo. “Purtroppo il suo alibi è solido, e non c’era alcuna impronta o prova che confermasse la sua presenza nello stabilimento”
    Spencer sospirò, se non altro, nessuno avrebbe potuto dire che suo padre non fosse un bravo avvocato.
    “Tuo padre ti ha lasciato questa. È venuto qui in albergo poco fa” gli consegnò una lettera, riconobbe la scrittura di suo padre che somigliava vagamente alla sua e mise la lettera in tasca.
    “Sbrigati comunque, Hotch aveva fretta di tornare a Quantico. Si parte fra un’ora” gli riferì l’agente di colore, Spencer scattò in piedi e andò in camera a raccogliere i propri bagagli.
    Un altro caso era stato risolto, si tornava a casa. Che strana la parola “casa”. Si chiese se quella fosse veramente casa sua o se fosse solo un posto in cui posare le proprie cose in attesa di arrivare finalmente a casa?
    A quella domanda il dottor Reid non seppe rispondere.
    Durante tutto il viaggio di ritorno rimase seduto in disparte, nessuno dei suoi colleghi lo disturbò. Sapevano che voleva essere lasciato da solo e rispettavano la sua volontà. Arrivò nel suo appartamento intorno a mezzanotte, il suo stomaco implorava per ricevere del cibo che non riceveva da quasi ormai 12 dodici ore. Aprì il frigorifero che trovò praticamente vuoto, il contenuto era ridotto ad una scatoletta di tonno e una carota spezzata a metà; si chiese quando era stata l’ultima volta che aveva fatto la spesa, l’ultima volta risaliva all’uscita con Thompson, Spencer rise ripensando alla corsa con i carrelli e prese la scatola di tonno.
    La aprì e mangiò il suo contenuto direttamente dalla scatola, non aveva la forza nemmeno di svuotarla in un piatto, trovò sul tavolo una confezione di un pan bauletto e mangiò l’ultima fetta rimasta.
    Terminata la “cena”, si fece una doccia e andò a dormire. Prima di chiudere gli occhi ripensò alla lettera di suo padre che era rimasta nella tasca dove l’aveva lasciata senza essere letta, fu tentato dall’alzarsi per andarla a prendere, ma si sentiva troppo stanco per affrontarla e rimandò all’indomani.
    Infine, senza nemmeno accorgersi si addormentò.

    Madison si svegliò intorno alle sei di mattina, si sorprese di essere già in piedi a quell’ora dato che il suo turno in ospedale iniziava alle 9, e approfittò dell’occasione per andare a fare una corsetta.
    Bevve velocemente un bicchiere di succo d’arancia, mangiucchiò una mela e uscì. Fece un po’ di stretching prima di buttarsi nella corsa e poi partì, limitandosi a fare il giro dell’isolato un paio di volte seguendo un gruppetto di uomini e donne che presto la lasciarono indietro.
    “Basta per oggi” si disse inspirando a fondo e si avviò verso casa. Erano appena le sette e quarto quando finì di farsi la doccia, si sedette sulla poltrona senza sapere cosa fare, aveva ancora a disposizione più di un’ora prima di dover andare in ospedale.
    “Chissà Spencer …” si domandò, sapeva che il dottor Reid era rientrato perché aveva ritirato la posta, a quell’ora doveva essere certamente a casa perciò andò a disturbarlo.
    Bussò alla sua porta diverse volte senza che nessuno l’aprisse, era quasi tentata di riscendere a casa quando l’anziano vicino di casa di Spencer si affacciò dalla porta. “Oh la ragazza dei muffin” esclamò l’uomo, Madison lo guardò stranita e Chester rise. “Ti ho vista il giorno che hai portato i muffin” spiegò, la dottoressa sorrise e gli disse che si ricordava anche lei.
    “Guarda, sotto quel vaso c’è la chiave di riserva” le riferì indicando il vaso in questione. Madison si sorprese per quella proposta e s’imbarazzò.“Oh, io non credo sia il caso di entrare in casa sua così. Insomma io non sono mica la sua fidanzata …”
    Il vecchio rise, quella ragazza gli stava simpatica. “E ti piacerebbe esserlo?”
    Thompson sentì le sue guance avvampare, come non capitava da quando andava al liceo. “Io.. io..” farfugliò senza sapere cosa dire.
    Il signor Chester ancor di più rise di fronte a quella reazione. “Entra in casa, scommetto che quel giovanotto non avrà nulla da ridire”
    Dopo averle parlato, rientrò in casa lasciando Madison da sola sul pianerottolo. “Il signore ha ragione, non sto facendo nulla di male” si convinse la dottoressa, poi prese la chiave e aprì. “Spencer?” lo chiamò quando fu dentro.
    Tutte le finestre dell’appartamento erano chiuse, sul tavolino del salotto trovò la tracolla aperta, la prese e la sistemò nell’appendiabiti, fu allora che sentì il dottor Reid muoversi nel letto che cigolò leggermente. “Sta dormendo” disse a voce alta, fu tentata dallo andare a svegliare, ma non le sembrava giusto perciò decise di tornare a casa sua, si girò per andarsene quando sbatté contro il tavolino. “Maledizione” urlò massaggiandosi il piede dolorante.
    Spencer si svegliò di soprassalto all’urlo della dottoressa. “Chi c’è?” domandò spaventato e prendendo la pistola che teneva nel cassetto del comodino, si sollevò leggermente per vedere se notava qualcuno e vide Madison che a quel punto entrò nella sua stanza, ormai era sveglio.
    “Maddie” disse incredulo di vederla lì, posò di nuovo la pistola nel cassetto e si mise a sedere sul letto.
    “Scusami se mi sono permessa, non avrei dovuto, insomma ora sei libero di denunciarmi, magari mi prendi pure per una pazza stalker, ma il tuo vicino mi ha detto che non ti saresti arrabbiato, io mi sono fidata, in fin dei conti ho pensato, che male c’è?” parlò in fretta senza scandire le parole per via del nervosismo, Spencer scoppiò a ridere e la rassicurò dicendole che non l’avrebbe né denunciata e né considerata una “pazza stalker”.
    Madison si tranquillizzò e si sedette anche lei sul letto dopo aver chiesto il permesso al dottor Reid.
    “Com’è finita con il caso?” gli domandò. Spencer sospirò e le raccontò come si fossero svolti gli eventi, parlandole anche del padre, William.
    “Beh, Spence, tuo padre è un avvocato. Lo sai, anche il mio lo è, quindi figurati, capisco la sua situazione” provò a giustificarlo Madison. “Non lo dovresti giustificare” ribatté il dottor Reid con troppa enfasi che incuriosì Madison.
    “Mmm.. qualcosa mi dice che non sei arrabbiato con lui per questo caso” dedusse, il dottor Reid riconobbe che era vero. “Tra me e mio padre le cose non vanno molto bene…” esordì il giovane sistemando i capelli dietro l’orecchio come faceva sempre quando aveva difficoltà a raccontare qualcosa.
    “Lui è andato via quando io avevo dieci anni e da allora l’ho visto solo due volte: ieri e quattro anni fa” confessò, si sentì un po’ più sollevato.
    Madison sgranò gli occhi. “Caspita, frequenti le sue visite. Scusami, se sono indiscreta, ma perché è andato via?”
    “E’ andato via perché non riusciva a reggere la situazione, o almeno così ha detto” tagliò corto Spencer.
    “Reggere la situazione? Quale situazione?”
    Reid sospirò, fu tentato dal non dirle nulla, ma la verità è che aveva bisogno di parlarne con qualcuno e Madison era una sua amica dopo tutto.
    “La situazione con me, io non ero un bambino come gli altri, e lui non sapeva come gestirmi”
    Madison si scioccò nel sentire quell’affermazione, addirittura avvertì rabbia. “Non sapeva come gestirti? Ma stai scherzando? Cosa c’è da gestire in te? E poi sei esattamente come tutti gli altri!” esclamò.
    Spencer si sorprese nel vedere la reazione di Madison e capì che doveva starle molto più a cuore di quello che pensava.
    “Tua madre?” gli domandò la giovane dottoressa, voleva sapere se almeno un genitore si fosse comportato come si deve. “Mia madre mi è sempre stata vicino, ma purtroppo soffre di schizofrenia. Quando ho compiuto 18 anni, l’ho costretta a ricoverarsi, io le volevo bene, ma non potevo più prendermi cura di lei.”
    Madison annuì, aveva fatto la cosa giusta, ma suo padre …
    “Quindi tuo padre ti ha lasciato da solo pur sapendo che tua mamma non si sarebbe potuta prendere cura di te pienamente?”. A quel punto era decisamente arrabbiata, come può un padre fare qualcosa di simile?
    “Spencer, tuo padre ha sbagliato e fai bene ad esserti arrabbiato. Tu eri suo figlio e ti ha lasciato da solo pur sapendo che tu avevi bisogno di lui e non è giusto”
    Spencer sentì le lacrime pungergli gli occhi ma le ricacciò indietro, Madison si accorse del suo stato e gli andò vicino.
    “Un padre non dovrebbe mai abbandonare suo figlio, neanche se è “difficile” da gestire, cosa che tu non sei” gli disse prendendogli il viso fra le mani. Spencer sorrise timidamente, e rimase immobile.
    “Mi ha scritto una lettera” le riferì, Madison sollevò un sopracciglio. “Che ti ha scritto?”
    Il dottor Reid alzò le spalle confessando di non averla ancora letta. “Dovresti farlo” lo incoraggiò lei. “Sai, anche io sarei arrabbiata e farei esattamente come te, ma nella vita a volte bisogna anche saper perdonare”
    Spencer le disse che lo sapeva, e le promise che l’avrebbe letta. A quel punto la dottoressa dovette salutarlo, doveva correre in ospedale, Spencer le disse che non doveva preoccuparsi e Madison gli stampò un bacio sulla guancia promettendogli che l’avrebbe chiamato nel pomeriggio prima di uscire dall’appartamento.

    Più tardi quella stessa mattinata, Madison prese il cellulare e compose il suo numero di suo padre, James Elliot Thompson. “Mads! Che bello sentirti! Come stai?” le rispose entusiasta il padre, da quando era a Washington lui era quello che soffriva di più della sua mancanza. “New York non è la stessa senza di te, quando torni? Le nostre paperelle ti aspettano!”disse alludendo alle papere del laghetto del Central Park a cui davano da mangiare tutte le domeniche.
    “Solo le paperelle?” lo stuzzicò la figlia. “Anche io” confessò l’uomo ridendo.
    “Verrò presto, promesso. Ma ti chiamavo per un’altra questione” rispose tornando seria. Il padre gli disse che era tutto orecchie e la invitò a parlare.
    “Ho uno scoop e ti piacerà. Riguarda uno dei futuri candidati del partito democratico al congresso …” iniziò il racconto la giovane. Quella storia doveva saltare fuori e suo padre era la persona giusta.

    James E. Thompson non fu l’unico padre a ricevere una chiamata quella mattina. Anche Spencer decise di telefonare a suo padre dopo aver letto la lettera che William gli aveva scritto, in cui confessava che anche lui soffriva per la sua assenza, che capiva quanto lui dovesse essere arrabbiato perché non si era comportato come un padre, e perché nonostante glielo avesse già detto in precedenza, non aveva fatto nulla per rimediare. “Ora ho capito che io voglio essere presente nella vita e voglio che tu sia presente anche nella mia. Mi manchi Spencer, per quanto possa essere difficile crederlo, mi fa male vedere coppie di padri e figli camminare per strada sapendo che anche io potrei essere come loro, ma che per colpa mia non è così. Spero che tu possa perdonarmi, e che mi consenta di venire da te qualche volta..”
    Queste erano le parole con cui aveva deciso di concludere quella lettera che commosse Spencer nonostante si fosse promesso che doveva rimanere impassibile, vinse la ritrosia che provava nel telefonargli e alla fine compose il suo numero.
    “Pronto” rispose suo padre con voce stanca. “Sono Spencer” si presentò il giovane facendo una lunga pausa.
    “Ho letto la tua lettera, io credo che vada bene, cioè va bene se tu vuoi venire qui a Washington, io..” pronunciò la frase in modo piuttosto confuso. Non sapeva bene cosa dire.
    Suo padre si emozionò nel sentirglielo dire. “Grazie” fu tutto ciò che gli disse, non aveva bisogno di dirgli più nulla.
    Suo figlio gli aveva dato una seconda opportunità ed era tutto ciò che contava.

     
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    “New Orleans, I love you”




    Erano passati diversi giorni dal ritorno della squadra della B.A.U da Las Vegas, Hotch non aveva avuto modo di parlare con Spencer da allora e quando lo vide da solo nell’open space seduto alla propria scrivania ne approfittò per fare una chiacchierata con il più giovane dei suoi agenti.
    “Buongiorno Spencer” lo salutò l’uomo sorprendendo Reid nel sentirlo chiamarlo per nome, non lo aveva mai fatto prima. “Mi sta per licenziare?” fu il primo pensiero che balenò in testa al giovane, d’altronde Hotch non era il tipo da quattro chiacchiere in compagnia quindi non immaginava altre motivazioni per quell’improvvisa comparsa.
    L’agente Hotchner notò il disagio del genio del F.B.I. che stava cominciando a sudare e si sforzò di sorridere per apparire un po’ più amichevole, cosa che rese ancora più nervoso Spencer che si convinse di essere davvero sul punto di essere licenziato.
    “Tranquillo, Reid, non è nulla di grave. Volevo sapere solo come stavi, il fatto di tuo padre ti aveva parecchio scosso perciò mi chiedevo se andasse tutto bene. Sai, tu non chiedi mai una pausa, io non ho problemi se ti prendi un giorno o due” gli disse Hotch.
    “Mmm, credevo di aver esaurito tutte le mie ferie con la mia assenza per il fatto di Maeve..” mormorò il giovane incredulo che l’agente supervisore gli avesse offerto una giornata libera a spese del bureau.
    “Reid, non hai esaurito nulla. Ti sarai assentato forse per due settimane, mica per mesi” gli disse Hotchner facendogli un sorriso, che fu ricambiato da Spencer che ancora lo fissava stranito.
    “Sai, diverse persone qui vorrebbero essere nella tua posizione e avere una giornata libera” gli ricordò l’agente supervisore, Spencer riconobbe che Aaron aveva ragione, insomma si trattava di un solo giorno, che c’era di male?
    “Domani sarò qui alle sette in punto” affermò Spencer che si affrettò a raccogliere le sue cose prima che l’agente supervisore si pentisse. All’improvviso si bloccò, “Non è una prova per capire quanto ci tenga a lavorare, vero? Perché io ci tengo moltissimo, Hotch, cioè non ho alcun problema qui, anzi mi piace..”
    Hotchner roteò gli occhi, il dottor Reid sapeva essere molto fantasioso. “Reid, vai” lo esortò e poi tornò nel suo ufficio dopo avergli augurato di trascorrere una bella giornata.

    Era appena sceso dalla metropolitana, quando ricevette una chiamata che rese quella giornata ancora più assurda.
    “Spencer, vecchio mio, che fai di bello? Catturi qualche criminale impazzito?”, era Ethan, il suo vecchio amico dei tempi dell’accademia, che attualmente viveva a New Orleans dopo aver abbandonato l’accademia per dedicarsi alla musica.
    “Al dire il vero, ho appena avuto la giornata libera” rispose Spencer ridendo, era ancora incredulo e temeva che Hotch potesse richiamarlo da un momento all’altro per dirgli di tornare indietro.
    “Perfetto, non avresti potuto darmi notizia migliore. Sono a Washington, ci vediamo per un caffè?” gli chiese, Spencer accettò di buon grado, gli faceva piacere rivedere il suo vecchio amico. “Dove ci vediamo?” gli chiese, Ethan gli rispose che era in un bar sulla settima. “Arrivo subito”
    Fu lì in meno di 20 minuti, quando riconobbe Ethan corse per andargli incontro, i due si abbracciarono.
    “Hey, hai cambiato taglio di capelli” gli disse l’amico dopo averlo scrutato per bene. Spencer rise, “Anche tu”.
    Poi prese posto nel tavolino dove Ethan si era seduto e furono subito serviti da un cameriere, ordinarono due cappuccini.
    “Che racconti di bello? Non ti sento da molto. È successo qualcosa di nuovo nella tua vita?” gli domandò Ethan mentre sorseggiava il suo cappuccino. Spencer aggrottò la fronte e si passò una mano per i capelli, da dove doveva cominciare?
    “Beh mi è successo di tutto in questo periodo, credimi, incluso un avvicinamento con mio padre” confessò il giovane. “Reid, è perfetto” esclamò, ogni tanto gli piaceva chiamarlo per cognome come faceva quando erano due cadetti. “Ma qualcosa è andato storto?” gli chiese poi, aveva un’espressione triste, non poteva essere tutto ok.
    Spencer a quel punto gli raccontò di Maeve e della sua morte, Ethan rimase stupito. Si chiese come fosse possibile che quel ragazzo avesse tanta sfortuna.
    “Spence, mi dispiace, davvero. Spero che ora tu stia meglio, per quanto sia possibile esserlo” lo consolò l’amico, Spencer gli sorrise. “Piano piano tutto passa” lo rassicurò.
    Ed era vero, cominciava a sentirsi un po’ meno solo, ma soprattutto si sentiva meno triste.
    I due continuarono a chiacchierare del più e del meno per tutta la mattinata, Ethan gli svelò la motivazione della sua visita a Washington: doveva esibirsi al Blue Bell quella sera, un locale di Washington molto frequentato.
    “Mi esibisco insieme alla mia nuova fidanzata, Marisol. Ti piacerà, ne sono sicuro, è argentina, ma è cresciuta qui perciò il suo accento è perfettamente inglese, ed ha una voce pazzesca” gli raccontò gesticolando come al suo solito.
    “Non vedo l’ora di conoscerla” rispose Spencer, infine insieme si avviarono per fare una passeggiata per le strade di Washington.
    Stavano camminando per Rhode Island Avenue quando un odore di pesca e miele invase le narici di Spencer, era il profumo di Madison, lo avrebbe riconosciuto fra mille, si voltò alla ricerca della sua vicina di casa e vide una chioma rossa venire verso di loro.
    Indossava gli occhiali da sole perciò pensò che non lo avesse visto, era appena uscita da Starbucks come dedusse riconoscendo il frappuccino della nota catena di caffè.
    “Chi guardi?” domandò Ethan voltandosi a sua volta dopo essersi accorto che non stava camminando. “Oh, la deliziosa fanciulla laggiù” esclamò dopo aver notato Madison che nel frattempo si era fermata davanti a una vetrina di un negozio. Ethan diede una gomitata a Spencer per indurlo a chiamarla, il giovane annuì. “Maddie”
    Thompson si girò, alzò gli occhiali sistemandoli fra i capelli a mo’ di cerchietto, e quando riconobbe Spencer gli rivolse un grande sorriso. “Spence” disse andandogli incontro, indossava uno spolverino nero da cui si intravedevano solo le gambe coperte da un paio di calze blu elettrico abbinate a dei ricami del medesimo colore che ricorrevano nella sciarpa che le avvolgeva il collo, ai piedi portava un paio di tronchetti neri.
    “Lui è il mio amico, Ethan” lo presentò Spencer, i due si strinsero la mano. “Piacere” disse il giovane sorridente.
    “Anche tu lavori per l’F.B.I.?” chiese Madison ad Ethan, che scosse la testa facendo una smorfia. “Ci ho provato, ma non faceva per me. Sono un’artista, infatti mi esibisco stasera al Blue Bell, se ti vuoi unire” la invitò il musicista, invito che fece piacere al dottor Reid, avrebbe avuto compagnia.
    “Certo! Mi fa piacere, oggi è il mio giorno libero quindi va benissimo!” accettò la giovane, poi si girò verso Spencer. “Ma tu non dovresti essere al lavoro?” gli domandò, Spencer le raccontò che era stato Hotch a invitarlo a prendersi una giornata libera e lui aveva accettato senza pensarci.
    Madison alzò il sopracciglio sorpresa, doveva essere proprio un bel tipo quel Aaron Hotchner.
    “Ti ha mai detto nessuno che hai gli occhi più belli di tutta la East Coast?” si complimentò Ethan, non voleva sedurre la giovane dottoressa ma fare complimenti faceva parte del suo modo di essere.
    “Addirittura? Mi hanno detto che avevo gli occhi più belli di New York, ma addirittura dell’intera East Coast mai” affermò Madison divertita per quello stravagante complimento.
    “Perché non avevi mai conosciuto un uomo in grado di apprezzarli veramente” la stuzzicò lui con un gesto molto galante, che un po’ lusingò Maddie.
    Spencer assistette a quello scambio di battute senza proferire parola, non ne era felice anzi gli aveva dato leggermente fastidio che l’amico fosse entrato così tanto in confidenza con la sua amica, perciò decise di mettere fine a quel giochino. Ethan stava per fare un altro dei suoi complimenti quando intervenne. “Andiamo a questa mostra?” domandò ai due, mostrò un volantino in cui si parlava della mostra di un certo Yang, un fotografo e sculture cinese. Aveva visto il volantino mentre usciva dalla metro e sarebbe andato a vederla quella stessa mattina, ma poi Ethan lo aveva chiamato e se n’era scordato.
    Madison annuì dicendo che per lei andava bene, Ethan alzò le spalle, lui era d’accordo con qualsiasi iniziativa.
    Si stavano per avviare diretti verso la galleria d’arte dove si teneva la mostra quando Ethan con un gesto della mano bloccò la loro andatura. “Prima devo sapere una cosa, indossi qualcosa sotto quel cappotto?” domandò alla giovane dottoressa che rise guardando Spencer. “Al dire il vero, sotto il cappotto ho solo l’intimo” lo scherzò lei per stare al gioco. Ethan fece un occhiolino al dottor Reid, “Dobbiamo sbrigarci ad andare in un posto dove faccia caldo così si toglie il cappotto” suggerì facendo finta che Madison non ascoltasse, questa prese i due per il braccio mettendosi in mezzo e li trascinò verso la galleria prima che Ethan dicesse altre idiozie.

