Profilers

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    AUTORE: Unsub
    TITOLO: Profilers
    RATING: Arancione
    GENERE: sentimentale, azione, introspettivo.
    AVVERTIMENTI: LongFic, What if?
    PERSONAGGI: nuovi personaggi, un po’ tutti.
    DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono (tranne quelli da me inventati), sono di Jeff Davis. Criminal minds appartiene alla CBS. Questa storia non è a scopo di lucro.

    Prologo

    Le porte dell’ascensore si aprirono e ne uscì un ragazzo vestito con un tailleur scuro corredato di una camicia bianca e di una cravatta a righe scure. Il fisico atletico era messo in risalto dal completo impeccabile, che cadeva a pennello. Le labbra si piegarono in un sorriso malizioso alla vista di tutte le stagiste che lo guardavano ammirate.
    Reid camminava sicuro di se lungo i corridoi dell’Unità Analisi Comportamentale di Quantico, più di una testa femminile si girò al suo passaggio. L’apprezzamento del gentil sesso lo metteva sempre di buon’umore, anche se come diceva sempre sua madre doveva darsi una regolata e smetterla di essere cosi vanitoso. Era un bel ragazzo e sapeva di esserlo, quando puntava una preda difficilmente questa disdegnava le sue attenzioni.
    Era appena entrato nell’openspace quando si sentì chiamare da una voce famigliare. Hotch era sulla porta del cucinino e lo guardava corrucciato.
    - Reid, ci hanno affidato una nuova recluta – iniziò Hotch tutto serio.
    - Perché lo dici con quel tono di rimprovero? – Reid si limitò a sollevare un sopracciglio, intuendo già la risposta.
    - E’ una ragazza.
    - Non mi sembra che con JJ ci siano stati problemi – disse facendo cenno alla profiler che occupava la scrivania di fronte alla sua.
    - Beh, spero che non ci siano problemi neanche con questa. Tieni i tuoi ormoni sotto controllo. Ti ricordo che le regole di comportamento…
    - Si, lo so, le conosco a memoria – sbuffò Reid spazientito – Non ti preoccupare, il mio motto è mai con una collega.
    - Però la stagista che se ne è andata due settimane fa…
    - Quella non era una collega – si giustificò il ragazzo con un’alzata di spalle.
    - Sei impossibile, lo sai vero?
    - Che vuoi che ti dica? Anche Morgan mi dice sempre che dovrei darmi una regolata…
    - Ma tu non ascolti nessuno.
    Il ragazzo si limitò a sbuffare andando a sedersi alla propria scrivania. La sua collega alzo gli occhi sorridendo. JJ non era stata un problema per lui. Se proprio avesse deciso di rischiare il posto per una ragazza, doveva essere qualcuno di unico, non certo un ex agente della SWAT. Non trovava attraenti le donne piene di muscoli, preferiva quelle più femminili.
    - Hotch ti ha fatto di nuovo la ramanzina? – chiese JJ continuando a sorridere.
    - Ultimamente si innervosisce per un nonnulla – rispose lui non dando importanza agli avvertimenti del suo collega.
    - Sai Reid, a volte non ti capisco proprio. Possibile che non ti abbia mia visto due volte con la stessa ragazza?
    - Mi annoio facilmente e poi sono troppo giovane per cominciare una storia seria. In fin dei conti ho solo venticinque anni – disse lui con un sorriso malizioso.
    Reid era il classico bel ragazzo che faceva subito colpo e proprio per questo non riteneva necessario avere una storia seria. Era intelligente, un vero genio. Per lui tutto sembrava facile e a portata di mano. Non aveva faticato ad entrare nel team e a mettersi in evidenza.
    Qualcuno doveva dare una bella regolata a quel bell’imbusto, si disse la ragazza. Beh qualcuno una regolata stava per dargliela, ma era l’ultima tipo di persona che il bel profiler avrebbe pensato potesse ridimensionare il suo ego.

    C'è chi dice che si riconosce il grande amore quando ci si rende conto che l'unico essere al mondo che potrebbe consolarci è proprio quello che ci ha fatto del male.
    (G. Musso)


     
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    Capitolo I. A new generation

    Reid, seduto alla sua scrivania, guardò verso l’ufficio del supervisore della squadra. La porta era chiusa e le veneziane abbassate. Corrugò la fronte, lavorava lì da due anni ormai e non era mai capitato che il capo tirasse giù le veneziane.
    - Abbiamo ospiti? – chiese rivolto a JJ mentre indicava l’ufficio sovrastante l’openspace.
    - A quanto pare… non conosco la donna che è andata dal capo.
    - Che tipo è?
    - Non il tuo genere – rispose la ragazza con una risatina – Cinquant’anni circa, bella donna. Elegante, raffinata e, dal modo in cui cammina e dalla postura, ti posso dire che è molto sicura di se. Il capo sicuramente la conosce, appena l’ha vista su quella faccia seria è spuntato un sorriso a trentadue denti.
    Reid tornò a guardare la porta chiusa e ingoiò. Quella descrizione si adattava perfettamente all’unica persona sulla faccia della terra in grado di metterlo in imbarazzo con due parole. Cercò di concentrarsi sui fascicoli dicendosi che non c’era motivo per cui sua madre si trovasse lì.
    La porta dell’ufficio del supervisore si aprì lasciando uscire Morgan seguito da Prentiss.
    - Allora siamo d’accordo? – domandò Derek rivolto alla donna.
    - Certo. Ne riparleremo più avanti, ma non credo ci saranno grossi problemi.
    Reid sorrise, pensando che quei due in ufficio si comportavano come perfetti estranei invece che come marito e moglie. Finalmente dalla porta usci il misterioso ospite del supervisore Prentiss. Il cuore di Chris mancò un colpo. Come temeva dalla descrizione sommaria che gli aveva fatto JJ, sua madre era stata a colloqui con il suo diretto superiore.
    Non che fosse una sorpresa per lui che il suo capo e sua madre parlassero fra loro. Fin da quando era piccolo aveva chiamato il capo sezione e il supervisore semplicemente “zio Derek” e “zia Emily”. Aveva impiegato non meno di sei mesi e tutta la sua concentrazione per non chiamarli in quel modo in ufficio. Si chiese perché sua madre si fosse incontrata con i suoi migliori amici proprio lì all’Accademia.
    - Squadra, questa è la nuova agente – disse Emily cominciando a fare le presentazioni.
    Reid sorrise guardando quella ragazzina, la predica di Hotch era stata superflua visto chi si trovava davanti. Era vestita in modo inappropriato visto il luogo dove si trovavano. Scarpe da ginnastica colorate spuntavano da un paio di jeans sbiaditi, una maglia dolcevita nera a maniche lunghe copriva il torace esile, il tutto corredato da una camicia sportiva verde militare lasciata sbottonata e con le maniche arrotolate. I capelli biondo scuro erano raccolti in una disordinata coda di cavallo che lasciava sfuggire ciuffi più corti che le ricadevano scomposti sul viso dai lineamenti regolari.
    Era carina, ma sembrava una ragazzina del liceo. Sicuramente non il genere di donna bella, elegante e sofisticata che Reid prediligeva.
    - Io sono l’agente Isabel Irons – disse la ragazza aspettando pazientemente che gli altri si presentassero.
    JJ e Reid si alzarono in piedi e si avvicinarono alla ragazza per stringerle la mano.
    - Io sono l’agente Jasmine Jordan, ma tutti mi chiamano JJ – disse la ragazza mulatta stringendo la mano all’ultima arrivata.
    - Io sono l’agente Christopher Reid – disse il ragazzo con un sorriso smagliante.
    La ragazza non lo degno di un secondo sguardo concentrando la sua attenzione su Hotch.
    - Io sono l’agente Jack Hotchner, occupo la scrivania di fronte alla tua – dopo aver lasciato la mano della nuova collega si voltò verso la donna più grande ferma ai piedi delle scale – Professoressa Collins.
    - Non serve che mi chiami cosi, Jack, mi fai sentire vecchia – rispose Sarah sorridendo al bel ragazzo che si trovava di fronte – Assomigli sempre di più a tuo padre.
    - Lo considero un complimento – per Jack Hotchner essere paragonato al suo eroe personale era sempre un piacere – Credo tu non conosca l’agente Jordan.
    Sarah si avvicinò alla ragazza e le prese la mano.
    - Lei è “quella” professoressa Collins – chiese la ragazza sgranando gli occhi.
    - Se ti riferisci alla terribile “miss ghiacciolo” che insegna profiling, ebbene si – scherzo lei, poi si girò verso Christopher – Chris.
    - Mamma – rispose il ragazzo estremamente serio.
    - La professoressa è tua madre – chiesero all’unisono JJ e Irons sbarrando gli occhi.
    - Si… - ammise il ragazzo con riluttanza.
    - Aspetta! – Isabel sgranò ancora di più gli occhi – Hai detto Reid? Tu sei il figlio di “quel” Reid?
    - Già – rispose per lui Hotch con un’aria contrariata.
    La ragazza parve molto colpita alla notizia e Chris sarebbe voluto sprofondare. Perché la fama dei suoi genitori doveva sempre farlo sentire cosi insignificante? Giravano voci che lui fosse lì solo perché figlio di. Strinse i pugni e serrò la mascella. Lui era un bravo profiler ed era stufo di doverlo sempre dimostrare e sentirsi continuamente sotto esame.
    Tutti si aspettavano grandi cose da lui solo perché era figlio di suo padre… il ragazzo si mise di nuovo a sedere e cominciò a sfogliare un dossier ostentando noncuranza.
    - Bene, io ora devo proprio andare – disse Sarah intuendo cosa si agitava nella mente di suo figlio maggiore.
    - E’ stato un piacere rivederti – disse Morgan stringendole la mano – Dovremmo uscire a cena una volta o l’altra.
    - Quando volete, Spencer sarebbe molto felice di avervi a cena – confermò Sarah con un sorriso – Emily, ci sentiamo presto.
    - Certo – Emily strinse l’amica di vecchia data in un abbraccio.
    Sarah uscì dall’openspace accompagnata da Irons. Le due continuarono a parlare fino a che le porte dell’ascensore non si chiusero. Isabel rimase qualche momento nell’atrio rimuginando su qualcosa, poi fece dietrofront e si mise a sedere alla sua nuova scrivania.
    - Irons, c’è ancora una persona che dovresti conoscere – le disse Hotch con un sorriso.
    - Chi?
    - La nostra tecnica informatica, vieni te la presento.
    Isabel si trovò a seguire il suo nuovo collega per i corridoi della sezione. Lo seguiva a qualche passo di distanza continuando a guardare a destra e sinistra per orientarsi. Arrivarono davanti ad una porta e Jack bussò con decisione. Una voce allegra diede loro il permesso di entrare.
    L’ufficio era senza finestre e su tutte le pareti dei monitor proiettavano immagine differenti l’una dall’altra. Le schermate a volte contenevano solo dati, altre immagini, altre ancora filmati. Una ragazza dagli improbabili capelli verdi si girò verso di loro.
    Era magra e piena di piercing: svariati sulle orecchie, ne aveva uno sul naso e un altro sul labbro inferiore. Era vestita tutta di nero in un tessuto che sembrava latex. Il trucco era eccessivo e pesante, Isabel avrebbe avuto paura di un tipo del genere incontrandola in un bar. Eppure il viso dell’altra si aprì in un sorriso amichevole che spiazzò la giovane profiler.
    - Ecco qui il nostro nuovo acquisto! – esordì la punk alzandosi in piedi e stringendole la mano – Io sono Cassandra Muller, ma puoi chiamarmi Puka.
    - Puka? – chiese la ragazza attonita.
    - E’ il mio nickname da hacker. Tu invece sei Isabel Irons, giusto? – chiese tornando a sedersi e cominciando a muovere le mani sul monitor.
    - Si – disse la ragazza sempre più perplessa da quello strano incontro.
    - Bene dolcezza, per qualsiasi cosa ti occorra rivolgiti pure a me. Per prima cosa il tuo distintivo sta arrivando, dovresti trovarlo sulla scrivania appena torni di là. Tra circa due ore ti aspettano giù al poligono per le prove di tiro. La tua arma ti sarà consegnata in giornata, sempre che tu superi l’esame.
    - Sei una specie di agenda umana? – chiese Irons ironicamente.
    - Puoi anche vedermi cosi. Io devo essere sempre al corrente di dove vi trovate e di cosa state facendo. Non ti preoccupare se ora ti sembra strano, tra qualche tempo non ci farai più caso… Spero che tu sia un tipo calmo.
    - Perché? – chiese la ragazza incuriosita dal tono di rimprovero dell’informatica.
    - Reid mi da un sacco da fare. Quel ragazzo non sta mai fermo nello stesso posto per più di mezz’ora. E’ letteralmente incontrollabile.
    - Non essere cattiva, Puka – intervenne Jack in difesa dell’amico.
    - E ragazza, un ultimo avvertimento.
    - Quale? – chiese Isabel cercando di mantenersi seria, quella conversazione le sembrava surreale.
    - Stai lontana da Reid. Quel tipo porta solo guai.