    “Mmm.. definiamo il concetto di arte” affermò schifato Ethan di fronte a quello scempio che avevano osato definire “scultura”.
    “Secondo voi che cos’è? Secondo me è una nuvola!” disse Madison girando intorno alla scultura.
    Spencer aggrottò la fronte e si posò una mano sul mento. “No, secondo me è una pecora, più precisamente una Scottish Blackface. Lo sapevate che è l’esemplare più comune della razza ovina nel Regno Unito?”
    Madison roteò gli occhi, ancora non era abituata alle uscite da “enciclopedia” del dottor Reid.“Io non sapevo nemmeno che esiste una pecora con un nome simile”
    Ethan si mise a ridere. “Secondo me l’artista, se così lo possiamo definire, ha voluto rappresentare una scimmia in posizione fetale”
    Madison lo guardò perplessa. “Ok, fra i tre io sono quella con meno fantasia” riconobbe dopo aver sentito le ipotesi dei due.
    Uscirono dalla sala in cui erano esposte le sculture di Yang ed entrarono nel vivo della mostra fotografica; le fotografie, che ritraevano per la maggiore paesaggi caratteristici del continente asiatico, piacquero molto ai tre che convennero che sebbene come scultore Yang non volesse gran che, come fotografo invece emozionava.
    “Andiamo a mangiare? Io sto morendo” propose la giovane che quella mattina non avevo fatto colazione, ad eccezion fatta per il frappuccino di Starbucks.
    I due accompagnatori furono d’accordo, anche loro avvertivano un certo languorino. “Tortillas?” suggerì dopo una breve riflessione.
    Spencer arricciò le labbra. “Mmm… non mi va la cucina messicana. Cinese?”
    Ethan fece una smorfia, il cinese lo evitava dall’ultima volta che ebbe un’intossicazione alimentare. “Io direi di mangiare una bella pizza!”
    I due si trovarono subito d’accordo e andarono alla pizzeria all’angolo della strada.

    Erano intenti a mangiare il loro pranzo, avevano quasi divorato un’intera pizza in pochi minuti, quando Ethan ricevette una chiamata, era Marisol. Il viso del giovane musicista si illuminò quando vide il nome della sua fidanzata lampeggiare sul display del suo cellulare; “E’ Marisol” disse ai due scusandosi per la momentanea assenza, i due annuirono ed Ethan s’allontanò.
    “Com’è andata con tuo padre?” gli domandò Madison approfittando dell’assenza di Ethan, non sapeva se Spencer avrebbe gradito che si parlasse dei suoi fatti privati apertamente perciò aveva evitato di domandarglielo prima.
    “Il prossimo weekend dovrebbe venire a trovarmi qui” gli rispose, aggiunse che era fiducioso che dopo tanti anni avrebbero potuto trovare un punto d’incontro. Madison gli sorrise e gli strinse la mano che aveva posato sul tavolo, “Hai fatto la cosa giusta” lo incoraggiò. In quel momento Ethan concluse la propria telefonata e tornò al tavolo con un’espressione rammaricata, si buttò sulla sedia e sbuffò. “Marisol non è riuscita a partire per via dello sciopero dei treni. Sono senza cantante, ora come faccio?”
    “Le probabilità di trovare una cantante disponibile in una città dove non conosco praticamente nessuna è più bassa di quella di trovare uno scoiattolo canterino ”
    Spencer alzò le spalle e rise. “Io di sicuro non posso aiutarti. Sono stonatissimo, forse sarebbe meglio davvero uno scoiattolo”
    Madison alzò timidamente il dito indice. “Forse io potrei aiutarti”
    Ethan fu entusiasta subito di quell’affermazione. “Davvero? Oddio, Madison, mi salvi la vita. Chi conosci?”
    La giovane si ravvivò i capelli con una mano e si morse un labbro. “Me stessa” disse dopo una breve pausa, Spencer la guardò stranito, non aveva idea che cantasse.
    L’entusiasmo di Ethan si spense altrettanto velocemente, era un ingaggio importante per lui e non se la sentiva di affidare la sua buona riuscita ad una dilettante, però valeva la pena tentare perciò le disse di intonare qualcosa.
    “Qui?” domandò imbarazzata la rossa guardandosi intorno, il locale era pieno.
    Ethan annuì sottolineando che quella sera eventualmente il locale sarebbe stato altrettanto pieno, quindi sarebbe stata la stessa cosa. Madison si schiarì la gola e intonò le prime note di “No One” di Alicia Keys, una delle sue canzoni preferite.
    Ethan gradì molto la voce della sua nuova amica, e da quel momento, cantante provvisoria; anche Spencer rimase stupito, cantava abbastanza bene.
    “Bene, allora muoviamoci, dobbiamo provare” affermò alzandosi e trascinandosi con sé la dottoressa Thompson che non aveva ancora finito di mangiare la sua pizza.

    “Sono Ethan, dovrei esibirmi stasera. Lei è Madison, la cantante” si presentò al proprietario del locale, facendo altrettanto con la sua accompagnatrice.
    “Avevi detto che si chiamava Marisol la tua cantante!”ricordò l’uomo ripensando alla conversazione che avevano avuto al telefono nemmeno una settimana prima.
    “Madison, Marisol. Siamo lì, no?” mentì Ethan, sperava non avere troppi problemi, quella serata doveva riuscire.
    L’uomo sollevò un sopracciglio, pensò che il musicista lo stessa raggirando, ma non gli interessò più di tanto. “Il palco è tuo, più tardi arriverà il tecnico del suono e controllerete tutto il resto” spiegò poi andò via alludendo ad un incontro con sua moglie.
    “Ok, Madison, dovremmo suonare “Mercy”di Duffy? La conosci?” le domandò Ethan mentre prendeva posto al piano, per il resto degli strumenti avrebbero usato una base.
    Madison annuì, ma rammentò di non ricordare bene il testo perciò suggerì di utilizzare momentaneamente il cellulare, a furia di leggere, le sarebbe venuto in mente.
    Ethan suonò le prime note della canzone per aiutare Madison a prendere il ritmo e la giovane lo seguì con non poca fatica. La prima prova fu un completo disastro, tra Madison, che non ricordava le parole e saltava qualche riga leggendo dal suo smartphone, e Ethan che sosteneva che il piano era scordato.
    Spencer scoppiò a ridere osservando i due battibeccare su chi sbagliasse. “Tu parti prima” la accusò Ethan.
    “Niente affatto. Sei tu che sbagli l’intro!” replicò Thompson.
    Dopo un’oretta passata a ripetere sempre le stesse note e a discutere, finalmente trovarono l’armonia e poterono concentrarsi sugli altri pezzi per la serata. Avrebbero suonato tre pezzi insieme: “Mercy” di Duffy, “Princess of China” dei Coldplay, che erano le canzoni che aveva scelto Ethan in accordo con Marisol, e “Acapella” di Karmin, suggerita da Madison che avrebbe suonato la chitarra mentre Ethan si sarebbe occupato delle percussioni.
    “Madison, dovresti cambiarti” l’avvisò Ethan alla giovane mentre ridefinivano gli ultimi dettagli della loro performance.
    “Cambiarmi? E come faccio? Non ho il tempo di andare a casa!” protestò lei pensando che dovevamo essere pronti nel giro di un’oretta e che per arrivare al suo appartamento sarebbero stati necessari almeno 40 minuti.
    “Indossa il vestito di Marisol, avete la stessa taglia. Forse ti andrà un po’ più corto però” suggerì lui osservando la figura dalla giovane.
    Madison annuì con poca convinzione e gli disse di darle il vestito ed Ethan la invitò seguirlo nel camerino dove aveva posato tutto il materiale per la serata.


    “Io non ho alcuna intenzione di uscire con questo coso addosso sul palco” affermò Madison mentre si mostrava davanti a Ethan. “E’ scandaloso” aggiunse alludendo alla lunghezza che a mala pena le copriva il sedere.
    Ethan alzò le spalle, non vedeva il problema, avrebbe solo garantito l’attenzione del pubblico maschile, ma preferì non esprimere a voce alta quel pensiero. “Secondo me è perfetto” ribadì.
    “Non se ne parla, io non lo indosso. Quindi o indosso il mio tubino nero oppure dovrai cantare da solo” lo minacciò la ragazza entrando di nuovo in camerino senza dare il tempo di replicare ad Ethan, che nel frattempo fu chiamato dal tecnico del suono per gli ultimi dettagli.
    Spencer vide uscire l’amico e gli domandò se fosse tutto a posto. “Domandalo a lei” tagliò corto Ethan che andava di fretta, l’agente decise di farsi gli affari suoi e rimase fuori dal camerino.
    “Ethan si è incastrata la cerniera del vestito, mi dai una mano?” urlò Madison da dentro il camerino.
    “Ethan è andato dal tecnico del suono, ti do io una mano” disse Spencer entrando nel camerino, la giovane annuì e si voltò sollevando i capelli. “Riesci?” domandò all’amico che stava avendo un po’ di difficoltà, anche se non era chiaro se fosse per la cerniera incastrata o per la situazione in sé e per sé.
    “Ok, ci sono riuscito” le rispose mentre tirava su la cerniera. “Perfetto” esclamò lei voltandosi dopo essersi ravvivata i capelli.
    “Augurami buona fortuna” disse all’amico mentre si ritoccava il trucco. “Rompiti una gamba” rispose Spencer, Madison lo guardò stranita. “Hai fatto teatro?”
    Spencer scosse la testa e iniziò con la storia dell’origine di quel famoso modo di dire, Madison fece una smorfia e lo stoppò. “Reid, la lezione più tardi, ok?” gli diede un bacio sulla guancia e uscì dal camerino per raggiungere Ethan.


    La serata andò benissimo, il pubblico applaudì ai due performer e il proprietario rimase molto soddisfatto. “Sarai il benvenuto qui, Ethan, quando vorrai esibirti” gli disse mentre Ethan riceveva il compenso per la propria esibizione.
    “Madison, io non so come ringraziarti, permettimi di dividere con te parte dell’incasso” le disse Ethan quando raggiunse i due che erano rimasti fuori.
    Madison scosse la testa e gli sorrise. “Mi sono divertita tanto stasera, quindi non devi assolutamente preoccuparti” “Vi posso almeno offrire qualcosa per sdebitarmi?” propose Ethan ai due, Madison però si scusò dicendo ai due che doveva proprio scappare.
    “Domani mattina devo essere in ospedale molto presto. Però la prossima volta che torni, volentieri!” aggiunse.
    Reid pure si scusò con l’amico ricordandogli che doveva essere al bureau alle sette in punto l’indomani, a quel punto il musicista chiese a Spencer di accompagnarlo al suo albergo e Madison prese un taxi di ritorno a casa dopo averli salutati.
    “E’ davvero molto simpatica e carina. Quanto tempo dovrà passare prima che tu ammetta che ti piace?” gli domandò Ethan quando rimasero soli incrociando le braccia.
    Spencer rimase a bocca aperta e abbassò lo sguardo, l’amico scoppiò a ridere. “Sei sempre il solito” lo rimproverò bonariamente mentre gli dava una leggera pacca sulla spalla. “Su, andiamo. È tardi”
    I due si avviarono diretti verso l’albergo che avrebbe ospitato Ethan quella notte; come ai tempi dell’accademia, camminavano spensierati per le strade di Washington, godendosi gli ultimi istanti del loro incontro, mentre la notte calava sulla città.

    Lontano dalla vivacità della capitale, in una vecchia cittadina dello Stato del North Dakota, qualcuno si muoveva nell’ombra, tra scaffali zeppi di antichi tomi impolverati; con i polpastrelli sfiorava i vecchi manuali fischiettando.
    “Eccolo” esclamò prendendo dalla libreria un pesante volume, soffiò sulla copertina provocando una nube di polvere che si diffuse nell’ambiente illuminato da una vecchia lanterna ad olio.
    “E’ un vecchio cimelio di famiglia, è molto prezioso” disse accarezzando la copertina, dal fondo della stanza si sentì un gemito. L’uomo si avvicinò lentamente, si sedette di fronte alla sua prigioniera, che con gli occhi sgranati, pieni di paura, lo scrutava legata ad una sedia.
    L’uomo le accarezzò la guancia lungo cui scivolava una lacrima. “Questo ti aiuterà a guarire”
    La donna gemette e scoppiò in singhiozzi implorando di lasciarla andare. “Io non devo guarire. Sono sana, ti prego, liberami”
    L’uomo scosse la testa, e iniziò a pronunciare strane formule che leggeva dal manuale. Accese una candela e versò la cera calda sulla mano della donna che urlò dal dolore.
    “Il male, che vive in te, andrà via, non opporti” affermò l’uomo senza smettere di versare la cera bollente sul corpo della sua vittima. “Ammetti i tuoi peccati”
    “Io non ho fatto niente, ti prego, lasciami stare” continuò a implorarlo fra i singhiozzi.
    Fu allora che una seconda voce femminile si levò nell’ombra. “E’ un’anima persa ormai. Non puoi fare nulla per lei”
    “Ma madre, magari la possiamo ancora salvare” rispose con tono dispiaciuto, si girò verso la madre che scosse la testa. “Fai quello che devi” rispose la donna sparendo nel buio.
    L’uomo prese un bisturi che aveva in tasca, la piccola scintillò alla luce fioca della stanza. “Mi dispiace. Non hai bisogno del tuo cuore.”
    “Che stai facendo? Che vuoi fare? Oddio, ti prego, non farlo” lo pregò la donna, ma ormai non lui non si poteva più fermare.
    Diverse urla ruppero il silenzio nella stanza in quei frangenti finché il silenzio non calò di nuovo.



    “Purificazione”




    “Ti sei riposato, Reid?” gli domandò l’agente Morgan con un tono che non mascherò affatto la sua disapprovazione per la “mini vacanza” decisa da Hotch.
    Reid sorrise nel vedere la sua reazione. “Certo, mi sono riposato anche per te”
    Morgan alzò un sopracciglio sorpreso per la risposta dell’amico. “Stiamo diventando più ironici, eh?”
    Spencer alzò le spalle e si sedette alla sua scrivania mentre l’agente di colore continuava a fissarlo. “Ragazzino, non mi piace quest’atteggiamento. Mi manchi di rispetto” lo scherzò.
    In quel momento arrivò JJ di corsa ad interrompere il dialogo fra i due. “Avete visto Hotch?”
    I due agenti scossero la testa, Morgan ricordò di non averlo proprio visto passare quella mattina e Spencer confermò quanto già affermato dall’amico.
    “Cosa succede?” domandò Derek incuriosito dall’urgenza che evidentemente provava la collega per vedere l’agente supervisore.
    “Ci è arrivata questa oggi” mostrò ai due il fascicolo che aveva ricevuto quella mattina. “Le ho dato un’occhiata e credo sia il caso di intervenire”
    Reid prese il fascicolo e cominciò a leggerlo velocemente. “Credo che tu abbia ragione” affermò il giovane passando il fascicolo aperto sulla fotografia scattata dagli inquirenti sul luogo del ritrovamento del corpo a Derek.
    Morgan distolse lo sguardo. “Ha fatto quello che penso?” domandò ai suoi colleghi nella speranza che loro negassero l’incontrastabile verità.
    “Temo di si” rispose JJ. “Il medico legale lo ha confermato, le ha asportato il cuore. Prima che me lo chiediate: si, era viva” aggiunse mentre un brivido le percorse la schiena.
    “Richiamo Hotch, voi tenetevi pronti” consigliò ai due allontanandosi nel proprio ufficio.
    Mentre i due cominciavamo a raccogliere le proprie cose pronti per la partenza, Rossi fece il suo ingresso accompagnato da Blake ed un altro uomo sulla sessantina. “Chi è quello?” domandò Derek indicandoli con un leggero cenno del capo.
    “Credo che sia il sostituto della Strauss, il nuovo capo sezione” ipotizzò Spencer senza tuttavia riconoscere di chi si trattasse.
    I tre si diressero verso l’ufficio dell’agente Rossi seguiti da JJ che li raggiunse pochi minuti più tardi. “Che diavolo sta succedendo?” chiese Morgan nel notare quello strano atteggiamento, Spencer alzò le spalle, non ne aveva idea nemmeno lui.
    Il mistero durò molto poco, dopo una breve riunione l’agente Rossi uscì dall’ufficio accompagnati dai tre che con passo concitato si diressero verso i due agenti. “Vi presento Simon Donnelly, loro sono l’agente Morgan e il dottor Reid” disse Rossi non appena li raggiunse, l’uomo offrì la mano all’agente Morgan che gliela strinse, mentre Reid fece il suo classico saluto con la mano. “L’agente Donnelly sarà momentaneamente il nuovo capo sezione” lo presentò Rossi velocemente. Morgan e Reid guardarono l’agente con espressione interrogativa.
    “Non ho ancora accettato l’incarico” rispose l’uomo con tono rilassato.
    “Comunque siamo in partenza. Discuteremo il caso sul jet” annunciò Rossi .
    “Hotch?” domandò Spencer scattando comunque in piedi. L’agente Rossi lo informò che li avrebbero raggiunti più tardi e invitò i due agenti a fare in fretta.

    “La polizia di Valley City è rimasta così sconvolta dopo il ritrovamento del corpo sulle sponde del fiume Sheyenne che non ha esitato a contattarci” introdusse il caso JJ mentre tutti prendevano posto sulle comodo poltrone del jet.
    “Mai avevano avuto a che fare con una simile atrocità” aggiunse.
    Reid annuì. “Valley City è al quarto posto fra le città con il minor tasso di criminalità negli Stati Uniti” disse a conferma di quanto detto da JJ.
    “Credete che l’SI sia del luogo?” chiese Blake. JJ annuì. “La polizia crede di si, non tutti avrebbero saputo raggiungere quel punto del fiume senza una minima conoscenza del posto” spiegò all’agente.
    “A dare l’allarme è stato un pescatore che era solito pescare in quelle zone. Dite che l’SI potesse conoscere il posto per lo stesso motivo?” suppose Spencer.
    “Potrebbe essere.” opinò Blake. L’agente Rossi chiamò l’analista informatica, Penelope Garcia, per darle le ultime indicazioni, che rimase in collegamento con loro.
    “Cosa sappiamo della vittima?” chiese Donnelly rimasto in silenzio fino a quel momento mentre osservava l’interazione fra gli agenti della squadra dell’unità di analisi comportamentale di Quantico.
    “Si chiama Jenna May, 36 anni, laureata in Lingue e letterature straniere, insegnava lingua spagnola in un liceo di Valley City, ed è originaria di Orem, nello Utah. Abitava in città da pochi mesi” lesse JJ.
    “Il fatto che fosse in città da pochi mesi non esclude che l’SI non possa conoscerla, frequentava qualcuno in città?” chiese Rossi a Garcia che nel frattempo digitava sulla tastiera.
    “La nostra amica non faceva molto, era un tipa tutta casa e scuola. Ho davanti i movimenti della sua carta di credito negli ultimi mesi: ha acquistato un biglietto andata e ritorno ogni settimana per ritornare a casa da quando è a Valley City, grandi quantità di croccanti per cani, e un biglietto per il cinema venerdì scorso, è andata da sola. Lo conferma anche il suo status su facebook, sembra anche che fosse single”illustrò Garcia in brevissimo tempo.
    “Bene, non si tratta di un tradimento finito male” ironizzò Reid attirando su di sé gli sguardi interrogativi dei suoi colleghi. “Che ho detto di male? La percentuale di delitti passionali è aumentata del 14,7% negli ultimi anni”
    “Ignoralo Simon” suggerì Rossi al collega che sorrise a Spencer, rabbuiatosi per quella risposta.
    “Garcia, tienici informati. Noi ci aggiorniamo più tardi. Meglio rilassarsi un attimo prima di arrivare alla centrale” propose l’agente dopo aver spento la comunicazione con la loro analista.
    Reid prese il libro dalla tracolla che si era portato con sé e iniziò a leggere mentre Morgan con gli occhi socchiusi appoggiò la testa contro lo schienale della poltrona ascoltando, come al suo solito, della musica accanto al genio del F.B.I.
    Spencer era immerso nella lettura quando Garcia riaprì il collegamento. “Reid, ci sei?”
    Il giovane alzò la testa e aggrottò la fronte. “Qualcosa non va?” domandò all’amica che aveva un’espressione che non riuscì a decifrare. “Tutto ok, qualcuno voleva augurarti di trascorrere una bella giornata”
    L’espressione interrogativa del dottor Reid che piegò la testa a destra fece capire a Garcia che non aveva idea di cosa stesse parlando, la bionda rise. “E’ Madison, ti augura una bella giornata”
    “E tu che ne sai?”gli chiese curioso, non sapeva che le due si tenessero in contatto. “Me lo ha detto. Non è solo amica tua” gli disse e chiuse il collegamento senza permettere a Reid di domandare altro.