    Continua…

     
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    Capitolo I. Childs of art

    Isabel uscì dall’ascensore, era appena stata al poligono di tiro e aveva superato brillantemente l’esame. Nell’atrio, fuori dall’openspace, Reid chiacchierava amabilmente con due stagiste che pendevano dalle sue labbra.
    Gli occhi scuri di Isabel si strinsero fino a diventare due fessure. Quel ragazzo si credeva una specie di Casanova. Effettivamente era carino e quegli occhi verdi, uguali a quelli di sua madre, avevano un magnetismo innegabile. Era muscoloso, senza esagerare. Irons scommise che aveva anche la tartaruga scolpita che era ansioso di mostrare a quante più ragazze possibili.
    Un ragazzino presuntuoso che si trovava lì solo perché sua madre era uno degli istruttori più famosi dell’Accademia e suo padre era “quello” Spencer Reid. Superò il trio con noncuranza e si diresse alla parete delle celebrità cercando qualcosa. Rimase stupita di trovare un altro Hotchner su quella parete, allora anche Hotch era “figlio d’arte”, se cosi si poteva dire.
    Poco più avanti s’imbatté nel viso che cercava. Era proprio come se lo ricordava, solo più giovane. Si soffermò sulla foto del professor Reid ancora un attimo, c’era qualcosa che la colpiva, ma non capiva cosa. Poi ci arrivò, quando sentì ridere una delle due ragazze si voltò a guardarle. Chris era la copia di suo padre da giovane, le uniche differenze erano il colore dei capelli e quello degli occhi. Si chiese perché non l’aveva notato prima.
    Si soffermò sul suo nuovo collega ancora un attimo, qualcuno doveva dirgli di tagliarsi quei capelli lasciati lunghi fino alle spalle. Lo guardo lisciarseli, sicuramente molte ragazze impazzivano per quei boccoli neri come la notte. Grugnì contrariata, quel ragazzo gli stava già antipatico.
    Si voltò nuovamente verso le foto dei profiler che avevano lavorato lì prima di loro. Alcuni li conosceva di fama, come David Rossi e Jason Gideon, altri non li aveva mai sentiti nominare. Sperava un giorno di finire anche lei su quella parete e che qualche matricola si fermasse a cercare il suo nome. Improvvisamente sentì una presenza al suo fianco. Non le servì voltarsi per sapere di chi si trattava, aveva riconosciuto l’odore del dopobarba.
    - Allora, Irons? Superato l’esame? – chiese Chris con il sorriso malizioso che lo distingueva.
    - Sì, agente Reid.
    - Siamo di poche parole.
    - Mi è stato consigliato di non darle troppa confidenza. La sua “fama” è arrivata fino all’Accademia.
    - Sono solo pettegolezzi e poi la mia regola è “mai con una collega” – disse il ragazzo agitando una mano con noncuranza.
    - Immagino che questa regola se la sia imposta dopo essersi portato al letto Puka – rispose la ragazza allontanandosi con indifferenza.
    Hotch era appoggiato alla parete, proprio sullo stipite della porta, e con le braccia conserte assisteva divertito allo scambio di battute tra i due. Irons veniva verso di lui con un sorriso soddisfatto sul viso, mentre il povero Reid rimaneva fermo con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.
    - Sei riuscita a farlo rimanere senza parole. Complimenti non è da tutti – disse all’indirizzo della ragazza.
    - Che vuoi che ti dica Hotch, uno a zero per me – rispose lei tutta contenta.

    Christopher uscì di cattivo umore dall’ufficio. Si diresse con passo svelto alla sua auto, voleva andare in un bar rimorchiare una bella ragazza e chiudere la serata in bellezza. Quello che gli ci voleva per riprendersi dal colpo che gli aveva inflitto quella piccola mocciosa saccente. Non capiva come lei fosse riuscita a scoprire la sua breve avventura con Puka, ma la cosa non gli piaceva affatto.
    Si fermò davanti alla macchina riconoscendo la persona che era poggiata dal lato del passeggero. Sua madre lo osservava con uno sguardo divertito negli occhi verdi.
    - Te la senti, stasera, di rinunciare alle tue conquiste e offrire da bere a una vecchia signora – scherzò lei.
    - Mamma, tu non sei vecchia. Comunque, sì, ti offro da bere con piacere. Sarò l’uomo più invidiato del locale – disse lui baciandole una guancia.

    Erano seduti in un bar a bere un aperitivo. Come aveva previsto Chris molti uomini di mezz’età fissavano sua madre ammirati. Nonostante le tre gravidanze e l’età, aveva ancora un fisico invidiabile. Il tempo era stato buono con lei, a cinquantadue anni era ancora una donna bellissima.
    Prese il coraggio a due mani.
    - Non credo che tu mi abbia aspettato solo per farti offrire da bere – cominciò lui.
    - Infatti. Io e tuo padre ci chiedevamo quando ti degnerai di venire a trovarci.
    - Lo sai che le cene di famiglia non sono la mia passione – sbuffò lui.
    - Lo sappiamo entrambi che non è questo il motivo per cui non vieni da noi.
    Chris strinse i pugni. Era vero, c’era un motivo per cui non andava alle cene del venerdì sera con il resto della famiglia.
    - Tuo padre… - provò Sarah.
    - Mio padre ha lasciato l’unità per insegnare psicologia a Georgetown, ha abbandonato la sua squadra.
    - Non è cosi semplice, Chris – lei sospirò rumorosamente – Dopo la morte di Leane erano cambiate molte cose. Tutti noi eravamo cambiati. Lui si ritiene responsabile di quello che successe quel giorno.
    - Eppure ha continuato a lavorare lì per parecchio tempo, dopo.
    - Te l’ho detto, nessuno di noi era più lo stesso. Non credere che per lui sia stata una cosa facile abbandonare quella che, a tutti gli effetti, è la sua famiglia.
    - Non avrebbe dovuto farlo lo stesso – disse il ragazzo incrociando le braccia e assumendo un’espressione imbronciata da ragazzino.
    - Chris con il tempo capirai – lei scosse la testa cercando le parole adatte – Ti auguro di non sapere mai cosa vuol dire stringere il corpo di un tuo collega e vederlo morire. Ti cambia dentro per sempre.
    - Che cosa è successo quel giorno? Perché tu e papà non ne parlate mai?
    - E’ un dolore troppo grande, anche Derek non ne parla mai.
    - Eppure zia Emily è ancora là – insistette lui testardo.
    - Emily non era presente. Eravamo io, tuo padre e Derek.
    - Perché papà…?
    - Basta con tutti questi perché, Chris. Cresci una buona volta. Tuo padre ha passato un periodo difficile e ha preso la decisione che reputava più giusta. Anch’io dopo quell’episodio non ho più partecipato a un’indagine sul capo.
    Chris rimugino su quel che sua madre gli aveva detto. Sapeva che l’agente Cameron Leane era morta durante un’operazione e che i suoi genitori erano presenti. Sapeva anche che tutti loro erano molto legati a quella ragazza. Suo padre aveva continuato a lavorare nell’unità per sei anni prima di prendere quella decisione. Aveva cominciato a pubblicare libri di psicologia e sul profiling riscuotendo un grande successo. Poi era arrivata l’offerta di una cattedra alla Georgetown University e suo padre aveva accettato con entusiasmo. Lui all’epoca era un’adolescente, ma ricordava come suo padre fosse cambiato.
    Prima dalla morte della sua collega, quando era a casa, era sempre allegro e giocava con lui e le sue sorelle. Si divertiva a leggergli dei libri, a giocare a scacchi con lui e con il nonno. Improvvisamente quando rientrava dal lavoro si chiudeva nel suo studio, a volte non andava neanche a tavola a mangiare. Era diventato taciturno e sempre triste, non il papà allegro e simpatico della sua infanzia.
    Ricordava ancora la discussione che avevano avuto, quando Chris palesò la sua intenzione di diventare un profiler come suo padre, suo nonno e sua madre. Spencer era diventato rosso in volto e gli aveva detto che non se ne parlava proprio. Persino sua madre gli disse di ripensarci. Eppure loro erano stati dei profiler, anzi si erano conosciuti proprio sul lavoro.
    Suo nonno gli aveva detto che, proprio perché lo erano stati anche loro, volevano risparmiare al figlio quel tipo di esperienza. Un’esperienza che ti segna nel profondo e che ti porta via qualcosa. Chris aveva proseguito dritto per la sua strada, in fin dei conti dalla madre aveva preso anche la testardaggine. Era diventato un profiler ed era entrato nella squadra del suo amico Jack.
    Rimugino sul fatto che tutti i suoi più vecchi amici, in realtà, erano i figli degli amici dei suoi genitori. E che tutti gli amici dei suoi genitori erano stati membri della squadra. Sua madre aveva detto che la squadra era stata la famiglia di suo padre, lui dopo due anni capiva quello che lei intendeva.
    Era affezionato a Jack, Emily, Derek e JJ. Con Puka aveva rovinato tutto una sera che avevano bevuto troppo, eppure voleva bene a quella ragazza. Si chiese cosa avrebbe provato lui a tenere il corpo senza vita di una di quelle persone fra le braccia. Rabbrividì al solo pensiero. Riusciva a capire un po’ meglio suo padre e decise che il primo passo per una riconciliazione toccava a lui.
    - Venerdì chi ci sarà alla cena? – chiese infine.
    - Tutte e tre le tue sorelle, tuo nonno, io e tuo padre – rispose Sarah con una luce di speranza negli occhi.
    - Cristal e Susan vengono a Washington? – chiese lui perplesso.
    - Sai come sono. Hanno insistito per andare in due college diversi…
    - Lo so Cristal a Harvard e Susan a Yale – rispose Chris non riuscendo a capire il nesso.
    - Tutte quelle storie sul fatto che non volevano più essere le gemelline del gruppo e bla bla bla. Morale: vengono a casa per incontrarsi perché non riescono a stare separate – disse Sarah alzando gli occhi al cielo.
    Chris scoppiò in una sonora risata. Le sue due sorelline più piccole erano veramente irrecuperabili.

    Continua…
     
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    Capitolo III. Secret relations