    “Benvenuti a Valley City, sono Roy Stevens” si presentò il capitano del distretto alla squadra non appena questa giunse in centrale.
    “Lieto di conoscerla. Loro sono l’agente speciale Derek Morgan e il nostro capo sezione Simon Donnelly, lei è l’agente speciale Jennifer Jereau, credo che già la conosca ”li presentò Rossi assumendo in quel momento le veci di Aaron.
    “Il resto della squadra, il dottor Reid e l’agente speciale Blake, sono momentaneamente dal medico legale, ci raggiungeranno più tardi”
    Il capitano annuì. “E’ arrivata questa nel frattempo” disse mostrando una busta gialla spiegazzata ai tre agenti.
    Donnelly la prese e la aprì. “E’ colpa sua. Non voleva ammettere i suoi peccati. Gli ha fatto del male, così male” lesse l’uomo. “E’ una sorte di giustificazione? Si crede forse un giustiziere?”
    Rossi alzò le spalle. “Gli ha fatto del male? A chi avrebbe fatto del male?”rifletté a voce alta l’agente.
    “JJ, parla con la coinquilina della vittima. Magari lei sa qualcosa di più” suggerì Morgan alla bionda che si precipitò a parlare con il possibile testimone.
    “Morgan, vai sulla scena del crimine assieme a Blake, ti raggiungerà lì. Io aspetto Reid, magari lui riesce a capire qualcosa di più” affermò Rossi alludendo alla lettera ricevuta. L’agente di colore obbedì e si avviò per raggiungere la collega verso il fiume Sheyenne.
    “Chi ha portato la lettera?” domandò Donnelly al capitano. “Il postino quindi sarà difficile ricavare le impronte. È molto inquinata come prova” rispose.
    “Qui, sulla busta c’è un altro indirizzo però, è sicuro che fosse diretta qui?” chiese l’uomo notando solo in quel momento l’indirizzo riportato sulla busta.
    “Si, l’indirizzo è quello della nostra vecchia stazione di polizia, per questo il postino l’ha portata qui” spiegò.
    “Quindi il nostro uomo non sapeva che la stazione di polizia fosse situata in un’altra via- disse Donnelly a Rossi che aggrottò la fronte, era molto ancora più confuso. “Da quanto tempo vi siete trasferiti?”chiese ancora al capitano.
    “Un paio di anni, non di più” disse che poi si scusò dicendo che doveva raggiungere uno dei suoi agenti.
    Rossi prese un pennarello e iniziò a scrivere sulla lavagna magnetica messa a disposizione dal dipartimento. “Sappiamo che Jenna May abitava qui da circa cinque mesi, il nostro SI però sembra che non lo abbia abitato qui negli ultimi due anni. Questo rende più difficile il loro collegamento” illustrò l’agente Rossi a Donnelly.
    “Se fosse stato in galera? Magari in un’altra città, è tornato e non sapeva che la stazione di polizia avesse cambiato indirizzo” suppose l’altro.
    Rossi annuì, era un’ipotesi del tutto plausibile. In quel momento rientrò JJ. “Jenna non si vedeva con nessuno, non aveva stretto amicizie con nessuno qui, a parte Beth, la sua coinquilina, e la sorella di Beth, Amanda” disse, poi si soffermò a leggere la lavagna.
    “E se Jenna fosse una sostituta di qualcuno?” ipotizzò lei, Rossi e Donnelly si trovarono d’accordo con ipotesi. Tuttavia non avevano sufficientemente elementi per capire di chi potesse essere la sostituta.
    Erano intenti a discutere fra di loro quando arrivò Reid. “Eccoti, leggi questa. Pensiamo che Jenna May fosse una sostituta” affermò Rossi porgendogli la lettera.
    Il dottor Reid restò in contemplazione della lettera per qualche minuto. “Credo che l’SI si riferisca a se stesso, piuttosto che ad un'altra persona, questo spiegherebbe il modo in cui è scritta la lettera, dalla grafia si può dedurre che fosse anche un po’ spaventato, turbato. Se consideriamo giusta quest’ipotesi, il fatto che ribadisca che è non stata colpa sua potrebbe indicare che l’SI fosse affezionato alla vittima, molto probabilmente lo ha ferito, e la sua mancanza di ammissione del peccato ammesso ha scatenato questa pulsione, che non ha saputo controllare. ” sciorinò il dottor Reid.
    “Le ha strappato il cuore perché forse l’avrà tradito. L’SI ha scambiato Jenna May per la sua ex compagna” suppose Donnelly, gli altri tre furono d’accordo con l’ipotesi dell’uomo.
    “Facciamo fare una ricerca a Garcia. Cerchiamo nativi del posto che abbiano manifestato qualche segno d’instabilità dopo una separazione, magari è stato denunciato per stalking” disse l’agente Rossi, che si mise in comunicazione con l’analista informatica subito dopo.


    Nel frattempo nella città di Washington, Aaron Hotchner si recava al Georgetown University hospital per accompagnare il piccolo Jack, reduce da una bruttissima notte insonne.
    “La dottoressa Thompson si prenderà cura del suo bambino” gli disse un’infermiera indicando una delle stanzine con la tenda blu dove la rossa stava facendo ambulatorio quel giovedì mattina.
    “Buongiorno. Siamo qui per lui” si presentò Aaron con espressione seria mentre posava le mani sulle piccole spalle di suo figlio in piedi davanti a lui con la testa bassa.
    Madison sorrise e si piegò sulle ginocchia. “Cos’hai, piccolo?”
    Jack rimase in silenzio, era molto imbarazzato e dispiaciuto, aveva fatto perdere una giornata di lavoro al suo papà, anche se da una parte la cosa lo rendeva felice, avrebbe trascorso una giornata con lui.
    “Ha avuto un forte mal di pancia tutta la notte e ha rimesso più di una volta” parlò il padre al posto del figlio.
    Madison si alzò in piedi e disse ad Aaron di sistemare il piccolo sul lettino perché potesse visitarlo meglio, l’uomo prese il bambino in braccio e lo sedette dicendogli di sdraiarsi.
    La dottoressa delicatamente premette con le mani sullo stomaco di Jack, che strinse i denti, gli faceva male. Poi passò le mani sul basso ventre per assicurarsi che non ci possono altri gonfiori. “Vediamo un po’” disse la rossa mentre utilizzava lo stetoscopio per l’auscultazione.
    “Non è nulla. È solo un’indigestione, ma ormai il peggio è passato” comunicò Madison ad Aaron che tirò un respiro di sollievo.
    “Bene, ti do queste. Prendile ora e poi stasera di nuovo prima di cena, va bene?” disse al piccolo che prese la pillola che Madison le tendeva assieme ad un bicchiere.
    “Le dovrà prendere per una settimana” aggiunse rivolgendosi ad Aaron. “Le faccio la prescrizione, mi dia i dati di suo figlio”
    Aaron le passò i documenti richiesti alla dottoressa che nel leggere il cognome del piccolo paziente rimase un po’ incerta. “Hotchner? Lei è Aaron Hotchner?” domandò a Hotch che annuì senza cambiare la propria espressione.
    “Conosco due dei suoi agenti della squadra di analisi comportamentale: Derek Morgan e Spencer Reid” gli spiegò mentre le tendeva la prescrizione appena compilata. “E anche Penelope”
    Aaron sorrise alla dottoressa. “Sì, sono in squadra con me” confermò.
    “Certo che deve essere difficile far coincidere gli impegni di genitore con quelli di un agente del F.B.I.” affermò Madison, l’agente fece un piccolo sospiro, come darle torto? A quel punto Jack fu di nuovo accanto a suo padre e lo tirò per una manica. “Andiamo a casa?” lo pregò suo figlio imbronciato.
    Madison sorrise di fronte a quella reazione. “Jack, ti regalo un lecca-lecca, però mi prometti che lo mangerai quando starai meglio?”
    Jack annuì e prese il lecca-lecca che la rossa gli offrì dopo averla ringraziata. Aaron ringraziò a sua volta la dottoressa che con aria gioviale continuava a sorridere. “È stato un piacere” disse ai due mentre riponeva la cartella fra quelle dei pazienti già visitati.
    Hotch prese per mano il figlio e uscì dallo stanzino dopo aver salutato la dottoressa, che ricevette subito un altro paziente.

    “E’ stato ritrovato un altro corpo, in altro punto isolato del fiume da un altro pescatore. Crediamo che sia lo stesso assassino” annunciò il capitano alla squadra riunito per stilare il profilo. “Si tratta di Geoffrey Duncan, 77 anni, abitava qui da molti anni. Questa volta ha lasciato un biglietto sul corpo, ha scritto “Dovevo, lui non poteva essere purificato” proseguì l’uomo mentre con una puntina appendeva la fotografia del corpo ritrovato sulla lavagna.
    “L’SI gli ha tagliato le mani post mortem, credo che sia il suo trofeo, ma l’ha sottoposto ad una tortura per diverse ore. Duncan ha lottato, sulle braccia e sul corpo sono state riportate diverse abrasioni. L’SI lo ha pugnato diverse volte al ventre” lesse il rapporto del medico legale l’agente Blake.
    “E’ molto personale, il fatto che l’SI abbia deciso di pugnalare la sua vittima implica che la conoscesse. Anche questa volta avrà utilizzato un sostituto?” affermò Morgan dopo una breve riflessione.
    Rossi si mise in collegamento con Penelope per domandarle ulteriori informazioni sulla vittima. “Geoffrey Duncan non era un santo. È stato denunciato più volte in passato per violenze domestiche ed è stato anche indagato per l’omicidio della sua compagna, Tamara Cundy. Il caso si è chiuso senza il ritrovamento di un colpevole. L’unico testimone dell’assassinio era il figlio della vittima, Harry Cundy, avuto in una precedente relazione, ma era stato dichiarato mentalmente instabile e di conseguenza era stato internato in una clinica psichiatrica, ma dimesso pochi mesi dopo. Gli era stata prescritta una cura e imposto dei controlli periodici” li informò l’analista informatica. “Sembra però che non andasse dal suo psichiatra da almeno sei mesi”
    “Quanto tempo fa è morta Cundy?” domandò Spencer. “Circa cinque anni fa, il figlio Harry abitava con loro dopo la separazione dalla moglie, Lisa Hart” rispose la bionda. “Oh oh, la donna era bruna ed aveva all’incirca l’età di Jenna May all’epoca, dopo la separazione si trasferì a Seattle, non è più tornata qui.”
    “E’ lei la donna che Jenna May sostituiva. Il nostro assassino è Harry Cundy, corrisponde anche al profilo” affermò Rossi. “Il nostro SI avrà interrotto la cura, sarà in preda ad un delirio psicotico e questo l’ha portato a confondere Jenna con Lisa. Ha punito tutte le persone che gli hanno fatto male: Lisa e il suo patrigno. Ha punito Duncan per aver fatto del male alla madre, per questo le ha amputato le mani, la picchiava” continuò.
    “Cosa sappiamo di Cundy? E del suo vero padre?” chiese Morgan a Garcia. “Non molto, Harry ha vissuto con la madre e il suo compagno, il padre biologico è morto per embolia quando lui aveva tredici anni”
    “Lo hanno ritrovato seduto sulla sponda del fiume Sheyenne appoggiato ad una roccia” aggiunse l’analista consentendo ai nostri profiler di incastrare l’ultimo pezzo del puzzle.
    “Forse il padre era un pescatore, questo spiega la sua conoscenza del luogo” affermò JJ. “Dove è stato ritrovato il corpo?”
    Il capitano della squadra stava per dare le informazioni richieste, quando Reid li interruppe.“Non porta le vittime sulla sponda del fiume perché vuole nasconderle, ma perché crede che il fiume sia sacro e che possa purificarli dai loro peccati”
    “Jenna May non ha ammesso la sua colpa perché non era stata lei ad averlo tradito, perché per Duncan non c’era salvezza, lui non ha potuto purificarlo” continuò il giovane agente mentre tutti li puntavano gli occhi addosso.
    Rossi annuì, l’ipotesi di Spencer era del tutto plausibile. Tuttavia non sapevano ancora come trovarlo.
    “Garcia, c’è qualche proprietà a nome di Cundy?” chiese ancora Rossi. “Spiacente, non c’è niente a nome di Harry Cundy e nemmeno del padre”
    “Cerca qualcosa su sua madre Tamara invece” le consigliò Morgan. L’analista informatica iniziò a digitare sulla tastiera velocemente, dopo qualche minuto si pronunciò: “Trovato. La Cundy era proprietaria di un casale appartenente alla famiglia di sua madre, Harry ha ereditato la casa alla morte di sua madre, ma il passaggio di proprietà non è stato mai completato e la casa è rimasta abbandonata”
    “Dove si trova, Garcia?” domandò Rossi. Era più che sicuro che quella casa li avrebbe portati dritti dal loro S.I.
    “Indovinate un po’? Sulle sponde del fiume Sheyenne. Vi invio le coordinate sul tablet”
    Pochi secondi più tardi, i tablet s’illuminarono e si aprì una cartina riportando l’esatta posizione del casale della Cundy, Reid gettò un’occhiata alla cartina dove erano stati appuntati i luoghi dei ritrovamenti dei corpi, era esattamente a metà strada fra i due estremi.
    “Sicuramente è lì che l’SI si nasconde.” disse il giovane al resto della squadra che concordò con lui. Rossi organizzò velocemente le squadre per la cattura di Harry Cundy. Lui, il capitano Stevens, l’agente Morgan e Donnelly salirono sulla prima auto mentre il resto della squadra sulla seconda seguiti da una volante della polizia a cui fu ordinato di non accendere le sirene.
    Lungo la strada Garcia, che nel frattempo aveva proseguito con le sue ricerche, li richiamò. A rispondere alla chiamata fu JJ. “Garcia, sei in vivavoce” disse la bionda che era seduta accanto all’agente Blake al volante dell’auto.
    “Miei bei agenti, ho un’informazione per voi. Scavando nel passato della Cundy, ho scoperto che anche lei era un po’ strana” esordì la bionda creando un po’ di suspence. “Era un’adepta di una religione esoterica riconducibile alla tribù indiana Mandan”
    Reid in quel momento s’illuminò. “Madan hai detto? Questa tribù era molto attaccata al fiume Missouri, a cui erano dedicati tutta una serie di rituali. Purtroppo oggi i Mandan non esistono più, sono stati sterminati da una serie di epidemie di vaiolo, però le tradizioni sono rimaste vive fra le persone del posto. Sicuramente la madre di Cundy se n’è innamorata e ha deciso di unirsi a questa religione portando con sé il figlio Harry”
    “Bene, ecco il nostro collegamento al fiume. Grazie Garcia”. JJ attaccò la telefonata e si mise in comunicazione con Rossi per dargli gli ultimi aggiornamenti.

    “Dobbiamo avvicinarci con attenzione. Non sappiamo come l’SI potrebbe reagire alla nostra vista. Ricordiamoci che è in pieno delirio psicotico, potrebbe avere delle allucinazioni” ricordò Rossi ai suoi agenti che sarebbero entrati, scortati dalla squadra del capitano Stevens, nel casale della famiglia Cundy.
    Gli agenti annuirono e Morgan, ricevuto il segnale di David, aprì la porta con uno dei suoi soliti calci, irrompendo nel salotto della casa.
    “F.B.I.” urlò mentre velocemente si mosse nella casa alla ricerca di Cundy. JJ assieme a Blake si diressero verso la cucina, mentre Morgan e Rossi salirono lungo le scale per perquisire il piano superiore. “Libero” dissero all’unisono le due donne. “Anche qui” urlò Rossi dal piano superiore.
    In quel momento Reid che assieme all’agente Donnelly si era recato nel retro della casa, sentì un rumore provenire dalla cantina a cui era possibile accedere dall’esterno.
    Fece un segno all’agente Donnelly, che estrasse la pistola dalla fondina, e insieme scesero nella cantina. Reid avvertì Derek dei loro intenti, dicendo di rimanere fuori senza fare il minimo rumore.
    Non appena riuscì ad abituarsi al buio, Spencer si rese conto di essere nella scena del crimine, notò diverse macchie di sangue secco nel pavimento e il bisturi con cui era stato asportato il cuore a Jenna May. Si mosse in avanti e fu in quel momento che vide la figura di Harry Cundy seduta in un angolo abbracciato alle sue ginocchia che singhiozzava.
    “Non voglio farti del male. Sono un’agente del FBI, sono qui per aiutarti” si presentò Reid tenendo una mano in alto mentre con l’altra mostrava il distintivo.
    L’uomo alzò lo sguardo verso Spencer che gli rivolse un timido sorriso.
    La solita voce femminile si levò nella stanza. “Ti sta mentendo. Non vuole aiutarti, come non l’ha fatto con me”
    L’uomo rabbrividì e scoppiò in singhiozzi ancora più disperati. “Lasciami stare, è colpa tua. Solo tua”
    L’agente Donnelly fino a quel momento rimasto dietro la figura di Reid mentre puntava la pistola su Cundy si avvicinò a Reid, non c’era nessuno, oltre a loro tre, constatò.
    “Lei mi ha costretto. Diceva che era giusto così, che mi dovevo vendicare” si giustificò l’uomo mentre si dondola con la testa fra le mani. “Uccidili” gli ordinò la voce nella sua testa, l’uomo si rifiutò di farlo. “Hanno ucciso me, come puoi farmi questo, piccolo ingrato? Aiutami”
    “Non ti hanno ucciso loro. Lasciami in pace, ti prego” urlò Cundy nascondendo il viso fra le mani. Reid si abbassò e provò a mettere una mano sulla spalle dell’uomo che bruscamente si mosse rivolgendo uno sguardo carico di odio all’agente. “Harry, non c’è nessuno qui. Tua madre è morta, è solo un’allucinazione” provò a spiegargli Spencer con tono calmo.
    “Sparirà presto, io ti aiuterò. Sono qui per te, ti possiamo curare” lo incoraggiò il giovane. “Ti sta mentendo. Non ti aiuterà, ti lascerà morire” insistette la voce che mandò ancora di più in confusione Harry che cominciò a colpirsi la testa.
    “Vai via, vai via” supplicò a sua madre. Fu allora che prese dalla tasca del pantalone il pugnale impregnato dal sangue del suo patrigno e lo diresse verso di sé, Reid con una mossa scattò verso di lui riuscendo a bloccare il movimento dell’uomo che si abbandonò fra le braccia dell’agente lasciando cadere il pugnale.
    Harry iniziò a piangere convulsivamente e Reid ordinò a Donnelly di iniettargli l’antipsicotico che aveva portato con sé perché si calmasse.
    A quel punto l’agente Donnelly avvertì il resto della squadra di chiamare i paramedici e insieme attesero il loro arrivo.

    “Vi ringrazio, senza di voi sarebbe stato difficile catturare Cundy” ammise il capitano Roy mentre l’agente Rossi lo salutava. “E’ il nostro lavoro, non c’è bisogno di ringraziare” rispose David mentre stringeva la mano del capitano.
    Infine dopo che il resto della squadra salutò il capitano e i suoi agenti, partirono alla volta di Quantico.
    Nel jet mentre gli agenti dalla squadra dell’unità di analisi comportamentale si rilassavano, Rossi si sedette vicino all’agente Donnelly e gli offrì un bicchiere di scotch che l’uomo accettò.
    “Come ti è sembrato questo primo giorno?” domandò al collega, aveva già avuto modo di conversare con lui in precedenza e in qualche occasione avevano anche lavorato insieme. Simon Donnelly era a capo della squadra anti-terrorismo del F.B.I, gli era stato offerto il posto di capo sezione della B.A.U. grazie alla sua amicizia con la Strauss che in più di un’occasione lo aveva designato come un ottimo sostituto.
    “Non credo che accetterò” confessò mentre dava un sorso al suo scotch. Rossi annuì, riusciva a capire in un certo senso le motivazioni che riuscivano a spingere l’agente al rifiuto, nonostante per lui non fossero a sufficienza.
    “Non sarei un buon capo per te, o per il resto della squadra, e credo nemmeno per Hotchner” continuò.
    “Secondo me il ruolo di capo sezione dovrebbe prenderlo uno di voi. Tu sei molto più adatto di me, la vostra interazione è perfetta e siete degli ottimi agenti, non avete bisogno di qualcun altro ”
    Rossi gli sorrise, pensò che la Strauss non avrebbe concordato con quell’affermazione. “Ritorni dalla tua squadra quindi?”
    L’uomo annuì. “Hanno più loro bisogno di me” poi versò un altro bicchiere di scotch per entrambi e brindarono alla squadra e ai suoi ottimi agenti, che ancora una volta erano riusciti nel loro compito.



    L’agente Derrick (parte 1)


    Morgan si era appena svegliato da un lungo sonno ristoratore, aveva dormito a casa di Paget quella notte; aprì gli occhi e notò il lato sinistro del letto vuoto, mentre un odore di pancakes gli penetrava nelle narici, la mora si era alzata prima di lui ed era già in cucina per preparare la colazione.
    Si stiracchiò e fece piccoli movimenti circolari con il collo, come ogni mattina. Più per abitudine, che per reale necessità, indossò il pantalone e infilò il distintivo dentro la tasca, infine andò in cucina per raggiungere l’attuale fidanzata.
    “Buongiorno” disse mentre cingeva la vita di Paget che si voltò verso Derek e gli stampò un bacio sulle labbra.
    “Credo che ti abbia chiamato qualcuno prima” accennò lei mentre posava due tazze di caffè sul tavolo.
    Derek annuì e prese il cellulare che aveva dimenticato in soggiorno la sera prima, il nome che lesse sul display lo sorprese. “Wayne?” pensò stranito mentre avviava il messaggio lasciatogli da questi in segreteria.
    Wayne Derrick, agente della polizia di New York, un uomo tutto d’un pezzo, difficile da gestire, impassibile e testardo. In più di un’occasione Derek aveva potuto constatare la determinazione di quell’uomo, amante del rischio, oltre ogni dire, incapace di ammettere i propri errori. Era un ottimo agente, svolgeva il suo ruolo con estrema dedizione e austerità, sul campo si confermava sempre come il migliore, ma non era abituato a dividere il proprio palcoscenico con altri, motivo per cui stranamente e, soprattutto a malincuore, si rivolgeva all’F.B.I, quindi le sue richieste erano sempre di una certa serietà.
    “Morgan, ho bisogno di te. Il caso mi è sfuggito di mano, ho quasi perso uno dei miei agenti. Ti invio il resto del fascicolo. Fammi sapere.”. Il sintetico messaggio non sorprese Derek, abituato a quelle brevi descrizioni da parte dell’amico Wayne, ma non ebbe dubbi sull’importanza della richiesta.
    Paget lo osservò mentre prendeva il tablet e leggeva il fascicolo ricevuto. “Devi proprio farlo ora? È domenica mattina, non può aspettare?”
    Derek posò il tablet, ripromettendosi di guardarlo più tardi. “E’ tutto buonissimo” disse per farsi perdonare ammiccando, la mora lo guardò di sottecchi e rimase in silenzio, la colazione era rovinata ormai.
    A quel punto si alzò, mise la tazza nel lavandino. “Controlla pure il tuo fascicolo tanto io non ho fame”
    Derek scosse la testa e la guardò mentre usciva dalla cucina diretta verso la camera da letto; non la fermò, era stanco di doversi giustificare ogni volta. Finì di leggere il fascicolo e provò a rintracciare Hotch per proporgli il caso.
    “Agente Hotchner” si presentò l’uomo rispondendo al telefono, stava facendo jogging nel parco come ogni domenica mattina assieme a Beth, la donna si fermò e ne approfittò per fare una pausa.
    “Hotch, ho bisogno di vederti. Sono stato contattato da un mio amico, il detective Derrick di New York, ha chiesto la nostra collaborazione” spiegò in fretta. Hotchner gli diede un appuntamento per quella mattina stessa per analizzare il caso e decidere se fosse necessario intervenire, dopodiché riattaccò e riprese la sua corsa, mentre Derek finiva di vestirsi e usciva dalla casa di Paget senza essere nemmeno salutato.