    Hotch uscì dall’ufficio per ultimo, come al solito. A differenza di Chris, che cercava disperatamente di far dimenticare di chi era figlio, lui andava orgoglioso di essere il figlio di Aaron Hotchner e cercava di tenere alto il nome di famiglia. Era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via, come suo padre prima di lui. Sorrise al ricordo di come Prentiss e Morgan lo prendevano in giro chiamandolo “little Hotch”.
    La sua macchina era l’ultima rimasta nel parcheggio sotterraneo e lui vi si avvicinò con cautela. Si sentiva osservato, come se ci fosse qualcun altro lì con lui. Scrollò le spalle e si diede dello stupido. A quell’ora i suoi colleghi erano sicuramente tornati a casa e quindi non doveva esserci nessuno nel garage.
    Si accosto allo sportello del guidatore e fece scattare la serratura. Improvvisamente si sentì afferrare da dietro e un gridolino di sorpresa gli sfuggì dalle labbra.
    - E’ cosi facile spaventarti, agente speciale Jack Hotchner? – chiese una voce femminile alle sue spalle.
    - Un giorno o l’altro mi farai prendere un colpo, lo sai vero? – disse lui ridendo e girandosi verso la ragazza mora – Non dovresti venire qui, qualcuno potrebbe vederci.
    - Chris se n’è andato da un bel po’ – disse lei sorridendo – A quest’ora si stare lavorando la solita oca bionda in qualche bar del centro.
    Lui le mise una mano sulla nuca e la attirò a sé baciandola con passione. Lei rispose al bacio aggrappandosi al collo di lui, come se fosse un’ancora di salvezza nel turbine di quelle emozioni.
    - Dovremmo smetterla di vederci di nascosto – mormorò sulle labbra di lei.
    - Non credo che Chris la prenderebbe bene. In fin dei conti sei il suo migliore amico…
    Lui si scostò leggermente per guardarla meglio. Era bellissima. La carnagione pallida era messa ancora più in evidenza da quella massa scomposta di riccioli neri. Ricordava di aver visto le foto di Sarah da giovane, durante gli anni nella squadra. Elizabeth le somigliava come una goccia d’acqua, tranne che per un dettaglio. Sarah aveva gli occhi verdi, mentre Lizzy lì aveva nocciola come il padre.
    - Lo sai che tutto questo è assurdo, vero? – chiese l’uomo carezzandole il viso.
    - Jack, vuoi smetterla di analizzare sempre tutto e tutti. Io ti amo e tu hai detto di amare me. Perché ci dovremmo fare tutti questi problemi?
    Jack sospirò. Conosceva Lizzy fin da bambina, l’aveva vista nascere, avendo otto anni più di lei. Fin da piccola lei l’aveva sempre adorato, ogni volta che andava a trovare i Reid, Lizzy si sedeva sulle sue gambe con un libro e gli chiedeva di leggerle una favola. Crescendo si erano persi di vista come era normale che succedesse, ma con l’ingresso di Chris nella squadra era ricominciata la frequentazione fra i tre ragazzi. Elizabeth era sempre stata la cocca del fratello maggiore e quindi andava spesso a trovarlo in ufficio, quando le lezioni all’università glielo permettevano.
    Lei e Jack, ormai adulti, avevano cominciato a guardarsi in modo diverso. Non erano più gli amici d’infanzia, ma qualcosa di completamente diverso. Da circa un anno si frequentavano di nascosto. Tutte le volte che il lavoro di lui lo permetteva, si vedevano anche solo per cinque minuti, anche solo per dirsi quanto erano importanti l’uno per l’altra.
    Non avevano fatto parola del loro legame con nessuno. Chris era estremamente geloso e protettivo nei confronti della sorella e Jack era il suo migliore amico. Non pensavano che lui avrebbe gradito la cosa. Inoltre i loro genitori erano amici di vecchia data e li avevano fatti crescere come membri di una stessa famiglia.
    A ogni ricorrenza, si riunivano tutti a casa dei Reid e festeggiavano tutti insieme. I bambini si erano ritrovati in un ambiente pieno di zie e zii e cuginetti. Jack, Henry, Chris e Lizzy si erano sempre ritrovati a giocare insieme nella grande casa in stile Tudor.
    Più tardi al gruppo si erano uniti altri bambini: le gemelle Cristal e Susan, la figlia di Emily e Derek, i due bambini di Penelope e per ultimo il fratellino di Henry. Erano stati un gruppo affiatato, non c’erano mai litigi come spesso succede fra bambini.
    Con l’andare del tempo, gli incontri si erano fatti sempre più sporadici, fino a perdersi completamente di vista.
    Mentre pensava a tutto questo, Jack si domandò cosa ci sarebbe stato di male a venire allo scoperto. Non credeva che Sarah e Spencer sarebbero stati contrari alla cosa. Suo padre ne sarebbe stato entusiasta, visto che aveva un debole per quella ragazzina sempre cosi seria e composta. Eppure era sicuro che Chris sarebbe andato su tutte le furie e l’avrebbe considerato una specie di tradimento.
    Decise di non pensare a tutto questo e di godersi quei pochi momenti che riuscivano a ritagliarsi.
    - Vuoi che ti porti a cena? – le chiese con un sorriso dolce.
    - Se passassimo a prendere dei take away e poi ci rifugiassimo nel tuo appartamento? – chiese lei maliziosa.
    - Non hai lezione domani? – chiese lui dubbioso.
    - No, non prima delle undici almeno. Potrei fermarmi a dormire da te e domattina mi accompagni all’università.
    - Proposta interessante, possiamo cominciare a negoziare – scherzò lui baciandola di nuovo.

    Puka si massaggiò il collo dolorante, erano le otto passate e lei era ancora in ufficio. Sbuffò spazientita, quel lavoro stava massacrando la sua vita sociale. Decise che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza e tornò a casa.
    Durante il tragitto i suoi pensieri andavano a Chris e a come si era comportato male con lei. Non che fosse innamorata di lui, non era proprio il genere di persona che poteva destare un interesse romantico in lei, eppure prima di quella storia di una notte erano stati amici. Si divertivano molto insieme, qualche volta andavano anche in giro a rimorchiare nei bar.
    Puka non aveva mai nascosto la sua natura bisessuale, per lei non era un problema. Non si era mai posta limiti sul chi, dove, cosa, quando. Nel suo passato c’erano uomini e donne. Tutti diversi fra loro, come se stessa ancora decidendo cosa l’attirava e cosa no.
    Con Chris era stata una piacevole stupidaggine causata dall’alcol. Si erano divertiti tutti e due e sarebbe potuta finire cosi, una breve parentesi nella loro amicizia. Invece lui aveva cominciato a evitarla di proposito, non le rivolgeva la parola se non per motivi di lavoro e aveva smesso anche di andare nel suo ufficio se poco poco riusciva a sottrarsi a quell’incombenza.
    Lei aveva provato a spiegargli che era tutto a posto, che non era successo niente di irreparabile. Ricordava bene la reazione di lui, si era chiuso a ricci e le aveva detto che non voleva illuderla. Era stato un errore che non si sarebbe ripetuto, lei aveva prontamente annuito e cercato di spiegargli che la pensava nello stesso modo.
    Lui l’aveva prevenuta dicendogli che non intendeva più frequentarla, che non era proprio il caso di continuare a mettersi in una situazione imbarazzante. Si era comportato come la vittima di una psicopatica che pretendeva chissà cosa dopo una notte di sesso. Lì era successo l’irreparabile, sentendosi ferita dall’atteggiamento da uomo braccato di lui aveva reagito in modo spropositato.
    - Sentimi bene, damerino, non credere che quella dell’altra notte sia stata un’esperienza strabiliante per me. Quindi non preoccuparti, non sarà un grande sforzo stare lontana dal tuo letto. E tra parentesi, non sei neanche questo granché al letto.
    Si morse la lingua troppo tardi, aveva ferito l’orgoglio di un maschio alfa e se ne rendeva conto benissimo. Lui serrò la mascella e i pugni guardandola con odio. Si voltò e da allora le cose fra loro due non erano state più le stesse. Semplicemente s’ignoravano.
    Sospirò pensando che non avrebbe più recuperato l’amicizia di Chris, troppo innamorato di se stesso per superare un affronto simile. Diede un pugno al volante rimproverandosi di pensare ancora a questa cosa. Il discorso era molto semplice: una volta erano amici, ora non lo erano più, stop.
    Parcheggiò la macchina e si diresse al suo appartamento con passo svelto. Voleva solo dormire fino al mattino dopo.

    JJ era sotto la doccia della palestra. Come ogni sera si era fermata per fare un po’ di pesi e qualche esercizio con i macchinari. Teneva molto a mantenere il suo corpo agile e scattante, per quanto fosse stanca non rinunciava mai ai suoi esercizi serali. Le uniche volte che saltava quell’appuntamento con se stessa era durante i casi fuori sede, per ovvie ragioni. Però s’imponeva sempre di fare qualche addominale e qualche piegamento prima di andare a dormire.
    Sapeva di non essere femminile come altre ragazze, ma non le era mai importato molto. Chris e Jack non la degnavano di uno sguardo e per lei era un sollievo. Si vergognava di dover ammettere il perché non frequentava nessuno fuori dall’ufficio.
    Anche se ormai nessuno ci faceva più caso, o almeno cosi diceva, essere una lesbica portava ancora un sacco di problemi negli uffici governativi. Pensò a Puka e la invidiò. Lei non si era mai fatta problemi ad ammettere che era attratta sia da uomini che da donne, eppure tutti la stimavano e la rispettavano.
    Odiava il fatto di essere cosi insicura da non aver mai ammesso con nessuno di non essere etero. Aveva scoperto la sua omosessualità fin da ragazzina. Mentre le altre guardavano con ammirazione il capitano della squadra di football, lei aveva occhi solo per la sua migliore amica. Non le c’era voluto molto per capire perché pensava costantemente a lei. Aveva avuto qualche avventura passeggera, mai niente di serio. Almeno fino a pochi mesi prima.
    L’incontro con Michelle le aveva cambiato la vita. Quella ragazza era una manna dal cielo per lei sempre cosi titubante nell’ammettere i suoi sentimenti. Capendo quanto fosse difficile per JJ ammettere cosa provava e soprattutto per chi lo provava, Michelle aveva preso l’iniziativa e l’aveva messa di fronte a quei sentimenti che non voleva ammettere.
    Era stata comprensiva con lei, non le aveva mai imposto di vivere la loro relazione alla luce del sole. Anzi, le aveva detto che capiva perfettamente perché non voleva dire niente ai suoi colleghi. Michelle era sempre stata buona e paziente con lei.
    Sorrise pensando che probabilmente, mentre lei si stava vestendo per tornare a casa, Michelle era tutta presa in cucina per farle trovare qualcosa di buono da mangiare. Uscì nell’aria frizzante della sera e si diresse fischiettando verso il loro appartamento. Era una donna fortunata e lo sapeva.

    Continua…

     
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    Capitolo IV. Collide

    Isabel uscì dall’ascensore con un bicchiere di caffè in mano, si sentiva di buonumore. Dopo aver zittito quel pallone gonfiato di Reid, era tornata a casa e si era concessa un lungo bagno caldo. Si sentiva rilassata e sicura di se, quel casanova da strapazzo avrebbe evitato di incrociare ancora la sua strada dopo la figuraccia del giorno prima. Come al solito si sbagliava.
    Appena entrata nell’openspace se lo ritrovò davanti con un sorriso malizioso stampato in faccia e lo sguardo di chi la sa lunga. Odioso già di primo mattino, era riuscito a rovinare la giornata solo con la sua presenza. Lei lo guardò con sufficienza e fece per andare alla sua postazione.
    - Allora, Irons, siamo sempre di pessimo umore la mattina o riservi quello sguardo solo a me? – chiese Chris aggiustandosi la cravatta con una mano.
    - Ed io devo sentirmi lusingata o rompi le scatole a tutti in ufficio? – rispose lei acida.
    - Sai il gioco comincia a stufarmi, ragazzina.
    - Non ti azzardare mai più a chiamarmi cosi! Hai solo un anno più di me e certe confidenze non te le puoi permettere, capito? – lei sembrava davvero furente.
    - Perché, altrimenti che mi fai? – insistette lui sempre più divertito dalla situazione – Mi sculacci?
    - Non mi spreco neanche a risponderti, pallone gonfiato.
    Isabel s’incamminò tutta impettita verso la sua scrivania, ma Reid non la mollava. Hotch scosse la testa preparandosi ad assistere a una scenata, mentre JJ osservava la scena con gli occhi sbarrati. Chris stava tirando troppo la corda con la nuova arrivata.
    - Battiamo in ritirata?
    Irons era al culmine della sopportazione. Si voltò come una furia, poi si fermò come se un pensiero le fosse balenato in mente solo in quel momento. Si calmò come d’incanto e un sorriso cattivo le si dipinse sul volto.
    - Beh, io non ho tempo da perdere. Vedi noi – disse indicando Jack e JJ – dobbiamo lavorare, non siamo qui solo perché è pieno di ragazze disponibili.
    - Come sarebbe a dire scusa? – era il turno di Reid di cominciare a incassare colpi.
    - Andiamo, don Giovanni, tu sei qui solo per portarti a letto le ragazzine che fanno lo stage. Magari è il caso che ti concentri su una di loro e lasci i professionisti liberi di lavorare.
    Chris era livido in volto, quella mocciosa stava insinuando che lui non era un professionista. Beh, glielo avrebbe fatto vedere lui! Si mise a sedere alla sua scrivania e cominciò a sfogliare i dossier come un forsennato.

    - Cosa gli ha detto? – Puka era allibita e divertita insieme dal racconto di JJ.
    - Ti giuro! E dovevi vedere Reid, si è tuffato sul lavoro come un matto e non ha alzato più la testa.
    - Quella ragazza è un fenomeno!
    - Puoi dirlo forte – JJ rise di gusto – Non ho mai visto nessuno riuscire a rimettere Reid al suo posto con due parole.
    - Mi sa che il nostro grand’uomo ha trovato pane per i suoi denti, finalmente – Puka si aggiusto i capelli ingelatinati e sorrise – Per la prima volta vorrei avere una scrivania di là nell’openspace, giusto per gustarmi la scena.
    - Credi che quei due finiranno con l’ammazzarsi a vicenda? – chiese JJ preoccupata della reazione di Chris.
    - Figurati! Se quella tipa è tosta la metà di come me l’hai descritta il nostro Reid non ha speranze di cavarsela stavolta.
    - Cosa intendi dire? – Jordan non riusciva più a seguire i ragionamenti dell’amica.
    - Che o si piega o lei lo spezza. Sono pronta a scommettere che la vincitrice dello scontro sarà lei. Chris non è abituato a essere trattato in quel modo da una ragazza.
    - Tempi duri per i maschi alfa – disse una voce dal timbro baritonale alle loro spalle.
    - Dici Hotch? Ha rimesso in riga anche te? – chiese Puka facendo fare su e giù al piercing sul sopracciglio destro.
    - Io non mi permetterei mai di importunarla come sta facendo Reid – rispose lui sistemandosi la giacca – Lo sapete che io sono un gentiluomo.
    Le ragazze scoppiarono a ridere seguite da Jack. Derek si era trovato a passare di lì e aveva ascoltato tutta la conversazione. Sorrise pensando che stavolta Chris avrebbe dovuto darsi una regolata, se Sarah aveva visto giusto Irons era più tosta di Ron ai tempi d’oro. Il pensiero dell’amica lo fece sentire di nuovo triste e spaesato, come i primi tempi dopo la sua morte. Fece dietrofront e tornò nel suo ufficio.

    - E’ veramente cosi insopportabile? – Kathy era tutta presa dal suo gelato mentre parlava con l’amica.
    - Insopportabile è dire poco. E’ di un’arroganza stratosferica, crede che siccome è il figlio del professor Reid e della professoressa Collins sia suo diritto di nascita stare lì. Mi sorprende che non l’abbiano già messo alla porta a pedate nel didietro – Irons stava martoriando il suo gelato continuando ad affondare il cucchiaio con rabbia.
    - Almeno è un bel didietro? – s’informò Kathy con un sorriso furbo.
    - Come scusa? – Isabel cercava di far finta di non capire.
    - Andiamo, è un bel ragazzo oppure no?
    - Carino – ammise lei contro voglia.
    - Non è quello che si dice in accademia – insistette l’amica.
    - Ok, ok, è un vero schianto. Peccato che rovini tutto con quell’atteggiamento da supermacho e con quella linguaccia – ammise infine lei controvoglia.
    - Beh almeno hai un bel panorama. Alla sezione colletti bianchi sono tutti vecchi rimbecilliti e scorfani inguardabili – si lamentò l’altro agente – Invece pare che lì da voi sia sempre pieno di bei ragazzi.
    - Beh, anche Hotch non è male. Ma non è disponibile – si dolse Isabel con un sospiro – Un vero peccato visto che lui si che sarebbe il mio tipo.
    - Che intendo con “non è disponibile”?
    - Stamattina aveva un succhiotto sul collo e non mi sembra tipo da avventura di una notte.
    - Quindi ha la ragazza? Peccato, dicono che sia affascinante come suo padre.
    - Sapevi che anche suo padre era un profiler? – chiese Isabel guardando i ragazzini giocare nel parco.
    - Certo! E’ stato persino caposezione prima di Morgan.
    - Wow! Sono capitata nella squadra dei figli d’arte… Si può sapere con chi lavoravano Hotchner e Reid?
    - Certo! Se passi dopo da me, ti do la cartella con la storia della squadra.
    - Potrebbe essere interessante…

    Isabel era tutta presa dalle informazioni che le aveva reperito Kathy e non si accorse che qualcuno si stava avvicinando.
    - Che cosa leggiamo con cosi tanto impegno? – s’informò Chris cercando di provocarla.
    - La storia di come tu sia finito a fare il profiler, mentre è chiaro che dovresti essere in giro a fare il gigolò – rispose lei non alzando gli occhi dai fogli.
    - Senti, credo che sia ora che tu la faccia finita!
    - Strano, è quello che pensavo io di te – disse lei alzandosi in piedi di scatto a fronteggiarlo.
    - Buoni, bambini, state buoni – li ammonì Hotch non alzando gli occhi dal fascicolo – Se vi becca Prentiss ve la fa passare lei la voglia di litigare.
    I due si guardarono in cagnesco ancora per qualche minuto e poi ognuno tornò a sedersi alla propria scrivania. Cercarono di ignorarsi per il resto della giornata.

    Prentiss aveva assistito alla scena dal suo ufficio. Un sorriso gli increspò le labbra. Quei due sembravano cane e gatto. Aveva visto altre volte un comportamento del genere fra colleghi e puntualmente uno dei due aveva lasciato il posto di lavoro. Era decisa a non intervenire nella faccenda, se Sarah aveva visto giusto, Irons poteva essere il futuro della squadra e lei sperava ardentemente di poter lasciare quel posto a qualcun altro il prima possibile. Ormai era stanca di girare per il paese nel tentativo di fermare tutta quella violenza. Le sue speranze le aveva riposte in Jack e Chris, ma il giovane Reid era troppo preso da se stesso per essere un buon agente supervisore. Per Jack c’erano ancora speranze.
    Sospirò mentre apriva il cassetto e ne tirava fuori una vecchia foto. La squadra al completo intorno ad un tavolo. Quella volta avevano lasciato a casa i bambini e si erano concessi una serata per soli adulti. Nella foto c’era anche Leane che sorrideva mentre Derek le scompigliava i capelli. Sentì una lacrima rigarle il viso, era stanca di dover dire addio ai suoi amici.

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    Capitolo V. Early morning

    JJ si stava finendo di vestire. Era seduta sul letto e si stava allacciando gli anfibi, guardò l’orologio in preda alla frenesia. Doveva andare in ufficio e si stava facendo tardi.
    Sentì Michelle agitarsi nel letto e strinse gli occhi. Avrebbe tanto voluto essere accompagnata al lavoro da lei, ma non poteva senza svelare il suo “segreto”. Non voleva presentarla come una semplice amica, specialmente con Reid nelle vicinanze. Si girò ad ammirare l’esile bellezza della sua ragazza. Era bionda e pallida, il corpo magro sembrava dover andare in frantumi se solo l’avesse stretta un po’ di più. Si girò nuovamente e riprese il suo lavoro.
    Michelle si mise in ginocchio sul letto e le si avvicinò abbracciandola da dietro.
    - Mi dispiace – cominciò JJ cercando le parole.
    - Non devi preoccuparti, va bene cosi. Inoltre, dubito che i tuoi colleghi si facciano accompagnare al lavoro dalle “fidanzate” – rispose le con un sorriso.
    - Lo sai che ti amo, vero? – chiese JJ afferrandole una mano diafana.
    - Ricordati solo una cosa. Il tuo nome.
    - Jasmine? – chiese lei ridendo.
    - Non si pronuncia cosi…
    - E come si pronuncia? – chiese la ragazza mulatta girandosi per abbracciarla.
    - Just mine – rispose la bionda prima di baciarla.

    Puka si stava gustando il suo caffè prima di uscire da casa. Il compagno che aveva scelto per la notte se ne era andato nella notte con sua somma soddisfazione. L’unico a cui avesse mai permesso di fermarsi a dormire a casa sua “dopo” era stato Chris, il suo più grande errore.
    Stava lavando la tazza quando il gatto cominciò a strusciarsi sulle sue gambe.
    - Ehi, dormiglione, ben’alzato! – disse mentre prendeva una scatola di cibo per gatti – Lo sai che cosa ti dico, Lollipop, tu sei l’unico maschio che sono contenta di avere nel mio letto.
    Il siamese guardò attentamente la sua padrona prima di tuffarsi con golosità sulla ciotola. Puka andò verso la sua camera canticchiando e si finì di preparare per la giornata.

    Jack era fermo in mezzo alla stanza mentre Elizabeth finiva di fargli il nodo alla cravatta. Era rimasta di nuovo a dormire lì quella notte. Lui sorrise al pensiero che non gli dispiaceva affatto svegliarsi con lei accanto la mattina, anzi la cosa lo metteva di buonumore.
    - Ecco fatto – disse la ragazza mentre gli aggiustava la giacca – Ora sei perfetto!
    - Sono molto lontano dalla perfezione – rispose passandole le braccia intorno alla vita – L’unica cosa perfetta che vedo qui sei tu.
    - Chi l’avrebbe mai detto che il serio e composto Hotch si lasciasse andare a queste frasi romantiche e smielate – rise Lizzy scompigliandogli i capelli – Credevo fosse impossibile far perdere il controllo a un Hotchner.
    - Credo che io sia l’unico Hotchner che perde il controllo, ma solo per colpa tua – le disse baciandola ancora una volta.

    Christopher era di pessimo umore mentre finiva di vestirsi. Da una settimana non andava più a rimorchiare nei bar del centro. L’ultima discussione che aveva avuto con Irons aveva fatto nascere in lui il desiderio di dimostrarle che era in grado di essere serio e professionale. Non sopportava l’insinuazione, da lei fatta, che si trovava nella squadra solo per via dei suoi genitori.
    Serrò la mascella al ricordo di come l’aveva apostrofato. Gigolò. Come se lui fosse solo un passatempo per qualche donna bisognosa di attenzione. Glielo avrebbe mostrato cosa poteva essere. Aveva deciso di essere il migliore della squadra, di umiliarla sull’unico terreno che avevano in comune.
    Sbatte con stizza il pugno sul comò. Quella ragazzina arrogante aveva passato il segno una volta di troppo! Odiava profondamente Isabel Irons e le avrebbe reso la vita un vero inferno fin tanto che si fosse ostinata a rimanere nella squadra.
    Afferrò la valigetta e uscì di casa sbattendo la porta.

    Inconsapevole dei pensieri del suo collega, Isabel stava tranquillamente dirigendosi al lavoro mentre ascoltava il radiogiornale. Rimuginava su quello che aveva letto nei dossier riservati che le aveva procurato Kathy.
    Aveva appreso che Reid era il terzo della sua famiglia a intraprendere la carriera di profiler. Anche se portavano cognomi Sarah Collins era figlia di Jason Gideon, che ai suoi tempi era stata una delle colonne portanti dell’unità. Era piuttosto famoso, non come David Rossi uno dei fondatori, ma tutte le matricole l’avevano sentito nominare in relazione a molti casi risolti.
    Isabel era furiosa, lei aveva studiato tutta la vita per prepararsi a quel lavoro, la sua strada era stata sempre in salita. Nessuno l’aveva aiutata e si era guadagnata quel posto con caparbietà. Christopher Reid era un pallone gonfiato che, a causa del nome che portava, tutti tenevano in grande considerazione. Sicuramente suo padre, sua madre e suo nonno aveva fatto pressioni perché fosse accettato alla B.A.U., tutto ciò era inammissibile.
    Quel ragazzino viziato occupava un posto che spettava a qualcuno più preparato e competente di lui, che non si lasciasse distrarre dalla prima gonnella che gli passava sotto il naso. Dopo la loro ultima discussione in ufficio avevano passato il resto della settimana a ignorarsi completamente. Lui aveva cominciato a impegnarsi di più sul lavoro, ma Isabel non credeva che sarebbe durato.
    Aveva preso una decisione, sarebbe stata la migliore dell’unità e lo avrebbe umiliato. L’avrebbe costretto ad ammettere che non era idoneo a quel tipo di lavoro, si ripromise di metterlo nella condizione che dare le dimissioni fosse la sua ultima via di salvezza.
    Non avrebbe tollerato ancora a lungo la presenza di quel buono a nulla nella sezione più elitaria dell’F.B.I., anche se aveva un debito di riconoscenza nei confronti dei suoi genitori. Il dottor Reid era stato il suo professore di psicologia alla Georgetown e l’aveva ammessa al corso di “introduzione al profiling”. Molti studenti avrebbero ucciso per entrare in quel corso, ma il dottor Reid non accettava tutti. Anzi, era molto selettivo, un anno il corso era stato annullato per mancanza di candidati idonei e l’anno in cui l’aveva frequentato lei erano solo tre studenti.
    Una volta laureatasi ed entrata all’Accademia, lui l’aveva raccomandata a sua moglie, la terribile professoressa Collins. Un vero cerbero, dagli occhi di ghiaccio, famosa soprattutto per essere l’insegnante più esigente dell’Accademia. Essere fra i primi del suo corso era una vittoria che nessuno dava mai per scontato. Si favoleggiava di un ragazzo che era fra i primi ma che lei aveva reputato non idoneo all’inserimento in una squadra di profiler.
    Eppure non solo lei era stata reputata idonea, la Collins aveva addirittura fatto pressioni perché venisse ammessa. L’aveva accompagnata al colloquio con l’agente supervisore e con il capo sezione, dicendo loro che la reputava un ottimo acquisto per il team.
    Non poteva credere che persone cosi preparate favorissero quel figlio scapestrato che giocava a fare l’agente federale. Era inconcepibile che fosse tollerata una situazione simile.

    Appena sceso dalla macchina Chris si ritrovò davanti la persona che meno di tutte aveva voglia di vedere in quel momento. Irons aveva il posto auto difronte al suo e lo stava fissando dopo aver parcheggiato. I due ragazzi si fecero incontro e si fermarono ad un soffio uno dall’altra.
    - Irons, abbiamo addirittura la patente… chi è quel pazzo che ti ha autorizzato a guidare? – Chris era sul piede di guerra.
    - Almeno io non ho santi in paradiso che mi aiutano – disse lei cattiva.
    - Lo sai che è guerra, vero ragazzina?
    - E guerra sia, bell’imbusto. Non sarò io ad uscirne con le ossa rotte.
    - Non ci scommetterei, ho visto gente più dura di te spezzarsi sotto la pressione che questo lavoro comporta. Fidati, tu non sei abbastanza tosta, questo non è il tuo posto.
    - Se mai non è il TUO posto damerino. Quelli come te si rifugiano sempre dietro qualcun altro, lasciando i compagni in difficoltà. Vedremo chi sarà a spezzarsi.
    Si fronteggiarono ancora un attimo e poi andarono ognuno per la sua strada.