    Madison stava sistemando il proprio guardaroba, aveva ancora diversi vestiti chiusi nelle valigie, e nessun spazio nell’armadio dove riporli. “Ok, o elimino vestiti oppure sarò costretta a comprare un nuovo armadio” pensò la rossa, stava ancora studiando il modo per sistemare tutti i suoi vestiti quando il cellulare prese a squillare.
    Era uno dei suoi vecchi colleghi del dipartimento di polizia di NY, Dylan Campbell; Madison sorrise, le faceva sempre piacere ricevere le telefonate del vecchio amico, anche se non erano soliti vedersi spesso. “Campbell, mi hai telefonato per annunciarmi il tuo fidanzamento ufficiale con Kelly, vero?”
    L’uomo rise, la vecchia collega insisteva sempre perché trasformasse quello che lui definiva un felice fidanzamento di oltre un decennio in un prevedibile matrimonio. “No, ma credimi, preferirei darti questa notizia” esordì.
    “Si tratta di Trevor” aggiunse riferendosi all’altro suo collega che lavorava nella squadra di cui il detective Wayne Derrick era a capo. “Che gli è successo?” domandò la giovane trattenendo il fiato.
    “Gli hanno sparato, i medici hanno detto che ormai è fuori pericolo, ma la convalescenza sarà lunga”
    Madison tirò un respiro di sollievo, se non altro, non avrebbe dovuto piangere nessuno. “Vi vengo a trovare, sarò a New York entro stasera”
    Campbell le disse di non preoccuparsi, che era tutto a posto, ma Madison insistette. Si trattava di un suo amico, oltre che di un suo ex collega, e voleva rendersi utile in qualche modo. Salutò l’amico aggiungendo che lo avrebbe richiamato non appena fosse arrivata nella Grande Mela e riattaccò.
    Dopo una veloce doccia, chiamò prima i suoi per avvisarli che sarebbe andata a trovarli, annuncio che fu accolto con gioia da James, suo padre che desiderava da tempo una visita della figlia, dopodiché telefonò il suo capo, il dottor Brown, per prendersi qualche giorno di ferie. Sistemò la borsa, prese le chiavi della sua auto e uscì di casa dopo essersi assicurata di aver chiuso tutto.
    Il viaggio verso New York durò molto più del previsto, lungo la strada trovò infinite code di traffico che bloccarono la dottoressa per oltre due ore. Giunta alle porte della città, la situazione non fece altro che peggiorare, ma dopo circa un’ora riuscì ad attraversare il Manhattan Bridge che collega Lower Manhattan con Brooklyn e s’inoltrò per le strade della caotica città. Nonostante ci fosse cresciuta, vedere New York era sempre un colpo al cuore, le mancava molto la sua città, la sua gente, camminare per il Central Park o per i suoi diversi quartieri, l’emozione della mille luci di Times Square o la vista dell’Empire State Building, il suo posto preferito nella Grande Mela. Mai avrebbe pensato che un giorno l’avrebbe lasciata e farlo era stata una decisione molto sofferta.
    Giunta all’Upper east side, si sentì a casa, imboccò Lexington Avenue ed infine svoltò verso la 63esima strada giungendo davanti all’ingresso del suo palazzo. Entrò la macchina in garage e salì al terzo piano dove ad accoglierla fu la cameriera di casa, Wendy. “Signorina Madison” disse la donna saltandole al collo, le era molto affezionata, lavorava in quella casa da quando Madison aveva 6 anni e suo fratello Brian appena 8 mesi. “Wendy!” urlò lei ricambiando l’abbraccio, le mancava moltissimo, la considerava quasi come una sorella maggiore dato che aveva appena 21 anni quando era stata assunta.
    “Mia madre dov’è?” chiese sciogliendosi dall’abbraccio e precipitandosi sulle caramelle che sua madre teneva sempre nel tavolino d’ingresso. “Sua madre è al lavoro, è stata chiamata in tutta urgenza da Marissa Webb per sistemare il nuovo punto vendita a SoHo. A quanto ho capito, parte dell’arredamento non è arrivato” le spiegò Wendy, la giovane fece spallucce; la vita di sua madre era un continuo scappare dai suoi clienti fin da quando aveva memoria al punto che la figlia non ci faceva più caso ormai. Sua madre Natalie Esther Fitzgerald, laureata in Design e comunicazione visiva nell’università inglese di Oxford ed esperta in visual merchandising, era richiestissima per il lancio di nuovi store o galleria d’arte nell’ambiente newyorkese e non solo.
    “Papà?” domandò in seguito, sperava di poter vedere almeno uno dei suoi genitori prima di andare a trovare il suo amico in ospedale.
    La donna le riferì che si trovava al piano di sopra nel suo studio e la rossa salì di corsa le scale per raggiungerlo. “Papà!” lo chiamò aprendo la porta, l’uomo alzò lo sguardo verso la figlia e sorrise a trentadue denti, si alzò immediatamente per salutarla e l’abbracciò. “Piccola” le disse mentre la stringeva a sé, le posò un bacio sulla fronte scompigliandole i capelli rossi. “Sei sempre più bella” si complimentò suo padre mentre guardava la figura della figlia.
    Madison sorrise. “Tu sei sempre più vecchio” lo stuzzicò lei prendendolo in giro. Poi si sedette sulla poltrona di fronte a suo padre e gli chiese del fratello Brian. “Torna da Providence verso il 22 dicembre. Questo forse è l’ultimo anno” la informò il padre poi prese il telefono e chiamò sua moglie per avvisarla che Madison era arrivata.
    La donna rispose con la voce affannata riattaccando con un veloce “perfettissimo”, come al suo solito.
    “Papà a cena alle sette e mezza o facciamo più tardi?” gli domandò, voleva andare dall’amico Trevor prima di cena perciò desiderava sapere come poteva organizzarsi. Il padre le rispose di tornare quando voleva, lui l’avrebbe aspettata e la figlia uscì dopo avergli dato un bacio sulla guancia.

    Morgan era chiuso nell’ufficio del capo del dipartimento della polizia di NY assieme all’agente supervisore Hotchner.
    “La collaborazione è stata chiesta da un suo agente, il detective Derrick. Ha affidato a noi il caso, direi che è sufficiente per giustificare la nostra presenza qui” lo aggredì l’agente di colore infastidito dai sospetti mostrati dall’uomo nei loro confronti. L’agente Hotch rivolse uno sguardo di rimprovero al suo agente, non erano lì per imporre la loro presenza, ma per collaborare ed era fondamentale partire con il piede giusto, perciò chiese al suo agente di uscire dalla stanza e continuò il colloquio con l’uomo privatamente.
    Dopo diversi minuti, il capo della polizia Robert Gray acconsentì alla collaborazione al caso, Hotch uscì dalla stanza e si recò presso i suoi agenti ai quali veniva illustrato il caso da parte di Dylan Campell, l’unico dei detective che seguiva il caso presente nel dipartimento.
    “Dobbiamo fare attenzione alla stampa, sta dando troppa importanza al killer. Lo chiamano il “pistolero di Nueva York” riferì l’uomo alla squadra dell’unità di analisi comportamentale.
    “Come mai gli hanno affibbiato un nome ispanico?” domandò Spencer continuando a guardarsi intorno, sapeva che a capo della squadra c’era il detective Derrick, l’ex capo di Madison, provava una curiosità indefinibile nei confronti di quell’uomo. Voleva scoprire come fosse fisicamente e caratterialmente, Derek sembrava nutrire una profonda stima nei suoi confronti, lo aveva descritto come uno dei migliori detective con cui avesse collaborato.
    Ma la curiosità del dottor Reid doveva attendere, l’agente Derrick era momentaneamente assente e il suo collega aveva fatto intendere che aveva lasciato il caso nelle loro mani.
    “Le vittime, sparate con un colpo di pistola alla fronte, compaiono tutte in quest’area che è conosciuta in città come il quartiere ispanico” spiegò. “Sono tutte di origini ispanica tra l’altro”
    “L’agente Fisher è stato colpito dopo un avvertimento di abbandonare il caso. È stato proprio Trevor a proporci il caso, la prima vittima era il cugino della sua fidanzata, Danielle, John Rodriguez.” continuò.
    “Quindi il nostro S.I. colpisce le persone di origini ispanica, sappiamo altro delle vittime?” domandò Blake.
    “Erano tutte e cinque regolarmente residenti negli Stati Uniti, avevano studiato presso un’università americana, svolgevano un ottimo lavoro ed erano di buona estrazione sociale”
    “Come avevano avuto accesso all’istruzione universitaria?” intervenne l’agente Morgan. Il detective fece spallucce, non avevano pensato che quella potesse essere una pista.
    Morgan annuì e si mise in collegamento con la loro analista informatica. “Bambolina, voglio che tu faccia una delle tue magie. Riesci a scoprire come hanno avuto accesso all’istruzione universitaria le vittime?”
    “Certo, cose da nulla”. Garcia iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. “Bene, belli miei, vi informo che le nostre vittime hanno avuto tutte una borsa di studio per studenti stranieri, si erano distinti in diversi ambiti e avevano avuto la possibilità di frequentare i nostri college”
    “L’SI potrebbe essere quindi risentito per questo motivo, forse è un patriota che mal vede la possibilità di dare spazio a stranieri” suppose Rossi, gli agenti annuirono, era molto plausibile come supposizione.
    In quel momento, squillò il telefono dell’agente Campbell. Era una chiamata dall’ospedale, Fisher si era appena svegliato dopo l’operazione per la rimozione del proiettile. L’agente Hotchner inviò Morgan e il detective della omicidi di NY per parlare con l’uomo nella speranza che rivelasse qualche dettaglio sull’aspetto del S.I., mentre il resto della squadra rimase in dipartimento per stilare un profilo.

    Madison Thompson era appena entrata nella stanza del degente, Trevor Fisher, quando all’improvviso questa fu invasa dall’agente Morgan e dal detective Campbell.
    “Tempismo perfetto, io e Trevor nemmeno due minuti di chiacchiere in santa pace ché voi già siete qui” scherzò lei i due uomini, mentre Trevor rideva. Madison riusciva sempre a metterlo di buon umore.
    Campbell si avvicinò alla dottoressa e l’abbracciò. “Thompson ti trovo molto meglio” le disse facendole l’occhiolino, l’altro aggiunse che era proprio quello che le stava dicendo.
    Derek lasciò i tre amici chiacchierare per qualche minuto, non voleva mettere pressione al detective Fisher; aveva subito un grosso trauma, era meglio che si rilassasse, a mente fredda avrebbe ricordato senz’altro di più.
    “Trevor te la senti di dirci com’è andata?” gli domandò Campbell riportando la conversazione sul vero motivo della loro visita.
    Il detective chiuse gli occhi, su consiglio dell’agente Morgan, avrebbe favorito la sua concentrazione e il fluire dei ricordi. “Non ricordo molto. Ero di guardia nel quartiere dentro l’auto, era tutto tranquillo. Il collega che mi accompagnava si era allontanato dicendo che doveva pisciare. Due donne sulla trentina attraversano la strada, non sembrano sospette, una si ferma, dice qualcosa all’altra che si allontana, si volta verso di me e si avvicina. Sento il rumore dello sparo e subito dopo il sangue fluire; il mio collega mi chiama più volte, perdo conoscenza e mi risveglio qui” descrisse la scena in modo piuttosto lacunoso, ma era l’unica testimonianza diretta.
    “Il killer è una donna?” chiese Madison, i due agenti fecero spallucce, fino a quel momento non avevano preso in considerazione quella possibilità.
    Il cellulare di Morgan vibrò, era un messaggio dell’agente Jareau che lo avvertiva che era stato trovato l’ennesimo corpo. “Dobbiamo andare, abbiamo un’altra vittima” annunciò l’agente di colore al detective.
    “Derrick sarà già sulla scena” disse Madison pensando alla meticolosità dell’agente che non permetteva a nessuno di esaminare la scena di un delitto senza la sua presenza.
    “Derrick si è tirato fuori, Thompson. Ha lasciato il caso a noi e a Derek” le riferì Dylan, la giovane sgranò gli occhi, una simile decisione non era solita da parte del detective perciò decise di andarlo a trovare.
    Uscì insieme ai due agenti dopo aver augurato a Fisher una pronta guarigione e si avviò verso la dimora del detective Wayne Derrick lasciati i due uomini che dalla fretta nemmeno si preoccuparono delle intenzioni della dottoressa.

    Wayne Derrick era sdraiato sul divano in pelle del suo soggiorno, ripensava ai dettagli del caso per l’ennesima volta. C’era qualcosa che gli sfuggiva, aveva raccolto sufficienti informazioni sulle vittime senza trovare un collegamento. Era chiaro che il killer detestasse le vittime, le aveva strappate alla vita con un colpo di pistola sferrato con una precisione millimetrica, come se fosse la sua personale esecuzione.
    Era certo che quel modus operandi fosse riconducibile ad un uomo, eppure le sue convinzioni erano crollate quando ricevette il messaggio del collega, Dylan Campbell, in cui veniva riportata la testimonianza di Trevor Fisher. Non poteva trattarsi di una donna, doveva esserci dell’altro.
    Completamente immerso nei suoi pensieri, non si accorse del citofono suonare, trasalì al suono prolungato del campanello e si alzò dal divano. Sperava fossero i testimoni di Geova, aveva voglia di scaricare la propria tensione su qualcuno, ma la persona che visualizzò davanti al portone del suo palazzo lo destabilizzò.
    Avrebbe riconosciuto quella capigliatura a distanza di chilometri in una giornata di nebbia fitta: Madison Thompson, l’ex medico legale assegnato alla sua squadra.
    Ricordava ancora il giorno in cui il capo del dipartimento, Robert Gray, l’aveva presentata alla squadra; a prima impressione, l’aveva colpito: era una giovane molto sveglia e perspicace, poco adatta al ruolo di medico legale per via della sua leggerezza nell’affrontare ogni cosa, ma molto preparata. Ad oggi non aveva ancora conosciuto qualcuno con la sua abilità e rapidità nel notare dettagli che ad altri erano sfuggiti, era un ottimo elemento nel dipartimento e perderla gli era molto dispiaciuto.
    Tuttavia il giorno in cui la dottoressa Thompson diede le sue dimissioni, Wayne Derrick, rimasto seduto alla sua scrivania, si sentì sollevato. Nel corso degli anni di collaborazione con il medico legale si era accorto che i sentimenti che nutriva per la giovane erano molto più che stima professionale, non ne aveva mai parlato con nessuno, e mai nessuno se n’era accorto. Aveva cercato di mascherare la sua affezione con una freddezza disarmante, riducendo i suoi rapporti con la dottoressa ai limiti del possibile. Aveva deciso di reprimere i sentimenti nel profondo di sé stesso, consapevole che quella decisione avrebbe inevitabilmente allontanato la giovane dalla sua vita.
    Negli ultimi due anni, aveva provato a rintracciarla infinite volte senza mai portare a conclusione le sue intenzioni, qualcosa lo bloccava. La paura del rifiuto oppure la consapevolezza di non essere la persona giusta? Non avrebbe saputo dirlo.
    Ora però quella donna, che pensava di non rivedere, aveva appena bussato alla sua porta, fu tentato dal non aprire ignorando il campanello e aspettare che Thompson andasse via, ma il desiderio di rivederla era più forte, perciò aprì il portone e le permise di salire.
    “Derrick dormivi oppure avevi deciso di lasciarmi fuori al freddo di novembre?” lo stuzzicò lei appena entrata.
    Wayne le lanciò una veloce occhiata e le sorrise. “La verità? Non volevo aprirti” rispose acido come al suo solito.
    Thompson fece una smorfia. “Tanto lo so che ti manco”
    Il detective ignorò quell’affermazione, come avrebbe potuto darle torto?
    “Perché non sei sulla scena del crimine?” domandò lei piazzandosi a braccia conserte davanti alla sua figura.
    “Se ne occupano Campbell e Morgan, senza contare l’intera squadra di profiler di Quantico” rispose secco. Aveva preferito abbandonare il caso perché si sentiva eccessivamente coinvolto; quell’assassino, uomo o donna che fosse, aveva colpito uno dei suoi agenti. Mai era successo prima d’ora, in tutta la sua carriera nessun assassino era sopravvissuto abbastanza a lungo per riuscire a colpirlo così da vicino.
    “Derrick muoviti, il caso è tuo e so che te ne pentirai se permetterai che sia l’F.B.I. a risolverlo. Per quanta stima tu possa provare nei confronti di Derek, sai bene quanto me che a risolvere il caso devi essere tu” replicò la rossa con fermezza. Conosceva l’agente Derrick al punto da sapere che l’orgoglio era una caratteristica innata nella sua persona.
    “Questione di orgoglio professionale” disse lui confermando quanto pensato dalla giovane che gli rivolse un sorriso malizioso.
    Madison si sporse sul vaso che ornava il mobile d’ingresso e pescò le chiavi della moto del detective. “Ero sicura di trovarle qui” affermò facendole tintinnare nelle sue mani.
    L’uomo si appropriò delle chiavi con un gesto veloce e piuttosto brusco che non sorprese Madison, abituata ai suoi modi di fare. “Guido io” prese il giubbotto di pelle e passò il casco del passeggero alla dottoressa che gli fece l’occhiolino.
    Si avviarono ad altissima velocità per il traffico newyorkese della sera, sorpassando più volte e senza rispettare i semafori, diretti verso il quartiere ispanico dove Morgan assieme al dottor Reid e il detective Campbell esaminavano la sesta vittima del pistolero di Nueva York.

    “Avete identificato la vittima?” chiese con tono serio Derrick irrompendo nella scena senza salutare. Campbell si girò verso l’uomo e scosse la testa, doveva aspettarselo che il detective si sarebbe riappropriato del caso.
    Morgan lo salutò con una pacca sulla spalla. “Finalmente ti fai vedere”
    Derrick ricambiò il saluto. “Avresti dovuto prevedere che non ti avrei lasciato tutta la gloria” lo stuzzicò il detective.
    Spencer osservò l’uomo interagire con l’amico; come aveva già previsto, l’agente mostrava un tipico atteggiamento da maschio alpha.
    In quel momento spuntò da dietro la figura dell’uomo, Madison con il casco della moto in mano, sorprendendo il dottor Reid che aggrottò la fronte, perché erano insieme?
    La rossa allungò le chiavi della moto al detective e salutò i presenti. Poi si scambiò un sorriso con Spencer nel momento in cui i loro sguardi s’incrociarono, cosa che non sfuggì al detective Wayne, certo ormai che fra i due ci fosse una certa familiarità.
    “Avrei dovuto prevedere che era stata Thompson a convincerti a tornare” asserì Campbell rivolgendo un ampio sorriso alla dottoressa che fece un occhiolino. “Ho ancora un certo ascendente” scherzò lei.
    Derrick ignorò l’affermazione dell’ex medico legale e domandò notizie sulla vittima agli agenti sulla scena.
    “Abbiamo trovato il suo portafoglio, la vittima si chiama Felipe Alvarez, 38 anni, cubano di nascita, residente negli Stati Uniti da circa 6 mesi” disse Campbell.
    Il medico legale, finora chino sul cadavere si sollevò, per parlare con l’agente. “Quando siamo arrivati il corpo era ancora caldo, sicuramente è morto fra le 18 e 19 di questa sera, una volta eseguiti gli altri accertamenti, saprò essere più preciso”
    “Non è il vostro assassino” affermò con sicurezza Thompson attirando su di sé gli sguardi dei presenti e in particolare quello del medico legale che alzò un sopracciglio.
    “Di grazia, signorina, perché non dovrebbe essere lui?” domandò il medico legale con tono scocciato, il foro del proiettile sembrava essere uguale a quello rinvenuto sulle precedenti vittime.
    Madison esitò a rispondere e lanciò un’occhiata a Derrick che con un accenno del capo la invitò a parlare. “Il proiettile con cui è stato ucciso è lo stesso, tuttavia a suggerirmi che non si tratta dello stesso assassino è il foro d’entrata del proiettile. Ho visto le foto delle precedenti vittime e sono certa che la traiettoria percorsa dal proiettile sia diversa. Il vero assassino spara le proprie vittime mentre sono inginocchiate” spiegò lei imitando il killer. “Dal modo in cui il proiettile ha perforato la fronte, è facile dedurre che la vittima molto probabilmente non lo era” aggiunse.
    “Il fatto che la vittima non fosse inginocchiata non significa che non sia il nostro assassino.” ribadì Wayne, rimasto deluso dall’ipotesi della dottoressa.
    “Non sono d’accordo” esordì d’un fiato Spencer. Morgan si voltò verso il collega con espressione sorpresa, non era tipico di Reid contraddire le persone così apertamente; il detective gli lanciò un’occhiataccia e si morse le labbra per non offenderlo, sapeva che si trattava di un collega di Derek perciò decise di dare spazio alle sue confabulazioni.
    “La tipologia di assassino che abbiamo di fronte è molto organizzata e metodica, ha un suo schema ben definito per uccidere le proprie vittime. Non è interessato a sperimentare nuovi modus operandi, per cui è molto più probabile che non si tratti dello stesso assassino”
    “Come dice l’agente Reid” affermò Madison dando la conferma a Derrick che si conoscessero dato che l’agente Reid non si era presentato. “Dottor Reid semmai” la corresse Derek divertito.
    La rossa represse una risata e lanciò uno sguardo interrogativo a Spencer che annuì farfugliando un “mi chiamano così”
    “Bene, Morgan hai portato lo stagista con te per fargli fare pratica?” domandò Derrick con tono offensivo. Spencer lo guardò torvo, quell’uomo iniziava a infastidirlo seriamente. Derek era sul punto di parlare, ma Spencer lo interruppe.
    “Al dire il vero, lavoro nell’unità analisi comportamentale da circa 8 anni, ho diversa esperienza sul campo oltre due lauree in Psicologia e Sociologia, per cui so perfettamente di cosa sto parlando” replicò Reid con fare stizzito.
    Derrick lo fissò e fece una smorfia, ignorando quanto detto dal dottor Reid, si rivolse a Morgan nuovamente per informarlo che sarebbe tornato in centrale con la loro auto.
    “Thompson, accompagna il dottor Reid” ordinò alla giovane rivolgendo uno sguardo con aria di superiorità a Spencer che continuava a guardarlo di sottecchi. Infine lanciò le chiavi della moto a Madison che le acchiappò al volo e s’incamminò verso il veicolo insieme all’agente Morgan e il detective Campbell lasciando i due da soli mentre la scientifica rimuoveva il cadavere.