    Puka aveva assistito alla scena da dietro una colonna. Sorrideva soddisfatta all’idea che qualcuno avrebbe sistemato Reid una volta per tutte. Li avrebbe sicuramente fermati prima che uno dei due si facesse male sul serio, ma aveva tutta l’intenzione di guardare il suo ex amico che si scontrava con una volontà forte quanto la sua.
    Jack le posò una mano sulla spalla.
    - Credo che sia ora che qualcuno si metta in mezzo – le disse continuando a guardare Chris che si allontanava dal parcheggio.
    - Non ancora. Qui c’è una lezione da imparare e Chris è un po’ lento nell’apprendere.
    - Puka, metti da parte il tuo rancore e pensa alla squadra.
    - E’ proprio quello che sto facendo, mio caro – rispose lei alzando le spalle – Se Reid abbassa la cresta e si impegna di più sul lavoro ne trarremo vantaggio tutti.
    - Questo è vero, ma rischiano di farsi male sul serio quei due.
    - Interverremo al momento giusto, per ora godiamoci il fatto che lui si comporti finalmente come un profiler.
    I due colleghi si scambiarono un cenno del capo e un sorriso. Decisamente la monotonia all’Unità Analisi Comportamentale sarebbe stato un ricordo, almeno per un po’

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    Capitolo VI. Past has return

    Era tutti seduti alle proprie postazioni intenti nel loro lavoro. Chris e Isabel non si erano più rivolti la parola dopo il loro scontro nel parcheggio e continuavano ad ignorarsi ostentatamente. Hotch aveva messo al corrente JJ di quello che era accaduto fra quei due la mattina presto ed ora i due colleghi continuavano a scambiarsi occhiate divertite mentre i diretti interessati ribollivano di rabbia l’uno nei confronti dell’altra.
    Improvvisamente Puka entrò come un ciclone nell’openspace facendo voltare tutti mentre Prentiss usciva dal suo ufficio con uno sguardo preoccupato.
    - Tutti in sala riunioni – intimò il capo dell’unità.
    Nessuno fece domande e si avviarono tutti silenziosamente. Emily entrò e si soffermò a pensare quanto poco fosse cambiata quella stanza nel corso degli anni. Anche se il tavolo e le sedie non erano più quelli originali, la concezione della tavola rotonda era rimasta. Lo schermo era stato sostituito con un touch-screen di ultima generazione che Puka usava con destrezza mentre gli altri si accomodavano.
    - Bene signori – esordì Prentiss – Ci troviamo davanti ad un caso piuttosto delicato…
    Delle immagini cominciarono a scorrere sullo schermo. A prima vista sembravano delle bambole di porcellana con gli occhi chiusi, solo a un esame più approfondito risultava evidente che si trattava di giovani donne morte.
    Isabel sgranò gli occhi riconoscendo subito la firma di quegli omicidi, ma continuava a ripetersi che non era possibile. Emily colse i segnali lanciati dall’ultima arrivata e si voltò verso di lei.
    - Irons, riconosci il caso? – le domandò.
    - “Il creatore di bambole” – disse la ragazza non riuscendo a staccare gli occhi dallo schermo – Ma non è possibile, Hamilton…
    - E’ morto, si – la prevenne il suo nuovo capo – Eppure gli omicidi a Bangor, nel Maine, sono ricominciati. Avevano pensato a un imitatore ma alcuni particolari che non erano stati resi noti ai media sono presenti nei corpi delle vittime. Irons, conosci bene il caso?
    - Si – ammise la ragazza con riluttanza – sedici anni fa a Bangor ci furono una serie di omicidi di giovani donne fra i diciotto e i ventitré anni. L’S.I. rapiva le sue vittime e le teneva segregate per tre giorni prima di ucciderle mediante un’iniezione di una dose letale di Pentothal.
    - Perché proprio il Pentothal? – chiese incuriosito Hotch.
    - Il Pentothal viene usato per le anestesie – provò a spiegare Isabel – Normalmente i dottori lo usano durante gli interventi chirurgici, ma una dose molto alta è letale.
    - Quindi le addormentava – disse JJ rabbrividendo.
    - Si – annuì Isabel – Diciamo che faceva parte della sua firma. Le ragazze, come potete vedere dalla foto, subivano una trasformazione durante il sequestro, venivano tramutate in bambole a grandezza naturale. Erano truccate e abbigliate come bambole di porcellana.
    - Quello che i media non sapevano – s’intromise a quel punto Prentiss – e che il nostro S.I. non si limitava a questo. Le vittime subivano anche un’isterectomia totale.
    - Le rendeva sterili? – Chris aggrottò le ciglia chiedendosi quale razza di sadico pazzoide potesse fare una cosa del genere.
    - Si – proseguì Isabel fissandosi le mani appoggiate sul tavolo – Ma Hamilton fu trovato e morì durante uno scontro armato con le forze dell’ordine.
    - Veramente lo scontro armato lo ebbe con alcuni membri della nostra unità – preciso Emily chiudendo gli occhi.
    - E adesso sarebbe tornato? – Hotch si girò verso il suo capo – Vuol dire che non era Hamilton l’S.I.?
    - No, sicuramente era Hamilton. Lo ammise davanti ai miei colleghi poco prima di aprire il fuoco. Potrebbe aver avuto un complice.
    - Quando partiamo? – chiese Chris alzandosi in piedi.
    - Fra venti minuti vi voglio tutti sul jet – Prentiss chiuse la riunione senza guardare nessuno di loro.

    Isabel era persa nei propri pensieri dopo la notizia che il “creatore di bambole” era tornato. Continuava a guardare fisso davanti a sé senza partecipare alla discussione in atto all’interno del Jet.
    - Ehi, bell’addormentata – la stuzzicò Chris – per una volta sei rimasta senza parole?
    - Irons – intervenne Prentiss ignorando il commento di Reid – Cos’altro ti ricordi di quel caso?
    - Hamilton era un chirurgo plastico di quarant’anni, sposato con due figli, otto e cinque anni. Era ossessionato dalla perfezione delle bambole di porcellana, era arrivato ad avere una collezione di circa duecentoventicinque bambole di porcellana dalle provenienze più disparate. Alla fine, stufo di quella bellezza in miniatura, decise di cominciare a creare bambole umane. Si arrivò a lui per via del Pentothal, il suo socio in affari scoprì che ne mancava una quantità piuttosto consistente dalla loro scorte. Il suo unico errore fu proprio quello di far sparire il Pentothal dalla propria clinica privata.
    - E dove altro avrebbe potuto procurarselo? – chiese Chris con noncuranza – In fin dei conti è un medicinale che va somministrato sotto attento controllo medico.
    - Il dottor Hamilton esercitava presso due ospedali e quattro cliniche private. Se ne avesse prelevato un po’ in ognuna di queste strutture nessuno si sarebbe accorto di niente, inoltre c’è un florido mercato nero di sostanza con effetti simili e altrettanto letali – fece sapere Prentiss tornando a guardare il dossier – Appena arriveremo a destinazione io e Puka sistemeremo la nostra base alla stazione di polizia, Hotch e JJ voi andrete sui luoghi dei ritrovamenti, Reid e Irons voi andrete dal medico legale. Domande?
    Nessuno disse niente e per il resto del volo ognuno si chiuse nei propri pensieri. Prentiss e Irons sembravano quelle più turbate da quel caso. Effettivamente era cosi anche se per motivi diversi e nessuna delle due era disposta a rivangare un passato che le faceva ancora soffrire.

    Sul SUV guidato da Chris il silenzio incombeva impregnando l’aria di un’atmosfera pesante e tesa. Irons non aveva più aperto bocca dopo aver ricapitolato il caso Hamilton, si era chiusa a riccio come se quel caso la turbasse. Reid si chiese come mai la ragazzina chiacchierona se ne stesse lì buona buona in silenzio, si era aspettato che si buttasse a capo fitto in analisi e teorie per dimostrare quanto era brava. Non sopportando più quel silenzio decise di provocarla, inaspettatamente preferiva le sue stupidaggini a quel mutismo ostinato.
    - Ehi, ragazzina, il lavoro sul campo si è rivelato già troppo duro per te? – chiese ironico.
    Lei continuava a guardare fuori dal finestrino e non gli rispondeva, non lo degnava neanche di uno sguardo. Chris allungò una mano per scuoterla.
    - Insomma, Irons, sei caduta nelle braccia di Morfeo?
    - Non ti azzardare mai più a toccarmi – disse lei facendo un salto e guardandolo come un animale ferito.
    - Si può sapere cos’hai?
    - Fatti gli affari tuoi! Tanto so che se fallissi tu faresti salti di gioia, quindi di che ti lamenti? – Isabel era vicina alle lacrime, aveva cercato di lasciarsi il suo passato alle spalle e ora era tornato per tormentarla.
    - Puoi pensare quello che vuoi sulla mia vita privata, ma sul lavoro non è cosi che funziona! – si difese Reid – Puoi anche non credermi, sul campo io cerco sempre di essere professionale. Tu invece ti stai comportando come una ragazzina isterica.
    - Come ti permetti? Pensa a guidare e fatti gli affari tuoi! – Irons si girò verso il finestrino combattendo contro quelle lacrime che le pungevano gli occhi.

    Puka continuava a sistemare i suoi monitor nella stanza cercando di non prestare attenzione a Prentiss che continuava a camminare su e giù. D’improvviso il capo dell’unità si fermò e si girò a guardarla.
    - Puka, hai per caso i programmi del corso della Collins? – le chiese a bruciapelo.
    - Sì, perché?
    - Mi chiedo come faccia Irons a sapere tutte quelle cose…
    - Il caso Hamilton non rientra nel programma di studi dell’Accademia – la informò Puka continuando a collegare cavi – Non credo che la professoressa Collins lo userebbe mai per una lezione ai suoi studenti.
    - E tu che ne sai? – chiese Emily guardandola con gli occhi sbarrati.
    - Dimentichi che un altro dei miei compiti è di tenere aggiornata la storia della squadra. So perfettamente cosa successe durante il caso Hamilton e ti posso assicurare che al suo posto non ne farei materia di studio da parte di giovani matricole.
    - Irons è stata studente anche di Reid… ha seguito il corso di introduzione al profiling… - tornò a ragionare a voce alta Prentiss.
    - Dubito che il professor Reid abbia mai parlato di quel caso con i suoi studenti, per le stesse ragioni di cui sopra.
    - Ma allora come fa quella ragazza a sapere tutte quelle cose?
    - Possibile che io sia l’unica che studia a fondo i fascicoli personali dei membri dell’unità? – chiese Puka in modo retorico.
    - Che vorresti dire? Non c’era nessun Irons fra le persone coinvolte nel caso, me lo sarei ricordata.
    Puka le allungo un I - pad.
    - Quando qualcuno entra nel team dovresti fare più attenzione alle sfumature, capo. Leggi di nuovo quel fascicolo e capirai.

    Continua…
     
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    Capitolo VII. Copycat

    Prentiss continuava a fissare l’I - pad, quello che aveva letto nel fascicolo privato di Isabel Irons l’aveva turbata ancora di più della ricomparsa del “creatore di bambole”. Si chiese se Sarah e Spencer lo sapessero, aveva voglia di afferrare il telefono e parlare con la sua amica per avere spiegazioni.
    Lottò contro i ricordi ma questi emersero incontrollabili.

    Erano riusciti a risalire a Hamilton grazie alla soffiata del suo socio in affari e ora erano tutti nella sua casa per una perquisizione. Di Robert Hamilton non c’era traccia da nessuna parte, era come sparito nel nulla. Sicuramente aveva intuito di essere nel mirino dell’F.B.I. e si era nascosto chissà dove.
    Nella cantina, tenuta in ordine perfetto, avevano trovato la collezione di bambole di porcellana dell’S.I., sembravano centinaia, tutte diverse fra loro. Dietro uno scaffale trovarono finalmente le prove della colpevolezza dell’uomo. Aveva tenuto le foto scattate alle sue sette vittime, apparivano tutte in posa come quelle bambole sugli scaffali e la cosa era al quanto macabra.
    Quell’uomo era completamente fuori di testa e aveva perso il contatto con la realtà che lo circondava, la sua ossessione aveva preso il sopravvento sulla sua razionalità, portandolo a commettere degli omicidi efferati. Improvvisamente Emily avvertì dei movimenti al piano superiore e le urla di una donna.
    - Chi siete? Che ci fate in casa mia? – la signora Hamilton stringeva il figlio di cinque anni a se e guardava spaventata tutti quegli uomini che frugavano in giro.
    - Signora Hamilton – intervenne Derek, che ormai era a capo della squadra – suo marito è sospettato di essere l’assassino noto al pubblico come “il creatore di bambole”. Dov’è in questo momento?
    - Non è possibile, vi state sbagliando. Mio marito è un brav’uomo, un dottore. Lui non uccide le persone – la donna era sull’orlo di una crisi isterica.
    Prontamente Cameron prese con sé il bambino e lo portò in un’altra stanza, per evitare che assistesse all’interrogatorio di sua madre. Emily e Spencer, nel frattempo, avevano raggiunto il resto della squadra nel soggiorno e osservavano muti la signora Hamilton mentre piangeva disperata.
    - Morgan – intervenne Spencer – nella cantina abbiamo trovato anche queste, insieme ad una collezione di bambole.
    - Mio marito non vuole che si scenda giù in cantina. Se avete danneggiato un pezzo della sua collezione…
    Derek girò l’album con le foto delle vittime verso la donna tremante.
    - Signora, crede ancora che si tratti di un semplice equivoco? Suo marito ha ucciso queste donne e noi dobbiamo trovarlo prima che faccia del male a qualcun altro.
    Le sue illusioni sul marito erano crollate sotto il peso delle prove che Morgan le aveva mostrato, poi un lampo di paura passo negli occhi di quella donna cui avevano strappato via la convinzione che il suo fosse un matrimonio felice e che la sua famiglia fosse perfetta.
    - O mio dio! Dovete trovarlo! – si era alzata di scatto e aveva afferrato Derek per il bavero della camicia – Dovete trovarlo!
    - Signora non sa dove può essere suo marito? – Morgan cercava di calmarla con scarsi risultati.
    - Jennifer! Jennifer è con lui! La scuola mi ha avvertito che era passato a prenderla! Dovete salvare la mia bambina – la donna crollò definitivamente al pensiero che suo marito potesse fare del male alla figlia.
    Sarah corse da Morgan proprio in quel momento, la paura dipinta sul volto.
    - Derek, abbiamo un problema.
    - Quale? – Morgan si chiedeva cos’altro poteva succedere.
    - Stavamo parlando con il bambino, ci ha detto che il padre lo portava spesso in un capanno fra i boschi.
    - Potrebbe essersi rifugiato lì – Rossi si girò verso Derek che annuì – Qual è il problema?
    - Ron. E’ sparita. Appena ha sentito che Hamilton ha la figlia con sé, è corsa via.
    Cameron come al solito aveva fatto di testa sua, era corsa incontro all’S.I. per salvare una bambina dalla furia omicida del suo stesso genitore.
    Si erano mossi tutti nel tentativo di salvare una bambina e la loro collega. Erano appena arrivati al capanno di caccia, stavano ancora scendendo dai SUV quando sentirono delle urla, la voce di Ron che intimava a Hamilton di arrendersi e lasciare andare la bambina. Poi uno sparo aveva fatto accelerare il cuore di tutti loro.
    Sarah, Derek e Spencer erano partiti per primi verso l’origine delle urla. Ron giaceva a terra, ferita al petto da un proiettile. Una bambina piangeva rannicchiata in un angolo, di Hamilton nessuna traccia.
    Sarah si era chinata ad abbracciare Leane, mentre Derek diceva a Emily e Rossi di inseguire Hamilton che stava fuggendo addentrandosi nei boschi.
    I tre amici erano lì intorno a Leane che continuava a perdere sangue. Derek aveva avvertito i soccorsi di sbrigarsi, che un agente era stato ferito. Spencer si era concentrato sulla bambina per assicurarsi che stesse bene. Sarah si girò verso Morgan con gli occhi pieni di lacrime.
    - Va! Dobbiamo prenderlo!
    Derek aveva esitato solo un momento prima di precipitarsi a raggiungere Emily e Rossi. In poco tempo avevano circondato Hamilton che correva come un coniglio impazzito. Derek puntò la pistola e gli intimò di nuovo di arrendersi. Cercarono di parlare con lui per farlo cedere. Hamilton ammise gli omicidi, ma disse che l’aveva fatto in nome della perfezione. Poi provò a sollevare l’arma contro Morgan, non fece in tempo neanche a prendere la mira, prima che l’agente premesse il grilletto per porre fine a quella follia.
    Prentiss non sapeva esattamente cosa fosse successo nel capanno durante la loro assenza, ma Leane era morta prima che arrivassero i soccorsi, Sarah abbracciava la piccola Jennifer Hamilton che continuava a chiedere dove fosse il suo papà. Spencer aveva lo sguardo perso nel vuoto mentre cercava di afferrare il senso di quella tragedia che aveva cambiato le loro vite nell’arco di un attimo.

    Emily trasse un profondo respiro per combattere contro le lacrime che il ricordo di quella tragedia le suscitavano. Leane era morta nel tentativo di salvare una bambina, ma questo non consolava quelli che erano rimasti. Rimproverava Cameron per la sua avventatezza, se avesse aspettato forse sarebbe stata ancora con lì loro. Si rese conto che avevano cominciato a odiare quel lavoro propri in quel momento, quando la morte aveva portato via una di loro.
    Isabel non era stata sincera con lei, avrebbe dovuto dirle la verità. Il coinvolgimento emotivo di quella ragazza in questo determinato caso non poteva essere ignorato, avrebbe dovuto esonerarla e metterla sul primo volo per Quantico. Non voleva correre rischi, in lei rivedeva gli stessi difetti di Cameron. Irons era una ribelle, avventata e testarda che avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria vita pur di risolvere il caso. Non voleva assistere a un altro funerale, ne aveva visti troppi in vita sua.

    Isabel e Chris erano dal medico legale. Mentre Reid seguiva con attenzione le spiegazioni dell’anatomo-patologo a proposito del caso, Irons si era come estraniata continuando a fissare i referti autoptici.
    Improvvisamente alzò la testa e guardò il dottore negli occhi.
    - Mi scusi, qui c’è scritto che nel sangue era presente il Fenobarbital.
    - Sì.
    - Quindi non il Penthotal – rifletté Isabel a voce alta – Non rientra nel modus operandi originale. Cosa mi sa dire dell’isterectomia, dottore?
    - Non è stata fatta da un professionista. Le incisioni sono approssimative e il lavoro non è stato fatto bene. Direi che il soggetto ha una scarsa conoscenza della chirurgia e dell’anatomia. Sta migliorando in fretta, ma il primo cadavere era letteralmente maciullato.
    - Anche questo non rientra nella firma di Hamilton – costatò Chris – Grazie delle informazioni, dottore.
    - Sono a vostra disposizione per qualsiasi chiarimento.

    JJ stava osservando la scena del secondo ritrovamento, mentre Hotch esaminava le foto scattate dalla polizia. Oltre il nastro che riproduceva la posa del cadavere non era presente altro all’interno del locale. Si trovavano in un vecchio capanno industriale in disuso da anni.
    - Come per gli altri posti, non c’è niente che ci aiuti – disse JJ risollevandosi – L’S.I. non ha lasciato nessun indizio, niente di niente. A parte il corpo naturalmente.
    La ragazza mulatta si girò verso il collega che non le prestava la minima attenzione, perso in chissà che tipo di ragionamenti. La frustrazione prese il sopravvento sulla proverbiale pazienza di JJ.
    - Insomma, Hotch! La vuoi smettere di giocare con quel I – pad e darmi retta? – sbottò alla fine.
    - Stavo confrontando le foto di questo caso con quelle del caso Hamilton… non l’hai notato? – disse il ragazzo continuando a fissare lo schermo.
    - Cosa? – chiese JJ affiancandosi a lui per osservare le foto.
    - Il nostro S.I. sta riproducendo gli omicidi della prima serie. La postura dei corpi e i vestiti che mette alle vittime sono uguali.
    - Un emulatore, quindi.
    - Sì, ma molto informato. Chiunque sia sa molte cose dei primi omicidi.
    - Già – convenne JJ fissando le foto attonita – Decisamente non si distinguono gli omicidi originali da quelli attuali.
    - Dobbiamo approfondire il profilo, partendo da capo. Non dobbiamo farci distrarre dal caso Hamilton, dobbiamo affrontarlo come un caso del tutto nuovo.
    - Tenendo sempre a mente che il nostro soggetto ignoto ha un motivo per ammirare Hamilton.
    - Gli altri ci aspettano, muoviamoci – Hotch si girò e si incamminò con passo deciso.

    Continua…
     
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    Capitolo VIII. Enemy

    Isabel era persa nei propri pensieri mentre Chris era concentrato sulla guida. Era rimasta sorpresa di vederlo cosi professionale durante l’inchiesta, ma si disse che non sarebbe durata. Solo il giorno prima si era vista con i suoi amici dell’accademia e avevano parlato proprio di lui.

    - Profilo? – chiese Kathy con un sorriso alla giovane ragazza al suo fianco.
    - Maschio alfa affetto da narcisismo. Dovreste vederlo, si fa cucire gli abiti su misura per mettere maggiormente in risalto il suo fisico atletico. Il classico dongiovanni da strapazzo. Mi domando perché un tipo del genere sia stato ammesso nell’unità – rispose la ragazza scuotendo la testa contrariata.
    - Dimentichi di chi è figlio – le fece notare Mac, che con i suoi ventotto anni era il più anziano del gruppo.
    - Dite che Isabel se ne libererà in quattro e quattr’otto? – interloquì un ragazzo occhialuto con un sorriso allegro, Mills il timido del gruppo.
    - Sfortunatamente, no – rispose la ragazza con lo sguardo torvo – Il tipo è troppo vanitoso e pieno di se. Questo scontro durerà minimo due mesi, non perché il lavoro all’unità faccia per lui. Giusto per dimostrare a se stesso che vale più degli altri. Inoltre, secondo me, è anche un maniaco del controllo
    - Non vuoi dargli almeno una possibilità? – dice il ragazzo più grande poggiando una mano sulla spalla della ragazza.
    - Quel tipo mi sta già antipatico solo per come si pavoneggia mentre raggiunge l’ufficio.
    - Andiamo, Isabel – provò a intercedere il ragazzo con gli occhiali.
    - Non mi piace e voi non riuscirete a farmi cambiare idea. Ci mancava solo un altro pivello allo sbaraglio che ha visto o letto “Il silenzio degli innocenti” e i cui genitori sono abbastanza influenti da trovargli un posto alla B.A.U.
    - Perfettamente d’accordo – annuì Mac – Ma per amor di pace, lascia che se ne vada per conto suo senza mettergli i bastoni fra le ruote. Non hai pensato che i genitori potrebbe decidere di vendicarlo? Oppure che il capo sezione possa decidere di mandare via te?
    - Non ci sarà bisogno che io lo metta in difficoltà. Basta dargli abbastanza corda e quel pallone gonfiato si strozzerà da solo – rispose lei con un sorriso cattivo.
    - Sei sempre cosi perfida? No, perché io non me ne ero mai accorta – riprese Kathy.
    - Ho solo la SPM. Per domani sarò tornata del solito umore…
    - Cioè intrattabile come al solito? – rise Mac.
    - Mac, lo sai che ti amo, ma non tirare troppo la corda – rispose la ragazza assestandogli un pugno scherzoso sulla spalla.