    L’agente Derrick (parte 2)




    Madison si voltò verso Spencer ancora rosso in faccia, sia per l’imbarazzo che per la rabbia. “Wow” disse la giovane. “Non sei così calmo come vuoi far credere allora”
    Il dottor Reid rimase in silenzio ed espirò nel tentativo di riuscire a rilassarsi un minimo . “Dobbiamo andare” fu tutto ciò che le disse avviandosi verso la strada senza sapere dove fosse parcheggiata la moto.
    Madison lo osservò per qualche istante, trattenendo una risata, poi lo prese per un braccio e gli indicò la direzione giusta. “E’ di là”
    I due s’incamminarono verso il motoveicolo l’uno dietro all’altra, Madison allungò verso l’amico il secondo casco, che rimase interdetto in piedi davanti alla moto, mentre lei si posizionava sul posto di guida accedendo il motore.
    “Guidi tu?” chiese timidamente Spencer senza nascondere il proprio timore.
    “Ho già guidato una moto in precedenza e in ogni caso conosco le strade di New York meglio di te” rispose acida lei, le dava fastidio quando le persone mettevano in dubbio le sue capacità in fatto di guida.
    Spencer farfugliò un “ok” e salì sulla moto. L’amica s’immise in strada a tutta velocità sfiorando da vicino una delle tante automobili circolanti per la Grande Mela, che fece cacciare un urlo acuto al dottor Reid.
    “Tranquillo, era tutto calcolato” affermò lei sfrecciando per le strade di NY fra le automobili imbottigliate nel traffico.
    “Madison, puoi rallentare?” la implorò Reid chiudendo gli occhi per la paura. La giovane rise e accelerò ancor di più quando il semaforo passò dal verde al giallo, a quel punto Spencer si abbracciò senza molti preamboli a Madison che dallo specchietto gli gettò un’occhiata e sorrise.
    Nel guardare il dottor Reid, si distrasse scordandosi di svoltare verso sinistra giunta all’incrocio, perciò fece un’inversione ad U, dopo aver informato il vicino di casa di tenersi ben stretto, che obbedì immediatamente scoppiando a ridere per il nervosismo subito dopo, mentre gli altri veicoli suonavano il clacson urlando contro Madison che, ignorando tutti, proseguì il rettilineo verso la centrale di polizia.
    Giunti in dipartimento, Spencer, bianco cadaverico in viso, con ancora il casco indosso scese di corsa dalla moto senza rivolgere una parola a Madison che rideva per l’aspetto dell’amico.
    “Spence, dai, non è successo nulla. Un po’ di adrenalina ci sta” si giustificò lei fra le risate mentre entravano in centrale. “Un po’ di adrenalina? Abbiamo quasi rischiato la morte, Madison” fece la partaccia lui chiamandola per nome, cosa che non aveva mai fatto prima da quando si conoscevano, ragion per cui la dottoressa dedusse che fosse veramente arrabbiato e perciò chiese scusa offrendogli la mano come segno di pace. “Mi perdoni?”
    Spencer sorrise e annuì stringendo la mano a sua volta, in quel momento si accorse che Blake li stava guardando con espressione sorpresa, ma al tempo stesso compiaciuta. “Reid, ti stavamo aspettando e, credo, anche a te, sei il medico legale, giusto?” chiese l’agente rivolta a Madison che annuì con aria gioviale dicendo che era proprio lei.
    La donna li guidò verso il luogo dove il detective Derrick metteva a punto gli ultimi dettagli del caso mentre aspettavano Thompson e Reid di ritorno dalla scena del crimine. “Ah, siete ancora vivi. È la sua giornata fortunata, dottor Reid” affermò con la sua consueta acidità Derrick non appena scorse la coppia arrivare.
    Spencer fece un sorriso di circostanza e si sedette sulla scrivania davanti a JJ, che gli gettò un’occhiata capendo subito dall’espressione del collega che provava una marcata antipatia nei confronti del detective.
    “Lei è Thompson, il medico legale” la presentò Derrick ai profiler quando questa gli fu accanto. “Anzi, ex medico legale” precisò poi il detective guardando fissa Thompson che fece spallucce.
    Blake, JJ e Rossi, gli unici che ancora non la conoscevano, si presentarono a loro volta, ricambiati dalla dottoressa che strinse la mano di tutti e tre.
    “Dottoressa, ci dica quanto ha dedotto sul presunto S.I.” le chiese Hotchner riportando l’attenzione di tutti sull’ex medico legale che sentì gli occhi dei presenti puntati addosso. “L’S.I.?” domandò la giovane incerta di aver capito bene.
    Aaron le spiegò che era l’acronimo per “soggetto ignoto”, ovvero il nome con cui veniva indicato l’assassino.
    Madison annuì, espirò per placare la tensione e infine parlò. “Il vostro S.I. uccide le proprie vittime mentre queste sono inginocchiate, è questo che mi ha portata a capire che non si trattava dello stesso assassino. L’ultima vittima, Felipe Alvarez, è stata sparata a questa distanza -fece una pausa per mostrare il movimento-; molto probabilmente il vero assassino ha sparato un colpo frontale con la stessa pistola, convinto che, una volta scoperto il vero assassino, non sarebbe stato incriminato, tuttavia ha commesso un errore perché non era a conoscenza di come uccidesse le vittime” spiegò lei assumendo un tono professionale, come era solita fare quando lavorava.
    “Perfetto. Morgan, chiama Garcia e chiedile di cercare informazioni su Alvarez, è probabile l’S.I. sia fra le sue conoscenze. JJ, tu contatta i familiari della vittima, forse loro conoscevano qualcuno che potesse avercela per qualche motivo con Alvarez” ordinò Hotch, i due agenti annuirono e si misero subito al lavoro.
    “Se non è un problema per lei, detective, vorremmo che la dottoressa Thompson analizzi i corpi delle precedenti vittime” richiese l’agente Hotchner a Wayne, che acconsentì alla richiesta senza problemi.
    “Reid, vai con la dottoressa all’obitorio” disse poi rivolto a Spencer che annuì debolmente. “Credo che Thompson sarebbe più a suo agio con uno dei miei agenti” obiettò Derrick designando Campbell come possibile sostituto del dottor Reid. Hotchner si scusò per la sua insistenza, ma ribadì che preferiva fosse uno dei suoi agenti a recarsi all’obitorio con la dottoressa, dato che avevano stilato un profilo e anche l’agente Campbell doveva ascoltarlo.
    Derrick strinse i denti, non poteva contraddire un’altra volta l’agente supervisore, quindi a malincuore acconsentì alla richiesta di Hotch per la seconda volta; lanciò un’occhiataccia al dottor Reid, che lo fissò a sua volta saltando giù dalla scrivania, poi, mentre il detective continuava a guardare le sue mosse con la coda dell’occhio, si avviò verso l’obitorio insieme a Madison, ignara dello sguardo di sfida che si erano scambiati i due.

    “Il nuovo me non ama l’odore della lavanda” esclamò la giovane non appena ebbe messo piede nell’obitorio, ancora buio.
    “Lavanda?” domandò Reid che la seguiva a tentoni. “Sì, lavanda. Io mettevo sempre il deodorante alla lavanda” spiegò lei mentre premeva l’interruttore della corrente elettrica.
    La luce diafana, tipica di ogni obitorio od ospedale che si rispetti, illuminò la stanza mostrando il corpo di Felipe Alvarez, l’ultima vittima rinvenuta. Thompson, osservata da Reid che seguiva ogni sua mossa, indossò il camice bianco e i guanti in lattice, e iniziò l’autopsia per determinare l’ora della morte della vittima.
    “Mmm, povero.” affermò scuotendo la testa dopo circa cinque minuti. Reid le domandò a cosa si riferisse.
    Madison gli mostrò una fattura, che segnalava il nome di una gioielleria sulla 45esima, caduta dalla tasca della camicia mentre lo spogliava; l’uomo aveva acquistato un gioiello poco prima di morire. “Però il portafoglio è stato trovato sulla scena del crimine e sembrava non mancare nulla” ricordò con sorpresa la giovane.
    “Non è stata una rapina, l’SI lo avrà preso volontariamente. Sicuramente lo conosceva e sapeva del gioiello”, a quel punto prese il telefono e informò gli altri degli ultimi dettagli appresi.
    Madison determinò l’ora della morte di Alvarez e passò ad esaminare le vittime del pistolero di Nueva York. Era in piedi fra le vittime a braccia conserte; Reid la osservava stranito, che cosa stava facendo?
    “Il vostro S.I. sarà alto più o meno fra i 172 e 175 cm, corporatura probabilmente esile” sentenziò lei.
    Spencer aggrottò la fronte. “Tutti questi dettagli da cosa li hai dedotti?” domandò, piazzandosi davanti alle vittime anche lui. A quel punto fu chiaro anche a lui cosa avesse visto la dottoressa.
    “L’inclinazione del foro d’entrata per l’altezza” spiegò Madison seguita da Reid che completò la sua frase.
    “Le abrasioni sulle vittime meno robuste, l’SI non lotta con tutte le proprie vittime, ma solo con quelle che sa che può combattere”
    Madison annuì e rimase pensante per qualche secondo. “E se fossero in due? Trevor ricordava di aver visto una donna avvicinarsi prima dello sparo, forse lei è il braccio destro dell’S.I.”
    “Questo spiegherebbe come riesca l’S.I. a catturare anche vittime più robuste di lui. La sua collaboratrice sarà una sorta di esca” dedusse Reid confermando i sospetti di Madison, che continuò a esaminare i corpi alla ricerca di altri dettagli.
    “Torniamo in centrale” disse Spencer, una volta finito il lavoro, mentre l’amica riponeva i corpi nelle celle frigorifere dell’obitorio.
    Dopodiché Madison si levò il camice e i guanti, si lavò le mani e insieme uscirono dopo aver spento le luci. “Come mai hai scelto questa specialistica?” le domandò Reid mentre tornavano in dipartimento. Non glielo aveva mai chiesto prima, era evidente che fosse molto brava nel suo lavoro, oltre che appassionata. Avrebbe voluto anche domandarle perché lo avesse lasciato e deciso trasferirsi a Washington, ma sapeva che non erano domande a cui la dottoressa Thompson rispondesse volentieri, perciò si fermò alla prima domanda.
    “Grazie al professore Moore. Avevo seguito un seminario poco prima della scelta della specialistica sulla medicina legale. Lui ci parlò del lavoro che avremmo svolto e dell’importanza che esso assumeva per le indagini. Ci disse che il nostro lavoro contribuiva a far trovare pace alle vittime, offrendo alle famiglie il conforto, per quanto possibile, di sapere che l’assassino dei loro cari era stato incarcerato” spiegò lei camminando di fianco a Spencer che ascoltava in silenzio.
    Giunti davanti al portone del dipartimento di polizia, Madison salutò Spencer dopo aver consegnato una busta contenenti i referti delle autopsie. “Ci vediamo domani” gli disse, gli stampò un bacio sulla guancia e si avviò verso la fermata della metro a pochi passi da lì.
    “E’ lei la tua amica, vero?” chiese Alex, uscita un attimo per telefonare al marito, al dottor Reid, che fissava il traffico di NY con lo sguardo perso nel vuoto. A quel punto scosse la testa, come se la voce della collega lo avesse riportato alla realtà, e annuì.
    “Sembra molto simpatica” affermò sorridente la donna. “Lo è” confermò Spencer che sorrise a sua volta e insieme rientrarono in centrale.


    “Trevor ricorda una donna che si avvicinava al suo finestrino poco prima dello sparo, il suo collega non è riuscito ad identificare il soggetto che ha sparato, ma è sicuro che non si trattava di una donna. Chi diavolo c’è dietro questa storia?”
    Il detective Derrick era parecchio scosso, non riusciva a trovare un collegamento. Dalle ricerche condotte da Garcia non era emersa alcuna soluzione, troppi nomi da scartare e nessun elemento per restringere il campo.
    “Forse si tratta di una coppia. La donna, che il detective Fisher ha visto, potrebbe essere complice del S.I.” asserì Reid mentre entrava nella stanza seguito dall’agente Blake.
    “Un’esca” dedusse Morgan, a quel punto Spencer consegnò il referto dell’autopsia all’agente Hotchner. “La dottoressa Thompson ha dedotto l’altezza del S.I., pensa che sia alto fra i 172 e 175 cm e dalla corporatura piuttosto esile” continuò riferendo quanto supposto dal medico legale.
    “Questo può aiutarci a restringere il campo” affermò Hotch che richiamò Garcia per darle ulteriori informazioni.
    “Bimbi miei, siete collegati con il vostro guru informatico. Avete nuovi dettagli per me?” rispose l’analista informatica, il detective Derrick fece una smorfia, non era abituato a simili battute, che riteneva vere e proprie “mancanze di professionalità”.
    “Si. La dottoressa Thompson crede che il nostro uomo sia alto fra i 172 e 175 cm, probabilmente è sposato o convive” la informò Hotch. “Thompson? Madison vi sta aiutando?” domandò mentre il rumore dei tasti si diffondeva dall’altra parte della cornetta.
    Morgan rispose che si trattava proprio di lei. “Sapevo che era in gamba. Ok, forse ci siamo. Samuel Murray, 40 anni, sposata con Jessie Murray, 36 anni. La descrizione fisica di Madison sembra combaciare, vi invio una foto dei coniugi Murray” disse Penelope, pochi secondi più tardi comparvero le immagini che ritraevano i due coniugi sui tablet dei profiler.
    “Sentite qui, Murray è stato fermato più volte dalla polizia quando era ancora adolescente per atti vandalici a danno di una famiglia di origini messicane nel suo quartiere. Gli è stata revocata la borsa di studio dall’università del Michigan dopo che era stato tacciato di razzismo da alcuni suoi colleghi del college, borsisti anche loro e di origine ispanica” aggiunse la bionda.
    “Sembra che sia il nostro uomo” disse Rossi dopo aver ascoltato il racconto di Penelope. “Della moglie cosa sappiamo?” domandò sempre l’agente Rossi.
    “Su Jessie Murray non abbiamo nulla per il momento, aspettate… Si, ecco, anche lei è stata licenziata dal proprio lavoro di segreteria in uno studio legale dopo che aveva aggredito verbalmente una cliente additandola di essere una sporca immigrata” illustrò Garcia. Era sufficiente, la coppia cercata dai profiler erano sicuramente i Murray.
    “Ragazzi, sentite qui.” esordì il detective Campbell accendendo la televisione e sintonizzandola sul telegiornale.
    “Nuovi risvolti nelle indagini sul pistolero di Nueva York. L’omicida dell’ultima vittima, Felipe Alvarez, potrebbe non essere il noto assassino. La polizia non ha rilasciato alcuna dichiarazione a conferma di quanto trapelato, ma non è giunta alcuna smentita. Intanto le indagini della squadra di analisi comportamentale di Quantico continuano..” riferiva la voce seria del giornalista di turno sulla scena del crimine.
    “Come diavolo hanno fatto? Dannati giornalisti! Li eliminerei con le mie stesse mani” urlò di rabbia Derrick. Nel profilo della coppia, e in particolar modo di Samuel Murray, era stato sottolineato più volte l’orgoglio come principale caratteristica del S.I., la diffusione di una simile notizia non avrebbe fatto che fomentare la rabbia del soggetto, portandolo al limite.
    “Cosa possiamo fare? Rilasciamo una dichiarazione in cui smentiamo la notizia?” domandò JJ all’agente supervisore Hotchner che con espressione seria ripensava alle parole dei giornalisti, stava cercando un modo per riuscire a sfruttarle a loro favore.
    “Se rilasciamo una dichiarazione ora, non otterremmo alcunché” ribadì Hotch. “Se la tipologia di assassino è quella che pensiamo, sarà lui stesso a venire da noi” continuò.
    L’agente Hotchner non fece in tempo a completare la frase che il telefono della centrale squillò. Un silenzio tombale scese fra i presenti che rimasero sull’attenti mentre il detective Campbell rispondeva alla telefonata dopo aver avviato la procedura per rintracciare la telefonata.
    “Voglio parlare con il detective Derrick” annunciò l’uomo con la voce camuffata non appena udì la voce del detective Campbell. Wayne senza attendere il bene placito dell’agente supervisore della B.A.U. si precipitò sulla cornetta.
    “Bastardo, consegnati tanto ti troverò” rispose il detective con tono rabbioso.
    “Smentisci la notizia. Io sono l’unico che New York deve temere, altrimenti..” minacciò l’uomo con tono tenebroso che provocò un brivido lungo la schiena agli agenti presenti.
    “Altrimenti che fai? Murray, sappiamo chi sei e ti troveremo” lo minacciò a sua volta Derrick pronunciando il nome appositamente perché sapesse che erano sulle sue tracce.
    “Lo avete voluto voi” concluse l’uomo riattaccando. Il detective sbatté la cornetta del telefono contro la scrivania per la rabbia. “Siamo riusciti ad individuare il punto da dove chiamava?” chiese Rossi tentando di non fare attenzione alla reazione del detective Derrick. Campbell scosse la testa, la telefonata era stata troppo breve; tuttavia erano riusciti ad individuare un’area nella città di New York.
    “Murray sa che lo prenderemo, ma vuole vendicarsi. Avrà deciso di fare un ultimo colpo magistrale, molto probabilmente ci chiamava dal luogo dove si compirà la strage” osservò Reid mentre fissava la cartina in cui veniva segnalato l’area di provenienza della telefonata.
    “Aspettate, questa sera ci sarà una grossa manifestazione organizzata dalla comunità messicana ad Harlem, che rientra nella zona. Non ricordo cosa festeggiano..”
    “Certo! Come ho fatto a non pensarci? È il 20 novembre” esclamò Reid dopo aver ascoltato quanto riferito da Campbell tra gli sguardi increduli dei profiler. “Si celebra la Festa della Rivoluzione Messicana oggi, si commemora l’anniversario dell’inizio della Rivoluzione del 1910.” completò la frase il dottor Reid.
    “Bene, è sicuramente lì che andrà Murray” asserì Hotch e subito dopo organizzò le squadre per la cattura di Murray e consorte promettendo a Derrick che sarebbe stato lui a catturare il killer.

    “Derrick non ti sta tanto simpatico, eh?” domandò Morgan a Reid mentre guidava verso Harlem. Il collega rimase in silenzio, avrebbe voluto insultare Derrick ma era consapevole che si trattava di un amico di Derek perciò si morse le labbra e provò a mentire. “No, perché dici questo?”
    Derek gli lanciò un’occhiata e scoppiò a ridere. “Reid, sei poco credibile! Ti si legge in faccia che non lo sopporti” ribatté l’agente. Reid abbassò lo sguardo e arrossì. “Ok, lo trovo un irritante e insopportabile pallone gonfiato” ammise Reid sentendosi subito più leggero.
    “Lui pensa che tu sia un bimbetto impaurito che non sa dove si trova invece” confessò Morgan ridendo per la descrizione che i suoi amici avevano fatto l’uno dell’altro.
    Reid strinse le mascelle. “Bimbetto impaurito? Che non sa dove si trova? Ma come si permette?” s’infuriò il giovane agente. “Hey, ragazzino! Tranquillo, il parere di Derrick non è poi così importante. Madison è tua” provò a calmarlo pronunciando il nome della dottoressa che fece infuriare Spencer ancor di più.
    “Che c’entra Madison? Morgan, te lo ripeto per l’ultima volta: Madison ed io siamo solo amici” replicò arrabbiato Reid che scandì per bene la parola “amici”. “E non chiamarmi più ragazzino” aggiunse sperando che il tono fosse sufficientemente convincente.
    “Ok, ragazzino” rispose Morgan facendo un occhiolino mentre Spencer bonariamente gli dava una spinta.

    Giunti nel luogo dove si svolgeva la manifestazione, la squadra della B.A.U. e quella del detective Derrick si divisero per cercare di coprire l’intera piazza provando a confondersi fra i manifestanti ridenti che inneggiavano alla propria nazione.
    Derrick seguiva l’agente Morgan che scrutava attentamente i presenti alla ricerca di Murray, sapeva di essere vicino. Poteva avvertire l’adrenalina scorrere nelle sue vene, come prima di ogni cattura. Fu allora che lo notò: l’uomo era incappucciato, ma reggeva una pistola calibro 45, la stessa con cui erano stati compiuti gli altri omicidi, per cui il detective Derrick era più che sicuro che si trattasse di lui. Lo seguì senza risultare troppo evidente dopo aver informato il resto degli agenti di aver individuato il sospettato.
    “Ti copro le spalle, Wayne” lo rassicurò Derek aggiungendo di tenere l’S.I. sotto tiro.
    “E’ finita, Murray. Chiama la mogliettina, si parte per una vacanza nella comoda prigione di New York” gli disse Derrick puntando la pistola alla nuca.
    “Butta giù la pistola e voltati” gli consigliò il detective. L’uomo posò la pistola e si voltò sostenendo lo sguardo di Wayne, che continuava a puntargli la pistola contro. “Ora arriva la parte che preferisco: quella in cui ti metto le manette ai polsi” affermò con convinzione Derrick. Un ghigno si dipinse sul volto di Murray. “Io non ne sarei così sicuro”
    Non appena ebbe pronunciato quelle parole, si udirono due spari, Morgan si precipitò sull’S.I. riuscendo a bloccarlo con una presa nonostante questi si dibattesse mentre Derrick rimasto in piedi osservava il sangue scorrere di Jessie Murray, la cui pistola aveva sparato un colpo in aria. Il detective si voltò per capire chi gli avesse salvato la vita e la persona che individuò lo lasciò senza parole.
    “Tu?” fu tutto ciò che riuscì a dire. “Sì. A quanto pare, non sono un bimbetto impaurito che non sa dove si trova” rispose acido Spencer. “Hey, voi due! Potete continuare a battibeccare più tardi? Dovremmo portare questo qui in centrale” ricordò Morgan mentre alzava di peso Murray che urlava il nome della moglie ormai esamine.
    Il resto della squadra raggiunse i tre agenti, complimentandosi per l’azione svolta mentre la scientifica rimuoveva il corpo di Jessie Murray e altri agenti della polizia sgomberavano la piazza per allontanare i curiosi.
    “Torniamo in dipartimento. Abbiamo ancora del lavoro da svolgere” affermò serio Hotchner ricordando a tutti che non era stato ancora trovato un colpevole per l’omicidio di Felipe Alvarez.

    Più tardi quella stessa sera mentre i profiler si riposavano dopo quella giornata stressante ad eccezion fatta di Hotchner che continuava a lavorare al caso di Alvarez e di Reid che si aggirava per la centrale di polizia alla ricerca di un buon caffè, Derrick ricevette una telefonata.
    “Wayne, sei stato bravo. Sapevo che non mi avresti delusa” disse Madison non appena il detective ebbe risposto alla telefonata. “Non ho fatto nulla io, hanno fatto tutto i profiler” replicò lui abbassando la voce. Era deluso da se stesso, non solo non era riuscito a catturare il sospettato, ma per giunta quel biondino rinsecchito, il nuovo epiteto che aveva attribuito a Spencer, gli aveva salvato la vita.
    “So com’è andata, Morgan mi ha riferito tutto, ma questo non toglie che tu non mi abbia delusa. Sei tornato e hai portato a termine il caso” spiegò lei. Derrick sorrise e si voltò dall’altra parte dando così le spalle a Spencer, che nel frattempo era rientrato con un caffè bollente in mano, soffermandosi sulla scrivania a pochi metri da quella di Derrick. Non voleva ascoltare la conversazione del detective, ma quando sentì pronunciare il nome della dottoressa Thompson fu inevitabile.
    “Madison, torna a lavorare con noi. Sei un ottimo elemento, lo hai dimostrato anche oggi. Hai spodestato Baker con una frase” le propose Derrick ricordando la velocità con cui aveva capito che non si trattava dello stesso assassino.
    Thompson rimase in silenzio, non aveva preso in considerazione la possibilità di tornare a lavorare con la squadra di Derrick; le mancava moltissimo il suo lavoro da medico legale, riprenderlo per quel breve frangente era stato piacevole ma tornare a New York...
    Spencer trattenne il fiato, mandò giù un sorso di caffè bollente ustionandosi la lingua. “Ahia” esclamò il giovane posando il caffè sulla scrivania. Derrick si voltò verso di lui e sollevò un sopracciglio, stava forse origliando la conversazione?
    “Ci vediamo domani, Thompson” disse alla dottoressa riattaccando. “Dottor Reid, desiderava qualcosa?” domandò Derrick con il tono di voce più cortese che riuscì a mantenere.
    “Si, vorrei che richiamassi Madison e gli dicessi che la tua proposta era uno scherzo e che può tornarsene a Washington” pensò il dottor Reid, ma ovviamente non lo disse. Non tanto per la reazione che quella frase avrebbe provocato a Derrick, quanto piuttosto per le conseguenze che avrebbe provocato in lui pronunciare quella frase. Pronunciarla significava ammettere quello che continuava a negare se stesso, ovvero che era innamorato di Madison, e semplicemente lui non poteva.
    Sapeva che per qualcuno poteva sembrare assurdo e stupido da parte sua, ma si sentiva come se tradisse Maeve e non poteva farlo. Il ricordo del suo primo amore era ancora vivo in lui per riuscire ad ignorarlo.
    “Dottor Reid?” lo richiamò Derrick notando che aveva lo sguardo perso nel vuoto. Spencer scosse la testa dicendo che non voleva nulla e salutò il detective Derrick che tuttavia non si decideva a lasciarlo andare. “Ehm.. io prima non ti ho ringraziato.. insomma mi hai salvato la vita..” farfugliò Wayne poco contento di doverlo ringraziare.
    Spencer annuì rispondendo che non aveva nulla da ringraziare e infine uscì dalla centrale di polizia. Avviandosi a piedi verso l’albergo assegnato alla squadra, aveva bisogno di riflettere e una passeggiata cascava a pennello in quel momento.

    La mattina dopo la squadra della B.A.U. riuscì ad individuare il colpevole per l’omicidio di Alvarez, ovvero l’ex fidanzata Romina Suarez decisa a vendicarsi dell’uomo dopo aver scoperto che aveva intenzione di sposare un’altra donna, e grazie ad un’abile interrogatorio da parte dei detective Campbell e Derrick che la costrinsero a confessare, la donna fu incarcerata.
    Wayne era appena uscito dalla stanzino degli interrogatori quando vide Madison entrare nel dipartimento, si avviò subito verso di lei e la condusse nell’ufficio di Gray, il capo del dipartimento, dove i tre si trattennero a colloquio per una buona mezz’ora.
    Spencer non riusciva a staccare gli occhi dalla porta dell’ufficio, desiderava ardentemente sapere cosa avesse deciso Madison, sarebbe rimasta a New York?
    La sua impazienza era evidente: continuava a sbattere nervosamente i piedi contro il pavimento. “Reid, hai deciso di sfondare il pavimento?” lo stuzzicò Morgan che si sedette sulla sedia accanto alla sua.
    “Derrick ha proposto a Madison di tornare a lavorare qui” disse d’un fiato. L’agente di colore annuì, ora era chiaro perché fosse così nervoso. “E lei ha accettato?”
    Spencer fece spallucce, non ne aveva idea, ma sperava con tutto se stesso che non accettasse. “Dalle un buon motivo per restare a Washington, se non vuoi che vada via” affermò il collega rialzandosi in piedi, doveva ultimare di compilare le ultime carte.
    Reid guardò l’amico, ma non rispose. Sapeva che aveva ragione, ma lui non riusciva a prendere una decisione ed era inutile continuare a discuterne con Morgan, non avrebbe mai capito.
    In quel momento la porta dell’ufficio di Robert Gray si aprì e Madison uscì accompagnata dal capo del dipartimento che la teneva a braccetto e Wayne che li seguiva senza proferire parola; la rossa salutò i due stringendo la mano di entrambi dicendo qualcosa che Spencer non riuscì a capire e si avviò verso l’uscita.
    Era arrivata a metà strada quando Spencer spuntò alle sue spalle posando una mano sul braccio per fermarla. “Spence, non ti avevo visto. Dove ti eri nascosto?” gli domandò sorridendogli. Reid indicò la sedia dove era seduto fino a poco prima. “Stai andando via?” chiese lui trattenendosi dal domandarle cosa si fossero detti i tre, non voleva sapere.
    Madison annuì dicendo che stava tornando a casa e Spencer si offrì di accompagnarla; la rossa acconsentì con piacere avvisandolo che sarebbe stata una lunga passeggiata e insieme uscirono dalla stazione di polizia.

    Erano giunti in prossimità dell’Empire State Building quando Madison propose a Spencer di visitare l’edificio. “Io amo l’Empire, non c’è posto più bello su questa terra” confessò consapevole di esagerare, ma era affezionatissima a quell’edificio per tanti di quei motivi che non riusciva nemmeno più a ricordarli tutti.
    Stranamente la fila per accendervi era molto corta e nel giro di mezz’ora si trovarono in cima all’edificio. “Non è magnifica?” gli domandò alludendo alla vista di cui si poteva godere dall’Empire, Spencer sorrise dicendo che era effettivamente molto bella.
    “E’ molto meglio di sera. Un giorno ti ci porterò” aggiunse lei e si appoggiò al cornicione dell’edificio, il vento le scompigliò i capelli costringendola a voltarsi, e fu allora che notò l’espressione triste del dottor Reid.
    “Spence che hai? È successo qualcosa?” si preoccupò, aveva notato anche prima che era piuttosto taciturno, solitamente non smetteva di parlare nemmeno un attimo, ma pensava fosse per la stanchezza.
    Spencer deglutì e distaccò lo sguardo da Madison puntando fisso uno dei tanti grattacieli di NY. “Resterai a New York, vero?” le domandò.
    Madison aggrottò la fronte sorpresa. “Restare qui? Aspetta, tu che ne sai?”
    “Ho sentito Derrick mentre ti proponeva di riprendere il tuo vecchio lavoro” spiegò lui cercando di non guardarla per non farle capire quanto gli dispiaceva che andasse via.
    “Non ho accettato” rispose la giovane, Spencer si voltò verso di lei incredulo. Cosa era andata a fare in centrale quella mattina allora?
    Madison sciolse i suoi dubbi raccontando la vera motivazione della sua visita. “Sono andata in centrale stamattina per ringraziare Gray e Derrick dell’offerta, anche se ero intenzionata a rifiutare. Volevo salutarli di persona, non mi andava di farlo al telefono”
    Spencer sorrise, la sua espressione si rilassò immediatamente, non si preoccupò nemmeno di nascondere quanto fosse felice che avesse deciso di tornare a Washington. Madison si avvicinò a lui pericolosamente e gli spostò i capelli dal viso. “Ti sarebbe dispiaciuto se fossi rimasta qui?”
    Spencer trattenne il fiato e annuì debolmente, non riusciva a parlare. Erano così vicini che i loro nasi si sfiorarono, era chiaro cosa sarebbe successo. Madison chiuse gli occhi e inclinò leggermente la testa verso sinistra, imitata da Reid che fece altrettanto. Schiuse le labbra, sfiorando quelle di Spencer, pronta a ricevere quel bacio che da tanto aspettava, quando il cellulare del dottor Reid squillò; a quel punto il genietto si distaccò da Madison che maledisse quel dannato cellulare, e rispose alla telefonata.
    “Arrivo” disse al proprio interlocutore. “Era Morgan, devo andare” informò Madison che sembrò non ascoltare.
    “Ci vediamo a Washington?” domandò lui mentre era sul punto di andare via, la sua vicina annuì, decisa anche lei di ignorare l’accaduto proprio come il dottor Reid.
    “Spencer?” lo chiamò lei prima che scomparisse giù per le scale. Il giovane si voltò di lei e ricevette un bacio sulla guancia. “Vai” sussurrò all’orecchio del profiler che annuì meccanicamente, poi si allontanò sfiorandosi più volte la guancia.

    Madison ritornò a casa dopo circa un’oretta, non riusciva a smettere di pensare a quel bacio non dato. Aveva forse sbagliato? Forse non si sarebbe dovuta buttare, e se Spencer non volesse saperne di lei?
    No, non era possibile. Ma allora cosa o chi lo tratteneva? E se ci fosse una fidanzata? Magari lontana.. oppure si era lasciato da poco? Doveva parlare con Derek. Era l’unico che potesse svelarle l’arcano e farle capire qualcosa.
    Erano questi i pensieri che occupavano la mente della giovane quando entrò nel suo appartamento, era talmente tanto concentrata che non sentì nemmeno suo padre chiamarla.
    “Madison!” la richiamò il padre per la terza volta, a quel punto la figlia si destò dai suoi pensieri. “Dimmi” disse al padre sorridendo.
    “A chi o a cosa pensavi?” la stuzzicò James, sicuro che avesse qualcuno per la testa, e certo di sapere chi. La giovane mentì dicendo che non stava pensando proprio a nessuno, ma si tradisse quando il padre le sorrise maliziosamente facendola arrossire in viso. “Pensavi a Spencer Reid?” domandò il padre certo di aver colpito nel segno nel vedere sua figlia sgranare gli occhi e diventare ancor più rossa in viso.
    “Come fai a saperlo?” domandò lei, non aveva mai nominato il nome di Spencer, aveva sempre parlato di lui in termini del suo vicino di casa.
    “Mads, sono un avvocato. Mi informo sui soggetti con cui dovrei collaborare, e guarda caso, il figlio di William Reid abita nel tuo palazzo a Washington. Non può essere mica un caso che tu mi abbia chiesto di contattare proprio lui! Sicuramente dovevi conoscere il figlio” spiegò lui con lo stesso tono convincente con cui teneva le arringhe in tribunale.
    La figlia scoppiò a ridere, suo padre era decisamente molto più bravo di un investigatore privato. “Avete una storia?” le domandò a quel punto il padre.
    Madison scosse la testa, confessando che non gli sarebbe dispiaciuto. “E’ un ragazzo un po’ particolare, no?”
    La figlia lo guardò torvo. “Te lo ha detto William? Perché non è affatto vero! Il problema non è Spencer..”
    Il padre la fermò. “Madison, William non mi ha detto nulla di negativo su suo figlio. Sono sicuro che sia un bravo ragazzo e anche intelligentissimo, ma non negare che sia un po’ diverso dalla media”
    “E’ proprio per questo che me ne sono innamorata, perché non è come tutti gli altri. Poi io sono felice quando sono con lui..” ammise Madison, suo padre l’abbracciò e le posò un bacio sulla fronte.
    “Scusami, stellina. Io voglio solo che tu sia felice, e non vorrei che aspettassi qualcosa che non accadrà mai” le svelò la sua paura il padre, mentre la teneva ancora stretta. Madison si accucciò e non rispose, confermando tacitamente che era anche la sua paura.

    Doveva capire, sapere se Spencer avrebbe mai fatto quel passo che lei era pronta a fare ad occhi chiusi da tempo, per tale motivo di ritorno a Washington la sera del giorno dopo non andò subito nel suo appartamento, ma bussò alla porta di Derek Morgan.
    “Madison, che ci fai qui?” gli chiese sorpreso, da quando abitava a Washington non si era mai recata nel suo appartamento senza avvisare, si domandò se fosse successo qualcosa. “Tranquillo, sto bene. Non è successo proprio nulla” lo tranquillizzò l’amica dopo aver notato l’espressione leggermente impaurita dell’amico.
    Morgan la invitò ad entrare e lei si accomodò sulla poltrona del salotto, era evidentemente nervosa. L’agente aspettò qualche secondo prima di incitarla a parlare di modo che si calmasse, infine Madison prese coraggio dopo aver fatto un bel respiro.
    “Sono innamorata di Spencer” confessò d’un fiato, aspettandosi un’espressione di sorpresa da parte dell’amico che tuttavia non giunse. “Lo sapevi già?” gli domandò lei notando che Derek era tutt’altro che stranito.
    Lui annuì e le versò un bicchiere di whiskey, forse l’avrebbe aiutata a digerire quanto stava per dirle. “Madison, non dovrei essere io a dirtelo, ma visto che sei mia amica e che si parla comunque di una persona che io reputo parte della mia famiglia, mi sento in dovere di dirtelo.” esordì Derek con tono serio mettendo in evidenza l’importanza di quanto le avrebbe riferito. Madison annuì e rimase in silenzio, forse finalmente avrebbe saputo quale fosse l’impedimento del dottor Reid.
    “Fino a qualche mese fa, Reid era fidanzato con Maeve. Non so molto riguardo al modo in cui si fossero conosciuti, avevano una storia un po’ particolare” introdusse la storia Derek; la giovane sorrise, non poteva che essere particolare una storia se coinvolgeva il dottor Reid, pensò.
    “Per diversi mesi si sono soltanto telefonati, senza mai vedersi.”continuò il profiler, l’amica sollevò un sopracciglio: come era possibile che non si fossero mai visti?
    “Maeve temeva per Spencer per via delle continue minacce di uno stalker, e faceva bene” spiegò lui a Madison, che iniziava a non seguirlo. “Lo stalker di Maeve era in realtà una donna, o meglio la fidanzata del suo ex. Quella donna odiava Maeve al punto da voler essere lei. Desiderava distruggerla, prendere la sua vita”
    “Per questo si era fidanzata con l’ex, voleva togliere a Maeve tutto ciò che amava” continuò. A quel punto fu chiaro a Madison che quella donna avesse preso di mira anche Spencer. “Quindi quando capì che in realtà Maeve amava Spencer ha provato a fargli del male?” domandò con la voce tremante, anche se sapeva che Spencer stava bene, fu inevitabile per lei provare timore per ciò che l’amico le stava per svelare.
    “Ha rapito Maeve e ucciso il suo ex dopo averlo torturato. Spencer capì subito che Maeve era in pericolo e ha chiesto a noi di aiutarlo a trovarla. Eravamo quasi riusciti a salvarla, sai?”
    “Non siete arrivati in tempo?” domandò Madison, che ormai aveva capito la triste fine della storia fra Maeve e Spencer.
    Derek scosse la testa, ancora non riusciva ad accettare quanto successo. “Siamo arrivati in tempo. Spencer ha affrontato la donna, dicendole tutto quello che lei voleva sentirsi dire: che l’amava, che in realtà non voleva Maeve, ma lei. L’ha persino costretto a baciarla e lui ha accettato.”
    “Tuttavia non puoi fingere quello che non provi e lei lo aveva capito -fece una pausa per prendere fiato-. È successo tutto molto velocemente, sembrava che fosse pronta ad arrendersi quando all’improvviso sparò a se stessa uccidendo anche Maeve con lo stesso colpo” concluse Morgan sperando che quel racconto aiutasse l’amica a capire perché Spencer fosse così impaurito di iniziare una nuova storia.
    Madison rimase in silenzio, provava una profonda tristezza per Spencer e non riuscì a trattenere una lacrima che scivolò lungo il viso. “Dagli tempo, non ti arrendere. Io sono sicuro che anche lui prova lo stesso per te, solo che ha paura” la incoraggiò Derek prendendola per mano. Madison sorrise, ma il suo sorriso era triste.
    “Aspetterò e gli darò tutto il tempo di cui ha bisogno, ma non posso aspettare tutta la vita” ammise lei, Derek la rassicurò dicendole che sarebbe andato tutto bene, che con il tempo tutte le ferite di Spencer sarebbero guarite; la giovane pensò che Spencer non era l’unico ad essere ferito, anche lei si trascinava dietro ferite inguaribili, ma non lo disse, non voleva parlarne con Derek.
    Era sul punto di andare via, quando Derek le domandò perché si fosse innamorata del dottor Reid. Era consapevole che era una questione molto personale e che probabilmente non avrebbe risposto, ma era davvero curioso di sapere cosa avesse visto l’amica in Spencer.
    Madison arrossì, si sentì come una liceale che stava per raccontare all’amica della prima cotta. Si appoggiò alla poltrona abbracciando un cuscino, provò a parlare ma scoppiò a ridere per il nervosismo. Non sapeva bene come formulare una risposta. “Spencer mi sa d’infanzia, di tutte le cose belle, come le lunghe passeggiate al tramonto in spiaggia o i baci sotto le coperte la mattina presto” affermò la rossa senza smettere di sorridere.
    “Quando sono con lui è tutto così diverso, è tutto migliore. Mi sento davvero a casa, al sicuro, capisci? È da molto che non mi sentivo così.” confessò all’amico che l’osservava divertito, era evidente che volesse stare con lui più di ogni altra cosa.
    Derek annuì, capiva i sentimenti dell’amica; anche lui era stato innamorato e conosceva quella sensazione di sicurezza e fiducia che si provava quando si era con la persona amata.
    “Ora ho bisogno di bere” esclamò Madison evidentemente in imbarazzo e scoppiò a ridere seguita da Derek che riconobbe di averne bisogno anche lui.


    M.