    Aveva detestato Christopher Reid dalla prima volta che i loro sguardi si erano incontrati. Conosceva il genere, sempre preso da belle ragazze. Più interessato alla forma che alla sostanza, perché per lui una notte bastava e avanzava per archiviare la pratica. Era per colpa di tipi come lui che al liceo si era sempre sentita inadeguata. Lo guardò di sottecchi ancora un momento prima di tornare a concentrarsi sul paesaggio.
    Effettivamente era un bellissimo ragazzo, niente di strano che le stagiste gli sbavassero dietro. Quello che la sorprendeva era piuttosto che un tipo come lui potesse essersi interessato a Puka, la stravagante del gruppo. Non certo il genere di donna che Reid era solito sfoggiare al braccio. Già s’immaginava il tipo ideale del suo collega: alta, bionda, fisico scultoreo, elegante e bella. Una di classe, insomma.
    Nessuna delle ragazze del team rientrava in questa descrizione e, forse, proprio per questo Reid si era finora trovato fuori dai guai. Certo aveva commesso un errore con Puka e Isabel si chiedeva perché la ragazza non l’avesse fatto sbattere fuori dall’unità. Si rispose da sola, il protocollo parlava chiaro nel caso di una fraternizzazione fra colleghi, sia Puka che Reid si sarebbero trovati nei guai.
    Si riscosse dai suoi pensieri, sentendosi chiamare. Si voltò verso il suo collega che continuava a guardare la strada.
    - Irons, stai bene? – sembrava sinceramente preoccupato per lei.
    - Perché me lo chiedi? Sei cosi ansiosi di liberarti di me? – rispose lei acida.
    - Te l’ho già detto. In ufficio possiamo anche farci la guerra, sul capo io sono sempre professionale e inoltre dobbiamo guardarci le spalle a vicenda. Quindi vuoi dirmi una buona volta cosa c’è che non va? – Chris era stranamente paziente con lei.
    Isabel lo scrutò attentamente. Forse, in fin dei conti, l’aveva giudicato male. Almeno sembrava che prendesse molto a cuore questo caso. Decise di dargli un contentino, non velandogli però la verità.
    - Questo caso… conoscevo una delle persone coinvolte.
    - Avresti dovuto dircelo prima! Se Prentiss lo scopre di rimanda di filato a casa, non le piace che uno di noi sia coinvolto emotivamente nelle indagini – Chris strinse di più il volante.
    - Per via di Leane? – chiese Irons con noncuranza.
    - Te che ne sai?
    - So che ha perso la vita durante il caso Hamilton, anzi è stato proprio lui a spararle. E comunque anche tu sembri molto coinvolto emotivamente in questo caso, per caso è per via del fatto che i tuoi genitori facevano parte del team?
    - No. O meglio, non proprio. Ron era una cara amica di famiglia, io la chiamava addirittura zia. Quando è morta… - a distanza di tanti anni, neanche Chris riusciva a mettere in parole quel dolore.
    Isabel sbarrò gli occhi e si affrettò a voltarsi verso il finestrino. Ognuno di loro, anche se per motivi diversi, era coinvolto emotivamente in questo caso. Se Reid avesse scoperto la verità sarebbe stata la fine delle tregua e lei, ora, non era in condizioni di portare avanti quella battaglia con lui.
    Ripensò al fatto che l’S.I. sembrava sapere molto cose sul caso, ma che non si comportasse come Hamilton. Un imitatore che si discostava dal modello originale per piccoli dettagli, ma quelle discrepanze rivelavano che il nuovo “creatore di bambole” non era un dottore e che conosceva bene i delitti di sedici anni prima.
    Una paura nuova attanagliava il cuore di Isabel Irons, sperava di sbagliarsi e che i suoi sospetti fossero infondati. Come avrebbe fatto se quello che temeva fosse stato vero?

    Hotch guidava guardando la strada, senza prestare troppa attenzione a JJ che continuava a revisionare il fascicolo sull’I – Pad. Improvvisamente la ragazza mulatta si girò verso di lui e lo squadrò attentamente. Un sorriso furbo le apparve sulle labbra.
    - Allora, Hotch, ti decidi a dirmi chi è la ragazza del mistero?
    - Quale ragazza del mistero? – Jack strinse più forte il volante.
    - Andiamo, non penserai di riuscire a nasconderti? – disse JJ con una risata – Ogni tanto ti presenti al lavoro camminando a tre metri da terra, inoltre hai un succhiotto sul collo che cerchi di nascondere con il colletto della camicia. Ora, tu non sei decisamente come Reid, sei un ragazzo serio. Non si tratta dell’avventura di una notte, altrimenti non avresti quell’aria trasognata quando ti arriva un messaggio sul telefono. Vuoi ancora negare di avere una storia?
    - Ammesso e non concesso che io abbia una storia con qualcuna, non riguarda il lavoro.
    - Ergo non sono affari miei. Afferrato il concetto – JJ sorrideva apertamente dell’atteggiamento del collega.
    - Andiamo, JJ, smettila. Anche tu hai qualcuno, però non ci dici mai niente della tua vita privata.
    Jasmine sbarrò gli occhi e si girò di scatto verso il finestrino. Cercava disperatamente di riprendere il controllo, ma il suo cuore batteva all’impazzata. Il solo pensiero che uno di loro scoprisse la sua storia con Michelle la metteva in agitazione.
    - Cosa… cosa ne sai tu? – chiese titubante.
    - Vi ho viste tempo fa in un centro commerciale, mano nella mano. Sembra una brava ragazza.
    - Tu sai? – Jasmine si voltò per scrutarlo in volto – Non hai detto niente?
    - Cosa dovrei dire? Non capisco dove sia il problema. Sei gay e allora? – Jack fece spallucce e sorrise – Non sono fatti di nessuno, ma questo non vuol dire che ti giudichiamo JJ. Puka è bisessuale eppure nessuno ha avuto mai da ridire, cosa ti fa credere che con te sarebbe diverso?
    JJ cominciò a meditare su quelle parole. La sua paura era irrazionale e lo sapeva benissimo. Come aveva fatto notare Jack, Puka non aveva preferenze sessuali ma nessuno aveva mai detto niente al riguardo. Perché Puka riusciva a vivere la sua vita cosi spensieratamente, mentre lei non riusciva a parlare della sua relazione?
    - Hotch, so che è assurdo nascondermi, ma…
    - Non dirò niente a nessuno. Mi aspetto lo stesso da te.
    - Anche tu hai qualcosa da nascondere? – aveva sempre pensato a Jack come il maschio alfa per eccellenza, si chiese se anche lui…
    - Diciamo che la famiglia di lei potrebbe crearci dei problemi. Preferisco non rischiare di rovinare tutto.
    JJ annuì, capiva come si sentiva Hotch. In fin dei conti anche lei aveva paura di rendere partecipe la squadra della sua storia. Non solo perché avrebbe voluto dire fare outing o perché Reid avrebbe potuto fare il cascamorto con Michelle. Voleva tenere la sua ragazza al sicuro, lontana dal loro lavoro e dagli orrori che vedevano continuamente. Michelle era troppo importante per lei, voleva proteggerla.

    Prentiss era ferma in corridoio ad aspettare il resto della squadra. I primi due che arrivarono furono Reid e Irons. S’incupì ancora più del solito mentre guardava la ragazza avvicinarsi. I due si fermarono a pochi passi da lei.
    - Il medico legale ci ha riferito… - cominciò Chris.
    - Non ora – Emily alzò la mano a zittire il ragazzo – Tu va dentro con Puka, io e Irons dobbiamo fare una bella chiacchierata.

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    Capitolo IX. To be useful

    Prentiss e Irons si stavano fronteggiando in corridoio, nessuna delle due aveva intenzione di abbassare lo sguardo per prima. Emily era furente con la ragazza per quello che aveva scoperto sul suo passato, Isabel aveva intuito cosa aveva fatto arrabbiare il suo capo ma non aveva intenzione di scusarsi per qualcosa di cui non aveva colpa.
    - Irons, non deve dirmi niente? – la voce di Prentiss era alterata dalla rabbia che riusciva a malapena a trattenere.
    - Dal suo tono deduco che conosca già la risposta. Non ho niente da dire al riguardo.
    - Sa che potrei metterla sul primo volo per Washington?
    - Non lo farà e lo sappiamo tutte e due. Se volesse estromettermi dall’indagine per il mio coinvolgimento, dovrebbe fare la stessa cosa con se stessa e con Reid – Isabel si stava giocando il tutto per tutto – Ma lei non ha intenzione di ritirarsi. Inoltre riesco ad essere obiettiva nonostante quello che è successo sedici anni fa.
    - Davvero? – Emily aveva assunto un tono ironico – Riesce ad essere obiettiva nonostante il suo legame con Hamilton? Ne dubito fortemente.
    - Mi dia una possibilità, se dovessi perdere la mia obiettività me ne tornerò a Quantico senza fare un fiato.
    Emily stava combattendo una lotta interiore. Non voleva danneggiare la ragazza per quello che aveva scoperto, ma non voleva neanche correre il rischio di una nuova tragedia. Si chiese cosa avrebbe fatto Derek al suo posto, quando era a capo dell’unità. Sospirò e abbasso lo sguardo.
    - Ha vinto, Irons. Ma se dovesse anche solo farsi balenare in testa l’idea di prendere iniziative… - Emily aveva alzato un dito con fare minaccioso.
    - Non si preoccupi, non fa parte del mio carattere. Io rispetto gli ordini dei superiori in grado – rispose Isabel con un sorriso tirato – Agente Prentiss, un'unica cortesia…
    - Nessuno dei tuoi colleghi saprà niente, eccetto Puka che già lo sa. Comunque mi sono già raccomandata con lei di non farne parola con gli altri. Adesso entriamo e riferitemi cosa vi ha detto il medico legale.

    Puka e Reid erano all’interno della sala allestita per loro. Erano seduti uno di fronte all’altra e si guardavano senza proferire parola. Reid ogni tanto si girava a guardare la porta, come se cosi facendo potesse sentire quello che si stavano dicendo Irons e Prentiss. Fu Puka ad interrompere il silenzio.
    - Non preoccuparti, non se la mangia mica.
    - Figurati se mi preoccupa un’eventualità del genere. Tanto la Irons non durerà…
    - Questo è quello che speri tu, ma al tuo posto non ne sarei cosi sicura. E’ determinata e testarda, non se ne andrà tanto facilmente.
    - Puka, credo che io e te dovremmo parlare seriamente.
    - No, non sono del tuo stesso avviso. Sei stato molto chiaro l’ultima volta che abbiamo affrontato l’argomento.
    La punk si alzò e si avvicinò ad uno dei monitor cominciando a manipolare delle immagini. Reid avrebbe voluto chiarire, rivoleva indietro la sua amica di baldorie. Gli mancavano le chiacchierate con Puka, anche se con lei non l’avrebbe mai ammesso.
    Cassandra era un tipo strano, particolare. Riusciva a metterlo a suo agio anche quando trattavano argomenti come le donne e il sesso. Forse perché lei aveva molta esperienza in entrambi i campi, e di ciò non aveva mai fatto mistero.
    Ricordava le lunghe chiacchierate nei bar mentre adocchiavano le “prede migliori”, il modo tutto particolare di Puka di attaccare bottone con il compagno che aveva scelto (anche se la maggior parte delle volte era una compagna). Era un tipo allegro che sapeva stare in compagnia, era spiritosa ma senza esagerare ed inoltre riusciva sempre a dirgli quello che lui voleva sentirsi dire.
    Cassandra sapeva come si sentiva Reid riguardo ai suoi genitori, alla fama di suo padre, all’essere continuamente paragonato a lui. Una sera gli aveva detto che la doveva smettere di preoccuparsi di queste cose, lui era un bravo profiler e non doveva permettere a nessuno di insinuare il contrario. Era stata una vera amica con lui eppure dopo quella notte era cambiato tutto.
    Chris sapeva che la colpa era essenzialmente la sua, che quello che aveva detto Puka era solo il risultato della rabbia che aveva provato per l’atteggiamento dell’amico. Aveva ritenuto che fosse meglio interrompere ogni suo rapporto non professionale con la ragazza, ma ora si pentiva amaramente della sua scelta.
    Guardo le spalle della sua amica indeciso se parlare o meno.
    - Cassandra.
    Puka si girò stupita, nessuno la chiamava mai con il suo nome di battesimo. Fin dalle superiori lei era stata sempre Puka per tutti, escluso sua madre che continuava a chiamarla Cassie. Corrugò la fronte. Forse Chris voleva veramente fare pace.
    I suoi pensieri furono interrotti dall’ingresso di Prentiss e Irons. Le due erano molto serie e silenziose. Prentiss si mise a sedere a capotavola, mente Isabel si accostò a Puka per osservare il suo lavoro.
    - Reid, Irons, credo che aspetteremo JJ e Hotch per cominciare ad aggiornarci. Puka è riuscita a ritrovare i dossier originali, forse è il caso che vuoi due gli diate una letta mentre aspettiamo.