    Le settimane successive alla conversazione fra Derek e Madison trascorsero senza nessuna novità. Giunse la settimana prima di Natale, le vetrine dei negozi sfoggiavano mille decorazioni e luci colorate, l’atmosfera era di festa, per tutti tranne che per il dottor Reid che tentava di evitare il più possibile l’interno 5b.
    Temeva che Madison avrebbe preteso una spiegazione, e lui cosa le avrebbe potuto dire?
    ‘Vorrei stare con te, ma non posso’? Come poteva pretendere che Madison accettasse una simile spiegazione?
    “Per quale motivo? Per chi?”. Poteva già sentire la sua voce domandarle spiegazioni.
    Non lo meritava, lei meritava molto di più di questo. “Perché, diavolo, continuo a complicarmi la vita così?” pensò, mentre calciava una lattina vuota di Coca-Cola buttata da qualche passante per strada.
    Era tutto così semplice: bastava tornare indietro, bussare alla porta di Madison e restituire quel bacio che gli aveva negato. Eppure perché non ci riusciva? Non aveva bisogno di domandarsi perché; l’unica motivazione era lei: Maeve, il cui nome era scritto in maniera indelebile nel suo cuore.
    Si sedette su una delle tante panchine del parco dove qualche mese prima era stato con Madison, si voltò e notò una coppia di fidanzati sdraiati su un plaid: lui leggeva un libro e lei giocava con i suoi capelli. Pensò che quello poteva essere lui, ma lei chi? Madison o Maeve?
    Non avrebbe saputo rispondere a quella domanda. I due si baciarono, Spencer s’infastidì e si alzò, non riusciva a sostenere la loro vista.
    S’incamminò verso casa borbottando qualche frase incomprensibile che attirò su di sé gli sguardi sconcertati dei passanti. “Ok, sto decisamente peggiorando” pensò e scoppiò a ridere da solo per la situazione, anche se c’era poco da ridere. Stava ancora ridendo quando il suo cellulare iniziò a squillare, era il suo collega Derek Morgan.
    Spencer senza smettere di ridere rispose al telefono. “Pronto?”
    “Reid sei allegro oggi oppure sei ubriaco?” domandò l’altro sentendolo ridere. “Nessuna delle due. Posso fare qualche cosa per te?” rispose lui controllando la propria risata isterica.
    Derek fece spallucce, pensando che era meglio non domandare oltre. “Tra due giorni è il compleanno di Madison, le organizziamo una festa a sorpresa, o meglio Paget la organizzerà. Tu verrai, vero?” domandò con un tono che non sembrava tanto alludere ad un invito quanto piuttosto ad un ordine.
    Reid rimase per qualche secondo in silenzio. Accettare l’invito significa vedere Madison e lui la stava evitando molto candidamente, tuttavia non voleva mancare al suo compleanno. “Ok, verrò”
    Derek le rivelò i dettagli della festa: doveva recarsi a casa di Paget per le nove e mezza, puntuale; cosa che non doveva riuscirgli difficile dato il largo anticipo con cui era stato avvisato; Madison sarebbe arrivata assieme a Paget per le dieci, e quando la festeggiata avrebbe aperto la porta avrebbe trovato la sorpresa.
    “Hai capito, Reid?” domandò Derek quando ebbe finito di spiegargli come si sarebbe svolta la serata, poi gli riferì l’indirizzo di casa di Paget e riattaccò.
    A quel punto Spencer si trovò di fronte a un nuovo dilemma: cosa le avrebbe regalato?
    Pensò a qualche conversazione precedente alla ricerca di qualche dettaglio che gli potesse svelare qualcosa che Madison volesse, ma a parte un pianoforte, riguardo a cui Spencer convenne che fosse un regalo eccessivamente impegnato, non gli veniva in mente nulla.
    Stava dando un’occhiata alle vetrine senza notare nulla che lo colpisse quando all’improvviso si fermò davanti ad una gioielleria. Esitò per qualche secondo decidendo di proseguire, ma poi tornò indietro.
    Aprì la porta e iniziò a dare un’occhiata ai gioielli esposti, nel giro di qualche secondo fu raggiunto da una commessa che con tono cortese gli domandò se avesse bisogno di una mano. Spencer gli fu subito grato, in effetti non aveva idea di che tipo di gioiello regalare.
    “E’ un regalo per una mia amica” riferì alla commessa mentre questa iniziava a mostrargli i primi gioielli.
    “Che tipo di amica? Un’amica amica o un’amica speciale?” domandò la donna facendogli l’occhiolino.
    Spencer arrossì per l’imbarazzo, possibile che tutti saltassero a quella conclusione?
    “E’ solo un’amica” provò a sottolineare Spencer, la donna rise. “Ok, è un’amica che non deve restare amica?”
    Ok, quella donna era decisamente irritante, il dottor Reid si morse un labbro. “Le ripeto, è un’amica. Ora mi faccia vedere qualche collana, per favore”
    La donna annuì e iniziò a mostrargli diversi ciondoli in pietre preziose spiegandogli la qualità e la tipologia di pietra, che ovviamente Spencer conosceva.
    Fu allora che gli mostrò un ciondolo in azzurrite contornato da un filo di oro bianco che colpì molto Spencer, trovava che fosse perfetto per l’occasione. “Mi piace questo” disse indicando, la commessa si complimentò per l’ottima scelta e incartò la collana, racchiusa dentro una scatolina color rosso, avvolgendola con una carta regalo blu scintillante mentre il fiocco era dello stesso rosso della scatolina.
    Spencer ringraziò la commessa e uscì dalla gioielleria, soddisfatto del regalo appena acquistato che ripose nella tracolla. Mentre tornava a casa, pensava a cosa avrebbe scritto nel bigliettino; voleva che il suo bigliettino fosse originale, non i soliti auguri di compleanno del tutto scontati che finivano dimenticati in fondo al cassetto della scrivania.
    Aprì il portone del palazzo e si avviò per le scale quando sentì una voce che ben conosceva, ovvero la voce di Madison che cantava “Girls just want to have fun” di Cyndi Lauper. D’istinto accelerò la sua andatura, salendo i gradini a due a due, e intravedendo la figura della rossa in camice bianco, che rientrava dall’ospedale, la chiamò scordandosi per un attimo che desiderasse evitarla.
    “Sei allegra stamattina?” le domandò, Madison si girò di scatto e sorrise. “Hey, allora vivi sempre qui! Pensavo ti fossi trasferito” esclamò nel vederlo, aspettò che il vicino la raggiungesse e gli offrì una guancia su cui Spencer posò un bacio. “No, per tua sfortuna sono sempre qui” rispose lui, la rossa gli diede una leggera spinta.
    “Allora come mai sei così tanto allegra oggi?” chiese nuovamente Spencer mentre salivano le scale. “Tra due giorni è il mio compleanno” gli rispose. “Al dire il vero, doveva essere questo martedì, ma io non avevo molta voglia di uscire dalla pancia” aggiunse ridendo.
    Anche Spencer rise, la sua risata era molto contagiosa. “Farai qualcosa?”
    L’amica scosse la testa dicendogli che al massimo sarebbe uscita con Paget. “Nel caso verresti?”
    Spencer si trovò un attimo in difficoltà, non sapeva bene cosa dirle perciò s’inventò una cena fra colleghi. “Ogni tanto ci riuniamo” provò a giustificarsi con finto tono dispiaciuto.
    Madison annuì dicendogli di non preoccuparsi. A quel punto era arrivata alla porta del suo appartamento, lo salutò con un altro bacio sulla guancia e rientrò in casa.
    Non appena chiuse la porta, si precipitò sul telefono di casa e chiamò Paget. “Pa ma tu sai qualcosa di una cena fra colleghi prevista per questo sabato?” le domandò piuttosto perplessa, Spencer sembrava averle apertamente mentito.
    La donna aggrottò la fronte. “Cena fra colleghi?” disse a voce alta guardando Derek in cerca di una spiegazione che fece spallucce. “Sì, me lo ha detto Spencer” spiegò Madison.
    “Aaah, si! Hai ragione! Anche Derek me lo aveva accennato” mentì Paget capendo subito che doveva trattarsi di una scusa del dottor Reid. “Mi scordo sempre tutto” aggiunse per rendere il suo stupore più credibile.
    A quel punto Madison, ancora poco convinta della spiegazione ricevuta, riattaccò avvisando all’amica che sabato era libera a partire dalle venti e trenta.
    Chiusa la telefonata, Paget scoppiò a ridere. “Ma questa cena? Ci voglio venire anche io!” scherzò Derek che rise a sua volta, dandole un bacio sulle labbra.

    “Quindi questo sabato noi dovremmo andare a cena?” domandò Derek a Spencer, che rileggeva dei fascicoli, non appena arrivò nell’open space.
    Il dottor Reid fece una smorfia. “Era la prima cosa che mi è venuta in mente” si giustificò.
    L’agente di colore scosse la testa. “Quando ti inventi una balla, avvisa così evitiamo di rimanere spiazzati”; poi gli diede una pacca sulla spalla e andò nel suo ufficio.
    Blake si avvicinò al dottor Reid. “Cosa succede questo sabato?” domandò curiosa, li aveva ascoltati mentre parlavano prima.
    Reid si voltò verso di lei e la salutò. “Organizziamo una festa a sorpresa a Madison” spiegò lui arrossendo leggermente, sapeva che la donna avrebbe fatto una battuta.
    Blake gli lanciò un’occhiata molto esplicita senza dire nulla e andò a prendersi una tazza di caffè.
    “Tutti in sala riunioni. Abbiamo un caso” annunciò Aaron Hotchner procedendo a passo spedito verso la sala dove Garcia aveva già preparato il materiale per illustrare il caso.
    “Questa volta è un po’ meno cruento” esordì Garcia mostrando le immagini dei corpi ritrovati. “Tre uomini sono stati trovati impiccati questa mattina in un parco a Fairfax. Nicholas Green, 37 anni, Steve Hill, 39 anni e Peter Bell, 34 anni, sono stati trovati impiccati questa mattina nel parco” illustrò il caso l’analista informatica.
    “Ok, non può trattarsi di suicidio” affermò Rossi. “Veramente per quanto strano e improbabile potrebbe. La probabilità è del 0,037 per cento” ribadì Reid, Derek roteò gli occhi. “Reid, per favore” lo esortò il collega.
    “E se si fosse trattato di un suicidio collettivo?” domandò Blake.
    “Indotto da cosa?” chiese JJ. “Magari le vittime facevano parte di qualche setta, ne esistono diverse che predicano la fine del mondo e inducono i propri adepti al suicidio” suppose Spencer.
    “Garcia fai ricerche sulla vita delle vittime. Scopri se erano coinvolte in questo genere di setta” ordinò Hotch a Penelope che tornò di corsa nel suo ufficio. “Morgan, Reid, voi andate dal medico legale. È stato già avvertito del nostro arrivo” diede le istruzioni l’agente Hotchner.
    “JJ, parla con i parenti, magari scopriamo qualcosa di più” continuò. “Rossi invece andrà sulla scena del crimine”
    A quel punto i profiler si alzarono di scatto e partirono verso Fairfax.

    “Si tratta senza dubbio di suicidio. Si sono impiccate in contemporanea. Non posso essere molto preciso, ma di sicuro si sono suicidate intorno alle 22,40. ” sentenziò il medico legale scostando il telo bianco dal corpo delle vittime.
    “Non c’è traccia di droga per cui sembra che fossero consapevoli di quello che stavano facendo” aggiunse l’uomo prima che i due profiler domandassero.
    “Nello stomaco di tutti e tre ho trovato questo”. Mostrò un amuleto con una strana incisione, sembravano degli ideogrammi.
    “E’ un ideogramma giapponese significa libertà” spiegò il dottor Reid mentre lo esaminava. Poi racchiuse i tre amuleti in una busta di plastica per portarli dagli altri.
    “Bene, la ringrazio. Arrivederci” salutò l’agente Morgan il medico legale, seguito dal dottor Reid che uscì dalla stanza chiudendo la porta.
    Mentre tornavano verso l’automobile, Derek richiamò Hotch per riferirgli gli ultimi dettagli appresi dal medico legale.
    “Hotch, nello stomaco delle vittime è stato trovato un amuleto con una scritta. Reid dice che si tratta dell’ideogramma giapponese; significa libertà” sciorinò l’uomo in fretta.
    “Perfetto. Anche Garcia forse ha trovato qualcosa. Vi aspettiamo in centrale” rispose l’uomo riattaccando.

    Nel frattempo che i due agenti tornavano in centrale, JJ era a colloquio con l’ex moglie di Steve Hill assieme a Blake.
    “Quando è stata l’ultima volta che ha visto Steve?” le domandò la bionda. La donna sospirò, non ricordava l’ultima volta che aveva parlato con il marito. “Steve ed io abbiamo divorziato a febbraio dell’anno scorso e da allora non ci siamo visti molto. Saranno almeno quattro mesi che non ci vediamo”
    “Se posso chiedere, è stato un divorzio difficile?” chiese Blake cercando di non sembrare troppo invadente.
    “Al dire il vero, abbiamo semplicemente capito di non essere compatibili e senza figli lasciarsi è stato più facile” spiegò la donna. “Steve era un uomo piuttosto schivo, credo che non mi abbia mai amata. Stava con me solo perché non voleva rimanere solo” aggiunse con rammarico.
    “Come mai ne è così sicura?” domandò JJ. “Ci sono cose che in una coppia si capiscono. Quando era fuori per lavoro, cosa che accadeva spesso, non chiamava mai. Non si è mai ricordato del nostro anniversario in cinque anni di matrimonio”
    Blake sollevò il sopracciglio. “Non ha mai pensato che potesse avere un’amante?”
    La donna rise e scosse la testa. “Certo che l’ho pensato, ma non ne ho mai avuto la prova o conferma che fosse così e credo che a questo punto non la avrò più”
    JJ e Blake si scambiarono uno sguardo, quella donna sembrava non provare proprio alcuna pena per la fine dell’ex marito. “Sapete non è sempre stato così. All’inizio del nostro fidanzamento, era un uomo piuttosto premuroso. Poi ad un certo punto è cambiato. Spesso gli ho domandato se fossi io la causa ma lui continuava a ribadire che io non c’entravo. Forse era depresso e io non l’ho mai capito” disse la donna sperando che le due donne capissero che lei non aveva nulla a che vedere con il suicidio dell’ex marito.
    JJ rassicurò la donna sottolineando che sicuramente il suicidio del marito non aveva a che fare con lei. A quel punto le due donne si congedarono dicendole che l’avrebbe aggiornata nel caso di novità.

    “Anche Steve cambiò improvvisamente” affermò Blake mentre entrava nella stanza dove Hotch veniva aggiornato dal dottor Reid e Morgan appena ritornati dal colloquio con il medico legale.
    “Non si vedevano molto spesso. Non ha saputo dirci quando lo ha visto l’ultima volta” aggiunse JJ.
    “Garcia ha trovato qualcosa. È probabile che le vittime si siano conosciute dallo psicologo Flores” riferì Hotch. “Ho mandato Rossi a parlare con lo psicologo. Blake raggiungilo” aggiunse rivolgendosi all’agente che obbedì immediatamente.
    “Per quanto tempo le vittime hanno frequentato il dottor Flores?” domandò Reid.
    “Sono in cura con lui da circa 7 mesi” rispose Hotch. “Hill e Green venivano curati per depressione, mentre Bell per un disturbo post-traumatico da stress”
    “Quindi erano soggetti piuttosto inclini al suicidio” asserì Morgan. “La percentuale dei suicidi nei malati di depressione è del 34,58%” confermò Reid.
    In quel momento richiamò Garcia con novità sul caso. “Belli miei, ho scavato nel passato di Flores e quello che ho scoperto scommetto non vi stupirà” esordì l’analista informatica. “Flores è stato sospeso dall’albo circa tre anni fa per maltrattamenti dei propri pazienti. Da quel momento non c’è stata traccia dello psicologo fino a circa un anno fa quando ha aperto lo studio a Fairfax, che non è registrato”
    “Ho trovato anche una dichiarazione di Flores fra la documentazione del tribunale. Lo psicologo ha negato il maltrattamento dei propri pazienti sostenendo di aver semplicemente assecondato le loro inclinazioni naturali.” aggiunse. “Leggete la testimonianza di una paziente”
    “Il dottor Flores ci ha sempre detto che l’unico modo per guarire era assecondare i nostri pensieri, anche quelli più pericolosi. Io soffro di disturbi d’ansia, spesso mi ha indotto attacchi di panico. Una volta mi ha chiuso in una stanza bianca senza finestre per capire quanto potevo resistere” lesse Reid.
    Mentre gli agenti discutevano su Flores asserendo che doveva senza dubbio trattarsi di un psicopatico, Blake richiamò per informarli che l’uomo non era nello studio, che corrispondeva anche alla casa dello psicologo. Dentro trovarono la conferma che si trattava dell’assassino, erano state rinvenuti gli stessi amuleti trovati nello stomaco delle vittime esposti nel mobile d’ingresso.
    “Bambolina, cerca qualche altra proprietà a nome di Flores” chiese Morgan. La bionda iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. “Cioccolatino, non c’è niente”
    “E se fosse andato a casa di uno dei suoi pazienti? Forse si aspetta che la polizia si metta sulle sue tracce!” esclamò Reid.
    “Richiamiamo Blake e Rossi e vediamo se riescono a trovare qualche informazione” affermò l’agente supervisore.

    Il suggerimento di Reid si rivelò giusto, lo psicologo fu raggiunto a casa di una delle sue pazienti. Voleva liberare anche lei dalle sue paure inducendola al suicidio. I profiler erano arrivati appena in tempo per impedire a Flores di portare a termine il suo piano.
    “Solo così saranno liberi. Devono andarsene” urlava l’uomo mentre veniva portato via in manette.
    Di ritorno a Quantico, la squadra dell’unità analisi comportamentale fu impegnata nella redazione dei rapporti. Reid s’immerse nel lavoro cercando di fare il prima possibile; aveva pensato di festeggiare insieme a Madison a mezzanotte e doveva procurarsi ancora la torta e le candeline. Non aveva dubbi sulla torta che avrebbe scelto: il loro cheesecake.
    Finì di compilare il rapporto e andò di fretta da Hotch posandoglielo sulla scrivania. “Come mai così di fretta?” domandò l’agente supervisore alzando gli occhi dal rapporto che stava leggendo.
    Reid si portò i capelli dietro all’orecchio. “Ho un appuntamento” farfugliò. Hotch annuì e congedò il giovane profiler augurandogli un buon fine settimana.
    Uscito dal bureau, andò al supermercato alla ricerca delle candeline. Aveva girato mezzo supermercato senza trovarle quando s’imbatté in Paget piuttosto indaffarata, stava facendo la spesa per la festa.
    “Ciao Paget” la salutò sorridendole, non l’aveva più vista dal giorno in cui era uscito con Morgan, però la riconobbe subito, quel taglio di capelli alla Cleopatra era inconfondibile.
    “Reid? Ciao! Anche tu stai facendo la spesa?” domandò guardando il cestello vuoto del giovane. Reid annuì, a quel punto notò che la donna aveva nel proprio carrello le candeline e le domandò dove fossero.
    “Che ci devi fare con le candeline?” domandò lei con lo sguardo insospettito. Spencer arrossì, avrebbe dovuto raccontare del suo piano.
    “Pensavo di fare gli auguri a Madison a mezzanotte” confessò imbarazzato guardandosi le scarpe.
    Paget trattenne una risata. “Ok, sono di là, accanto agli ingredienti per i dolci” spiegò lei poi lo salutò ricordandogli che l’indomani doveva essere a casa sua per le nove e mezza e proseguì con la sua spesa.
    Trovate le candeline, il dottor Reid uscì dal supermercato e andò a comprare il cheesecake; per fortuna, ne era rimasto uno.
    Tornò a casa e andò a farsi una doccia; una volta finita, si asciugò i capelli con calma, scelse con cura i propri vestiti e il paio di calzini da spaiare, controllò l’orario erano appena le dieci passate. “Che faccio fino a mezzanotte?” si domandò, si guardò intorno cercando qualche libro con cui passare il tempo.
    Il primo libro che gli capitò sotto mano fu “Il rosso e il nero” di Stendhal; non avevo mai amato la letteratura francese più di tanto, per cui quel libro non lo ricordava e decise di leggerlo per ammazzare il tempo.
    Era immerso nella lettura quando sentì un suono acuto provenire da fuori, era un clacson.
    D’istinto come Julien, alzò lo sguardo verso l’orologio. Mancavano circa tredici minuti a mezzanotte, indossò le scarpe e scese le scale.
    Bussò alla porta e rimase in attesa, sembrava che nessuno fosse intenzionato ad aprire. Bussò di nuovo e sentì dei passi dietro la porta. Con voce assonnata, la rossa domandò chi fosse.
    “Sono Spencer” disse lui con tono impaziente. Madison aprì la porta e si trovò davanti il dottor Reid che trillò un “buon compleanno”.
    “Grazie Spence” rispose entusiasta dandogli un bacio sulla guancia poi si spostò per farlo passare e richiuse la porta.
    “Stavi già dormendo?” le domandò notando che aveva i capelli arruffati e che indossava il pigiama.
    Madison rise riflettendo sull’aspetto sexy che doveva avere in quel momento. “Mhm, si.”
    Spencer si scusò per essere piombato all’improvviso nel suo appartamento, l’amica gli disse di non preoccuparsi lasciandosi cadere sul divano accanto a Spencer che le ordinò di chiudere gli occhi.
    Madison obbedì e rimase con gli occhi chiusi mentre il dottor Reid sistemava la candelina sul cheesecake e l’accendeva. “Aprili” le disse, la giovane sorrise vedendo Spencer che teneva in mano il loro cheesecake, lo trovò un gesto carinissimo. “Esprimi un desiderio” sussurrò lui.
    Madison rifletté un secondo, anche se non ne aveva bisogno, tutto ciò che voleva era lì davanti a lei poi soffiò la candelina; a quel punto posò un dito sul cheesecake per prendere un po’ di sciroppo di fragola e se lo portò alla bocca. “Come fanno a farlo così buono?” esclamò mentre lo assaporava.
    Spencer rise e andò in cucina a prendere un coltello per tagliare le fette. Madison gli urlò di prendere il vino dal frigo, cosicché avrebbero potuto brindare. Il giovane versò il vino nei primi due bicchieri che trovò e ritornò in salotto.
    “Tanti auguri Maddie” le disse mentre i loro bicchieri tintinnavano, mangiarono il cheesecake e rimasero a parlare fino alle 3,30 del mattino.
    A quel punto, Madison sbadigliò e si appoggiò al divano, aveva gli occhi socchiusi. “Io vado” le disse il dottor Reid notando che l’amica era sul punto di crollare addormentata.
    “Buonanotte Maddie” sussurrò al suo orecchio dandole un bacio sulla guancia mentre la giovane si sistemava sul divano.

    Il giorno dopo Spencer venne svegliato dall’agente Morgan. “Ragazzino, abbiamo bisogno di te” gli disse con tono concitato. “Devi andare a prendere gli amici di Madison che vengono da New York, arrivano verso le sette e mezza di sera alla stazione. Si chiamano Daniel e Hannah” gli spiegò.
    “Ok, tutto bene?” domandò Spencer che sentiva l’amico un po’ strano. “Sì sì, tutto ok. Stiamo impazzendo a preparare tutto, però tranquillo” lo rassicurò, avere il dottor Reid con la sua goffaggine fra i piedi non avrebbe giovato affatto.
    Spencer fece spallucce. “Ok.. allora a dopo” e riattaccò.
    Si cambiò il pigiama e fece colazione, doveva ancora scrivere il biglietto di auguri per Madison, perciò si mise all’opera.
    Prese carta e penna e si sedette alla sua scrivania; fissò prima il foglio bianco senza righe davanti a lui poi il muro, scarabocchiò qualcosa. “Maddie, tanti auguri..”
    “Non va bene” si disse accartocciando il foglio che buttò nel cestino sotto la scrivania. Si appoggiò con i gomiti alla scrivania, posando il viso sul dorso delle mani e rimase pensieroso.
    Si rese conto di essere una frana nel fare gli auguri, non gli veniva in mente nulla, nessuna frase ad effetto, anzi nessuna frase, a parte il banalissimo “tanti auguri” che anche un bimbo di quattro anni sarebbe riuscito a pensare.
    “Un Q.I. di 187 e poi non so scrivere nemmeno un biglietto di auguri” pensò a voce alta, a quel punto si collegò su Internet alla ricerca di qualche frase simpatica da scrivere.
    Leggendo le frasi proposte da Google si scandalizzò. “ Ti auguro un compleanno felice, ma così felice... che più felice non si può”, ma che frase era?
    Accantonò l’idea di Internet e riprovò a spremere di nuovo le meningi, ricevendo infine l’illuminazione: sarebbe stato semplicemente sincero.
    “Ci ho provato a scriverti un biglietto di auguri, ma credimi non ne sono proprio capace; il meglio che riesco a fare è questo. Tanti auguri, Maddie.
    Ps: Lo so che fa schifo, ti accontenterai vero?”

    “Di sicuro degli auguri così brutti non possono che rimanere impressi” si disse rileggendo il bigliettino con la sua pessima calligrafia. Prese il bigliettino che mise dentro una bustina da lettera e la spillò al pacco regalo.
    Il resto della giornata trascorse lentamente, sembrava che le sette di sera, l’orario in cui doveva uscire per andare a prendere Hannah e Daniel, non arrivassero mai.
    Alle sette meno un quarto uscì di casa, non ne poteva più di aspettare. Arrivò alla stazione con largo anticipo, controllò il binario di arrivo del treno proveniente da New York city e si sedette ad un panchina.
    Alle sette e mezza spaccate, spuntò una coppia che litigava spingendosi a vicenda. “Come hai fatto a scordati il regalo di Mads? Ma sei un cretino!” urlava lei imbronciata.
    Spencer si alzò e andò al loro incontro. “Scema, figurati se l’ho scordato! È normale che lo abbia portato, è la prima cosa” disse lui ridendo. “Rimani comunque un idiota” rispose lei mentre s’infilava un cappellino di lana rosso in testa e i guanti abbinati.
    “Scusate voi siete gli amici di Madison?” domandò il dottor Reid leggermente in imbarazzo, come era solito accadere quando conosceva nuove persone. I due annuirono all’unisono. “Io sono Hannah e lui è Daniel. Tu devi essere Spencer, giusto?” domandò la giovane con tono cordiale, Reid le faceva tenerezza.
    Spencer annuì e rimase in silenzio fissando la coppia che lo fissava a sua volta. “Ehm… andiamo?” domandò Daniel.
    “Certo”esclamò il dottor Reid e si avviarono verso le scale.
    La coppia che seguiva Spencer lo fissava per cercare di capire che tipo fosse, sapevano che Madison lo considerava più che un amico e volevano ben inquadrare il tipo.
    Mentre erano in auto, Spencer provò a conversare con loro che erano eccessivamente loquaci per i suoi gusti, praticamente parlavano solo loro. “Sei di Las Vegas, scommetto!” disse Hannah riconoscendo l’accento del dottor Reid.
    Spencer annuì. “Non pensavo che si sentisse così tanto” ammise lui, la giovane gli disse che era particolarmente brava a decifrare gli accenti.
    Arrivarono a casa di Paget più tardi del previsto, avevano incontrato molto traffico sulla strada. Erano quasi le 9 quando riuscirono a imboccare lo stradone diretto a casa della mora.
    I tre scesero dall’auto e trovarono la porta aperta, s’infilarono dentro e trovarono Garcia scalza che sistemava i tavoli con Jennifer, la collega di Madison. “Ti serve una mano?” le chiese Hannah dopo essersi presentata assieme a Daniel.
    Garcia la ringraziò e diede ai tre qualche istruzione per finire di preparare il tutto.
    Finirono di sistemare tutto poco prima dell’arrivo delle due amiche, sentirono la voce di Paget dire alla festeggiata che aveva scordato il cellulare, insospettendo Madison che sapeva che Paget si portava il cellulare persino in bagno.
    La mora aprì la porta e trovò l’appartamento al buio, aspettò che Madison fosse dietro di lei e accese le luci.
    “Sorpresa” urlarono tutti all’unisono. “Lo sapevo” esclamò lei imbarazzata, le feste a sorpresa la imbarazzavano sempre.
    Abbracciò Paget, sicura che fosse stata lei ad organizzare il tutto. “Grazie tesoro” le mormorò all’orecchio mentre l’altra la sbaciucchiava. Era ancora abbracciata a Paget quando notò Hannah e Daniel che tesero le braccia, la giovane si staccò dall’amica e corse dai due. “Ci siete pure voi? Che bello” trillò la rossa mentre baciava sulle guancie Daniel e poi Hannah.
    “Si, anche se non dovremmo, visto che sei venuta a NY e non ci hai avvisati” la rimproverò Hannah incrociando le braccia.
    Madison rise. “Non è stata una piacevole visita, credimi”
    Li riabbracciò stritolandoli contro la loro volontà, e infine salutò il resto dei presenti con un abbraccio per ringraziarli, a quel punto Penelope, risalita sui suoi tacchi vertiginosi, accese lo stereo facendo partire la musica.
    Trascorsero tutta la serata a ridere e scherzare, Madison ne fu molto felice. Non aveva festeggiato il compleanno negli ultimi tre anni e le mancavano le feste di compleanno.
    Paget e Hannah organizzarono anche un balletto come ai tempi del college coinvolgendo anche Madison che si trascinò dietro il suo vecchio compagno di scuola, Daniel.
    Verso mezzanotte Paget fece il suo ingresso in salotto con la torta, cucinata da lei stessa, ovvero un pan di Spagna al cioccolato ripieno di crema alla nocciola e glassato con delle decorazioni di pasta di zucchero a forma di farfalla; Madison soffiò le candeline per la secondo volta e stappò una bottiglia di spumante facendo finire il tappo della bottiglia contro il soffitto che poi cadde in testa a Derek. “Scusami” gli disse mentre gli accarezzava la testa rasata.
    Dopodiché aprì i regali, Hannah e Daniel le avevano comprato un bauletto di colore blu, Penelope invece il suo profumo preferito, Miracle di Lancôme, Jennifer e Ron un’agenda in pelle. “Ci siamo stancati di vederti con quel cellulare in mano” dissero i due ridendo, mentre Derek e Paget, oltre la festa, le regalarono due biglietti per la mostra di Monet al National Gallery of Art. “Magari trovi qualcuno con cui andare” disse Paget sottovoce mentre glieli mostrava facendole un occhiolino.
    La festa continuò finché verso le due, Penelope, Jennifer e Ron, l’altro collega di Madison, si ritirano, seguiti dalla coppia Hannah e Daniel, che avevano un bed and breakfast per una notte, per i quali Derek aveva prenotato un taxi.
    “Ci vediamo domani, amore” le disse Hannah abbracciandola insieme a Daniel prima di salire sul taxi.
    “Spencer l’accompagni tu a Madison?” domandò Paget a Reid, che annuì. Madison ringraziò ancora una volta tanto Paget quanto Derek per la bella sorpresa che le avevano organizzato e uscì di casa portandosi le buste con i regali.
    Durante il tragitto, Madison accese la radio e beccò una delle sue preferite di Bon Jovi, “It’s my life”; “Nooo, posso alzare il volume? Ti prego”
    Spencer non fece nemmeno in tempo a rispondere che lei aveva già alzato il volume e iniziato a cantare a squarciagola, sotto lo sguardo divertito dell’altro. “Sei completamente pazza” le disse dopo aver assistito alla performance della dottoressa che adoperò il suo cellulare come microfono.
    Arrivati a casa, Madison salì di corsa le scale, non aveva affatto sonno. “Tu vai a letto?” domandò all’amico, che scosse la testa, mentre lei apriva la porta. “Devo darti una cosa” farfugliò e s’infilò in casa.
    Madison sollevò il sopracciglio. “Che mi devi dare?”, l’amico infilò una mano nella tracolla ed estrasse il pacco regalo che lo allungò verso di lei. “Un altro regalo? Wow! Non dovevi” disse lei, l’amico le rispose che era il minimo e poi la invitò ad aprirlo.
    “No, prima il biglietto” ribatté lei, aprì il foglio e lo lesse. “E’ perfetto così” disse ridendo.
    A quel punto scartò il proprio regalo. “E’ bellissima” affermò mentre la sollevava, si girò alzandosi i capelli e gli chiese di mettergliela. “Sai, dicono che l'azzurrite sia una pietra misteriosa e magica: ai tempi degli Egizi e dei Romani era considerata sacra perché favoriva il contatto diretto con gli Dei e l'interpretazione dei loro messaggi. Ancora oggi è usata come pietra per la meditazione e come talismano porta fortuna” le spiegò mentre chiudeva il gancetto della collana. “Dicono anche che faciliti la consapevolezza di sé e delle proprie idee”
    Madison si girò di nuovo verso di lui e gli sorrise mentre Spencer continuava a blaterare sulle proprietà dell’azzurrite.
    “Spencer, tu vuoi stare con me, vero?” disse d’un fiato senza pensarci, era stanca di aspettare.
    Reid sgranò gli occhi e deglutì, era finalmente arrivata la domanda che da tempo cercava di evitare. “Madison, io..”
    La dottoressa lo interruppe. “So tutto di lei, Spencer. Credimi, ti capisco, ma continuare così non ha senso. Lei non tornerà più, io invece sono qui ora” disse provando a prenderlo per mano.
    Spencer si scostò. “Non posso” disse a bassa voce. “Mi dispiace”
    Madison sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò indietro. “Non la posso accettare” aggiunse mentre gli restituiva la collana.
    “Ora per favore, vai via” pronunciò quelle parole dure e fredde che non lasciavano alcun addito a possibili repliche e andò a chiudersi nella sua camera di letto mentre Spencer usciva da casa sua senza poterla nemmeno salutare.


    Durante la notte Madison non riuscì a prendere sonno, continuava a rigirarsi nel letto ripensando alla conversazione di qualche ora prima. “Bel compleanno di schifo” disse a voce alta buttando i cuscini per terra.
    Si alzò dal letto, prese carta e penna e iniziò a scrivere una lettera per lui. Scrisse di getto, voleva che sapesse tutto della sua storia, era l’ultimo tentativo che si riservava prima di rinunciare per sempre.

    “Spencer, forse avrei dovuto dirtelo diversamente, ma ci sono cose che io non riesco a dire a voce alta perciò ho deciso di scriverti questa lettera. Spero che tu la legga fino in fondo.
    Il giorno in cui ti ho parlato della mia anoressia, non ti ho detto tutto, tu non hai chiesto e io ho preferito non raccontarti tutto ciò che volevo semplicemente dimenticare, ma ora voglio che tu sappia.
    Poco dopo che ho iniziato a lavorare come medico legale, ho conosciuto un uomo, Mason.
    Siamo stati insieme per più di due anni. Dopo un anno di fidanzamento, eravamo così felici insieme ché abbiamo deciso di andare a convivere. Per mesi andò tutto bene, litigavamo ogni tanto ma erano i normali litigi di una coppia, un giorno però Mason cambiò. Non ho mai capito cosa fosse scattato in lui, ma iniziammo a litigare sempre più spesso, anche senza un’apparente motivazione.
    Tuttavia pensai che fosse solo stress, che fosse sotto pressione a lavoro, quindi decisi di non farci caso. Per qualche mese la situazione si calmò, e fu allora che ricevetti la più bella notizia della mia vita, scoprii di essere incinta, non potevo essere più felice. Ricordo che corsi a casa per raccontarlo a Mason, pensando anche lui sarebbe stato contento quanto me, ma non fu così.
    Reagì molto male alla notizia, mi disse che ero stata un’incosciente perché non ero stata attenta, e uscì di casa sbattendo la porta. Dopo quella prima reazione, avrei dovuto capire che dovevo andarmene, ma non lo feci. Pensavo che avrei potuto recuperare il rapporto, mi sbagliavo. La situazione non fece che peggiorare, i nostri litigi si fecero sempre più accesi, al punto che Mason iniziò a mettermi le mani addosso.
    Dopo ogni eccesso di rabbia, si prostrava chiedendomi perdono, io avevo paura e stavo zitta; non saprei dirti perché glielo ho permesso, sapevo che era giusto andarmene ma non ci riuscivo.
    Arrivai al sesto mese di gravidanza, cercavo di resistere come meglio potevo. Evitavo i miei e gli amici perché non si accorgessero di quello che stava accadendo finché un giorno successe ciò che mai avrei voluto accadesse.
    Mason rientrò a casa ubriaco, mi tirò giù dal letto e iniziò a insultarmi pesantemente, provai a farlo ragionare, ma tutto ciò che ottenni fu una reazione ancora peggiore. Mi spinse facendomi cadere contro il tavolino in vetro del salotto; non ricordo molto su cosa successe dopo, persi conoscenza.
    Mi svegliai in una pozza di sangue, Mason era scappato. Chiamai subito i miei, ma ormai era troppo tardi. Avevo perso il bambino.
    Nei mesi successivi, tutto ciò che desideravo era scomparire, volevo che il mio ventre si seccasse per sempre, non doveva esserci alcuna vita in me. Ero convinta che fosse la cosa giusta, che io non meritassi di vivere e fu così che caddi in anoressia e in depressione. Il resto della storia la sai già, dopo due anni sono riuscita ad uscire da quel buco nero in cui ero caduta e ancora oggi vedere bambini mi fa stare male. Non so se questo possa cambiare qualcosa, ma volevo che lo sapessi.
    Volevo anche che sapessi che, grazie a te, in questi ultimi mesi sono stata felice, ora so che prendere la decisione di trasferirmi qui è stata quella giusta perché ho conosciuto te.
    Mi sono resa conto che ti amo, e spero che un giorno anche tu proverai lo stesso per me.”

    Finì di scrivere la lettera e scoppiò in lacrime, per se stessa ma soprattutto per il suo bambino; pensare a quel bimbo che non aveva mai visto la luce la rattristava e le faceva male. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro, ma questo non era più possibile.

    Qualche giorno più tardi, si recò nell’appartamento di Derek per salutarlo per le feste, trovò lì anche Paget che si stava preparando psicologicamente per il primo incontro con la famiglia dell’agente di colore.
    “Mads, ciao! Sei di partenza?” le domandò, sapeva che avrebbe trascorso le ferie a New York in compagnia della famiglia.
    “Sì, parto oggi” confermò lei. L’indomani sarebbe stata la vigilia di Natale, per cui preferiva partire con calma. “Volevo augurarvi un buon Natale, vi ho anche portato un pensierino” disse ad entrambi.
    Aveva regalato un soggiorno per due in una spa per un weekend. “Wow! Altro che pensierino!” esclamò Paget dopo averla ringraziata. Madison fece spallucce. “Mi avete organizzato una festa di compleanno, ve lo siete meritati”
    Rimasero a chiacchiera per un altro po’, poi Paget che doveva finire ancora le valigie, si scusò e tornò in camera a sistemare dopo aver salutato l’amica.
    “Derek, senti, avrei un favore da chiederti” esordì lei. “Potresti fare in modo che Spencer abbia questa?” domandò mostrandogli la lettera che aveva scritto. “Gliela devo dare?” chiese lui.
    Madison scosse la testa. “Infilala nella giacca o nella tracolla, ma non gliela dare in mano” gli ordinò, Derek la guardò stranito. Quei due sono davvero strani, pensò; tuttavia disse che avrebbe fatto come lei aveva richiesto.
    La dottoressa lo ringraziò, gli augurò nuovamente di trascorrere delle belle vacanze e partì per New York.

    Il giorno dopo, Derek prima di partire fece una piccola deviazione passando per l’appartamento del dottor Reid, che aveva deciso di trascorre tutte le ferie a Washington.
    “Reid, sono passato per augurarti buon Natale” si annunciò Derek una volta salito insieme a Paget.
    Approfittando di un momento di distrazione di Reid, che era andato in cucina a prendere un bicchiere d’acqua per la fidanzata dell’amico, infilò la lettera nella prima giacca che gli capitò a tiro.
    Dopodiché i tre si salutarono. “Mi raccomando, ragazzino” gli disse poco prima di andare via, Spencer lo rassicurò dicendogli che stava bene e dopo aver augurato alla coppia di passare un buon Natale e un felice anno nuovo, si rinchiuse nel suo appartamento, dove aveva deciso di trascorrere da solo tutte le feste, senza accorgersi minimamente della lettera.



    “Gli occhi pieni di te”


    Volano le libellule,
    sopra gli stagni e le pozzanghere in città,
    sembra che se ne freghino,
    della ricchezza che ora viene e dopo va,
    prendimi non mi concedere,
    nessuna replica alle tue fatalità,
    eccomi son tutto un fremito, ehi.



    Giunse l’ultimo giorno dell’anno, Spencer era seduto sulla sua poltrona davanti alla finestra abbracciato al libro che gli aveva regalato Maeve nella semi oscurità del suo appartamento. Si sentiva solo e svuotato mentre ascoltava il suono delle risate delle persone che passavano per le strade senza tuttavia vederle. Pensò che in mezzo a tutte quelle persone che festeggiavano l’inizio del nuovo anno doveva esserci anche lei. Avrebbe festeggiato?
    “Mi stai pensando?” si trovò a domandare ad un’ipotetica lei. La poteva immaginare ridere e scherzare con i suoi, ballare con i suoi amici. E lui cosa avrebbe fatto senza lei?


    Passano alcune musiche,
    ma quando passano la terra tremerà,
    sembrano esplosioni inutili,
    ma in certi cuori qualche cosa resterà,
    non si sa come si creano,
    costellazioni di galassie e di energia,
    giocano a dadi gli uomini,
    resta sul tavolo un avanzo di magia.


    Seduta a davanti allo specchio di camera sua, Madison sentiva il padre cantare alla madre la loro canzone mentre si truccava per la festa. Provò un po’ d’invidia nei confronti dei suoi, un giorno avrebbe festeggiato anche lei così?
    Le sembrò di sentire la voce di sua nonna Rosemary sussurrarle all’orecchio: “L’amore verrà”. Un tempo ci avrebbe creduto, ora non più; troppe delusioni aveva ricevuto per portarci credere.
    Si alzò e scese di sotto per accogliere gli invitati fingendo un sorriso.



    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti al cielo
    e non so leggere, vienimi a prendere,
    mi riconosci ho le tasche piene di sassi.



    Il telefono di casa squillò, Spencer si alzò di scatto dalla poltrona facendo cadere il libro. “Spencer” era la voce di sua madre. “Buon anno”
    “Buon anno anche a te, mamma” rispose con la voce triste che non sfuggì a sua madre. “Perché non sei da lei?” domandò Diana a suo figlio, che rimase in silenzio, non sapeva come rispondere a quella domanda.
    “Spencer, andare avanti non significa dimenticare” gli ricordò la madre. “Prova ad essere felice per una volta” e riattaccò.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti a scuola,
    mi vien da piangere,
    arriva subito,
    mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
    la faccia piena di schiaffi,
    il cuore pieno di battiti
    e gli occhi pieni di te.



    Riprese il libro da terra e lisciò la copertina; con un gesto automatico lo aprì e lesse la dedica che gli aveva scritto Maeve, non poteva essere più azzeccata, pensò. Se era vero che l’amore è il vero destino di ognuno di noi, sarebbe sbagliato correre da lei?
    Posò il libro sulla libreria accanto agli altri, lo sguardo cadde sulla sua giaccia posata sulla poltrona. Non aveva notato prima un foglio piegato spuntare dalla tasca. Lo prese e lo aprì, era la lettera di Madison.


    Sbocciano i fiori sbocciano,
    e danno tutto quel che hanno in libertà,
    donano non si interessano,
    di ricompense e tutto quello che verrà,
    mormora la gente mormora
    falla tacere praticando l'allegria,
    giocano a dadi gli uomini,
    resta sul tavolo un avanzo di magia.




    Madison si unì alle cugine e al fratello che stavano brindando all’anno nuovo; sollevò il calice verso l’alto. “A noi e all’anno che verrà” disse lei distrattamente. Suo fratello l’abbracciò e le diede un bacio sulla guancia. “Ti voglio bene” mormorò Brian, poi le offrì la mano per invitarla a ballare.
    Madison fece un inchino e accettò l’invito. “Anche io ti voglio bene” rispose mentre poggiava la testa sulla spalla di suo fratello. Sul suo viso nascosto scivolarono due lacrime mentre tutti si divertivano.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti al cielo
    e non so leggere, vienimi a prendere
    mi riconosci ho un mantello fatto di stracci.




    Nell’aprire la lettera, quel profumo inconfondibile misto di miele e di pesca gli invase le narici. Gli sembrò di sentire la sua voce mentre la leggeva. Inevitabilmente si commosse.
    Quella lettera era tutto ciò di cui aveva bisogno, ora sapeva cosa doveva fare.
    Prese le chiavi dell’auto e uscì di casa.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti a scuola,
    mi vien da piangere,
    arriva subito,
    mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
    la faccia piena di schiaffi,
    il cuore pieno di battiti
    e gli occhi pieni di te.




    Il telefono di Madison squillò svegliandola, con gli occhi ancora chiusi rispose. “Maddie, scendi giù?”
    Riconobbe la voce di Spencer immediatamente, si alzò dal letto e si affacciò alla finestra notando la figura del dottor Reid in strada, che guardava verso l’alto, non aveva idea di quale fosse la sua finestra.
    Indossò un cardigan e scese di corsa le scale.
    Fu come incontrarsi per la prima volta. I loro sguardi s’incrociarono, lei sorrise, lui sorrise. “Ciao” sussurrò Madison accarezzandogli il viso. Spencer la prese per mano e l’attirò a sé con delicatezza. “Scusami, se ci ho messo tanto” le
    disse mentre le posava un bacio sulla fronte.
    “Non importa” rispose Madison che appoggiò il viso nell’incavo del collo. Senza smettere di accarezzargli i capelli, gli sfiorò dolcemente il collo con le labbra.


    Sono solo stasera senza di te,
    mi hai lasciato da solo davanti al cielo
    vienimi a prendere
    mi vien da piangere,
    arriva subito,
    mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
    la faccia piena di schiaffi,
    il cuore pieno di battiti
    e gli occhi pieni di te.



    Rimasero abbracciati mentre pian piano le strade di NY s’illuminavano con i raggi del sole che sorgeva sulla città senza muoversi. “Mi prometti che sarà per sempre?” domandò lei alzando lo sguardo verso di lui che annuì.
    Spencer le prese il viso fra le mani, poteva sentire il battito del suo cuore contro il petto accelerare. Le sfiorò le labbra morbide con le dita e l’avvicinò ancora di più a sé.
    “Per sempre” sussurrò restituendole quel bacio, carico di speranza e di amore, che tempo fa le aveva negato.



    Angolo autore:

    La canzone è "Le tasche piene di sassi" di Jovanotti, ascoltala, è davvero molto bella.
     
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3 replies since 24/8/2013, 14:57   277 views
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