    Irons si stava annoiando, conosceva la maggior parte dei dettagli presenti nei fascicoli. Però continuava a leggere cercando di sembrare concentrata, non voleva che Reid capisse quanto lei in realtà ne sapeva del caso. Improvvisamente la porta si aprì lasciando entrare JJ e Hotch che si misero subito a sedere.
    - Novità? – si informò Prentiss.
    - Niente di rilevante sui luoghi dei delitti – disse JJ facendosi scrocchiare le nocche.
    - Ma abbiamo scoperto comunque qualcosa – riferì Hotch estraendo il suo I – Pad – Confrontando le foto dei delitti di sedici anni fa con quelli attuali abbiamo scoperto che sono delle copie perfette.
    - Quindi siamo davanti a un copycat – interloquì Emily cominciando a sua volta il confronto – Chiunque sia conosceva bene i primi delitti. Cosa dice il medico legale?
    - Ci sono molte cose che non coincidono nel modus operandi e nella firma – Chris prese subito la parola – Prima di tutto usa il Fenobarbital e non il Penthotal.
    - Quindi usa un farmaco diverso – rifletté JJ – Forse il Fenobarbital è di più facile reperimento.
    - Forse – convenne Chris – Inoltre le isterectomie non sono eseguite da un dottore.
    - Il medico ha detto che le incisioni sono grossolane – intervenne Irons – Ha detto che la prima vittima era letteralmente maciullata.
    - Quindi abbiamo davanti un emulatore che però non ha una preparazione medica – riassunse Hotch.
    - Cosa sappiamo della famiglia Hamilton? – chiese JJ.
    - Sospetti di loro? – Isabel sembrava risentita.
    - Dobbiamo comunque parlare con loro, forse ricordano qualcosa – disse Hotch convinto.
    - Buona fortuna – rispose Puka – Gli Hamilton si sono trasferiti alla fine dell’inchiesta e hanno anche cambiato nome. Sono spariti dai radar.
    - Il vecchio socio di Hamilton? – provò Chris.
    - E’ morto – rivelò Prentiss – Durante l’inchiesta si scoprì che alcune delle vittime del “creatore di bambole” erano state pazienti della clinica privata. Lo scandalo fece chiudere la clinica e il socio in affari di Hamilton venne screditato. Fu costretto a dichiarare la bancarotta e si suicidò.
    Prentiss e Irons si guardarono senza dirsi niente. Non era rimasto nessuno da interrogare su quello che era avvenuto sedici anni prima. Erano tutti o morti o scomparsi. Hamilton aveva distrutto molte vite, non solo quelle delle sue sette vittime.
    - Allora come procediamo? – chiese in fine Puka ferma davanti al monitor.
    - Direi di costruire un nuovo profilo in base a quello che sappiamo del nostro S.I. – suggerì Hotch – Sicuramente è molto informato riguardo la serie di delitti precedenti, ma non è detto che la famiglia sappia chi possa essere.
    - Forse non agiva da solo fin dal principio – teorizzò Reid – e adesso il suo complice è tornato a colpire.
    - Dopo sedici anni? – chiese scettica JJ
    - Dimentichi BTK – rispose Chris facendo sfoggiò della sua cultura in materia – Forse non si sentiva abbastanza sicuro di se all’inizio, ma gli mancavano gli omicidi.
    - Hamilton lavorava da solo – disse Prentiss convinta – Direi che il suggerimento di Hotch è quello più sensato allo stato attuale delle cose. Più avanti vedremo come proseguire. Voglio che stiliate un profilo preliminare sulla base dei nuovi delitti.
    Emily si alzò e si avviò all’uscita, sotto lo sguardo attento della sua squadra.
    - Adesso andate tutti a pranzo. Il digiuno non è la soluzione – disse prima di scomparire.

    Irons era ferma sul marciapiede con un sandwich in mano che rimuginava sull’inchiesta. C’era qualcuno da interrogare e questo lo sapevano benissimo sia lei che Prentiss. Non era sicura di poter fornire informazioni utili all’indagine, ma doveva provare a rendersi utile. Il motivo per cui era diventata un profiler era questo, rendersi utile. Buttò il panino nel secchio dei rifiuti e si avviò verso la stazione di polizia. Voleva parlare da sola con il suo capo prima dell’arrivo degli altri.

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    Capitolo X. The hunting's hut

    Irons entrò timidamente nella sala dove Prentiss era intenta ad analizzare i vecchi omicidi. Tossicchiò per attirare l’attenzione del suo capo, che si girò verso di lei con uno sguardo interrogativo.
    - Non sei a pranzo con il resto della squadra?
    - Ho mangiato un panino – non sapeva come affrontare l’argomento – Mi è venuta in mente una cosa… ehm… ho notato che nei vecchi rapporti si fa cenno ad un vecchio capanno da caccia.
    - Si, è dove Hamilton cercò rifugio. Perché?
    - Ce ne è un altro.
    - Come? – Emily era visibilmente stupita – Cosa intendi?
    - Lui aveva comprato un capanno da caccia più grande, quello dove si rifugiò non era l’unico – Isabel continuava a guardarsi i piedi mentre si tormentava le mani.
    - Pensi che sia importante?
    - Se l’S.I. sa tutte queste cose, forse…
    - Ha scelto l’altro capanno come nascondiglio – meditò Prentiss distogliendo lo sguardo da Irons che era ancora ferma sulla porta – Come mai nessuno ne fece menzione sedici anni fa?
    - Forse all’epoca non lo ritenevano importante, in fin dei conti Hamilton era morto. Avevate preso il “creatore di bambole”. La famiglia non l’avrà ritenuta una cosa degna di attenzione. Però da quello che ho letto nel capanno che avete ispezionato non c’erano tracce dei precedenti omicidi.
    - Voglio che tu e Reid andiate a fare un sopralluogo. Nel caso trovaste qualcosa contattate immediatamente la scientifica. Chi altro sapeva del capanno oltre te?
    - Un po’ tutti – ammise riluttante Irons – Jennifer e Paul lo sapevano, di questo sono sicura visto che i nostri genitori ci portarono lì una volta per un’escursione nei boschi. Sicuramente anche la moglie sapeva di quello che definiva il rifugio segreto di suo marito.
    - Ma la famiglia Hamilton non è rintracciabile – Emily tornò a controllare i dossier – Tua madre?
    - Non parlerà con noi.
    - Non puoi provare a parlarci tu?
    - No, sarebbe inutile. Lei odia i federali dopo che…
    - Si, capisco. Voglio che teniate un contatto radio con noi, se vedete qualunque tipo di attività attorno a quel capanno non provate a fare irruzione da soli. Sono stata chiara?
    - Cristallina.

    Si dirigevano fuori città in silenzio. Chris percepiva una nuova tensione in Isabel, qualcosa doveva essere successo fra la sua nuova collega e Prentiss. Si chiedeva di cosa avessero parlato in privato nel corridoio quando Emily gli aveva detto di aspettare all’interno della sala. Irons non aveva detto una parola dalla partenza e non aveva dato spiegazioni sulla loro metà, gli aveva detto semplicemente di recarsi a nord di Bangor, in mezzo ai boschi e poi una volta lì gli avrebbe indicato la strada da seguire.
    Finalmente la sua collega sembrò riscuotersi cominciando a guardarsi intorno. Poi indicò una via laterale che si inoltrava nei boschi.
    - Sei sicura? – chiese Reid titubante – E’ una strada sterrata.
    - Si, sono sicura. Dobbiamo andare ad un capanno da caccia. Dobbiamo percorrere quasi tutta questa strada.
    - Ma da quello che ho letto il capanno di Hamilton si trovava da un’altra parte – Chris era sempre più sconcertato mentre seguiva le indicazioni di Isabel.
    - Questo è un altro capanno. Era sempre di proprietà di Hamilton.
    - Perché non è stato ispezionato all’epoca?
    - Perché nessuno sapeva della sua esistenza – sbuffò Irons innervosita dal dover dare tutte quelle spiegazioni.
    - E come siamo venuti a conoscenza della sua esistenza? – Reid inchiodò voltandosi a guardare Isabel – Mi vuoi dire cosa sta succedendo? Tanto non ci muoviamo da qui finché non parlerai.
    - Senti, Prentiss ci ha dato un incarico. Cosa c’è da spiegare? Abbiamo scoperto l’esistenza di quest’altro capanno, dobbiamo fare un sopralluogo, fine del discorso – Irons si stava mettendo sulla difensiva.
    - Pensi di potermi prendermi in giro? Sono un profiler, è successo qualcosa tra te e Prentiss, qualcosa che ha a che fare con il caso. Quindi o ti decidi a sputare il rospo o da qui non ci muoviamo, chiaro? – Chris era determinato a sapere cosa stava succedendo, non sapere le cose lo rendeva nervoso.
    - Va bene, contento tu… - Isabel prese un respiro e cominciò a raccontare – Hamilton e il suo socio erano anche imparentati. Avevano sposato due sorelle e quindi si frequentavano anche al di fuori del lavoro. Avevano un hobby in comune: la caccia. Hamilton si lamentava spesso che il suo capanno fosse molto piccolo e cosi decisero di comprarne uno più grande insieme. Qualche volta ci portavano anche i figli per delle escursioni nei boschi. Dopo la morte di Hamilton nessuno è più entrato lì dentro o almeno nessuno dovrebbe esserci andato. All’epoca dell’inchiesta, dopo la morte di Hamilton, nessuno pensò fosse importante parlarne con i federali o la polizia.
    - E tu come fai a sapere tutte queste cose? – chiese Chris accigliandosi.
    - Il socio in affari di Hamilton si chiamava David Irons, era mio padre – ammise la ragazza chiudendo gli occhi – Hamilton era mio zio. Immagino che questa sia la fine della tregua.
    Chris guardò di fronte a se continuando ad analizzare tutto quello che Isabel gli aveva detto, non riusciva a credere di essere in macchina insieme alla nipote dell’uomo che aveva ucciso Ronnie. Trasse un profondo respiro mentre cercava di tornare padrone di se.
    - Ti sbagli, non è la fine della tregua. Tu non hai colpa se tuo zio era un assassino – Reid allungò una mano per carezzarle piano un braccio – Qualsiasi cosa tu possa pensare di me e del mio stile di vite, non sono cosi sciocco da pensare che tu abbia qualche colpa di quello che è successo.
    - Tu dici? – Isabel si nascose il viso fra le mani mentre cominciava a piangere – Io avrei potuto fermarlo.
    - Come avresti potuto sapere? Eri solo una ragazzina di otto anni…
    - Avevo visto i vestiti da bambola a grandezza naturale nel seminterrato di casa loro. Se l’avessi detto a mio padre, forse…
    - Era solo una bambina – Chris si sporse per abbracciarla e lei si fece consolare dal suo nemico.
    - Non sei pessimo come pensavo – disse infine lei asciugandosi le lacrime e tornando a guardare davanti a se.
    - Prima di dirlo aspetta che ti importuni per bene – scherzò lui tornando a guidare – Ora vediamo di fare questo sopralluogo.

    Si fermarono davanti al capanno, non notarono movimenti sospetti e scesero dal veicolo. Reid si chinò ad osservare l’erba vicino all’entrata.
    - Sei anche un esperto di botanica? – chiese ironica Isabel.
    - No, ma l’erba qui intorno è stata schiacciata. Qualcuno frequenta ancora questo posto – disse alzandosi ed estraendo l’arma.
    - Prentiss si è raccomandata di chiamare rinforzi nel caso… - Isabel stava estraendo l’arma a sua volta guardandosi intorno.
    - Non credo ci sia qualcuno in questo momento, entriamo ma cerca di stare attenta – Chris era sicuro di se e deciso ad entrare subito nel capanno.
    Buttò giù la porta con un calcio ed entrò tenendo l’arma spianata davanti a lui. Come si spostò Irons entrò a sua volta ripetendo i movimenti del collega cercando il minimo segno di movimento. L’odore all’interno del locale era nauseante e la ragazza si portò una mano davanti alla bocca per bloccare un conato.
    - Respira con la bocca – le suggerì Reid continuando la sua ispezione.
    Nella penombra era difficile distinguere qualcosa, ma quel posto era stato chiaramente frequentato di recente. Reid rinfoderò l’arma e aprì una delle finestre per fare entrare luce e aria pulita. Finalmente cominciarono a guardarsi intorno un po’ più tranquilli.
    C’era dei vestiti da bambola a grandezza naturale appesi su un lato. Nella parte più lontana del capanno era posizionato un tavolo da lavoro con macchie color ruggine sopra. Di lato al bancone un bidone per rifiuti. Irons si avvicinò titubante e sollevò il coperchio. Corse fuori e cominciò a vomitare mentre Reid prendeva la ricetrasmittente e chiedeva l’intervento della scientifica.
    - Cosa avete trovato? – chiese Prentiss ansiosa.
    - Vestiti per le prossime vittime, un tavolo da lavoro con macchie di sangue e un bidone che contiene quello che ha asportato alle vittime – riferì Chris succintamente.
    - Segni della presenta dell’S.I.? – domandò ancora Prentiss.
    - No, non al momento almeno. Ci sentiamo dopo, io e Irons rimaniamo qui ad aspettare i tecnici.
    Chiusa la trasmissione si avvicinò alla collega che cercava di riprendere il controllo del proprio stomaco.
    - Ho fatto una pessima figura, vero? – chiese lei imbarazzata.
    - Non preoccuparti, molti la prima volta hanno una reazione simile alla tua. Credo sia naturale – rispose lui allungandole un fazzoletto.
    - Scommetto che tu non l’hai avuta una reazione del genere.
    - Sbagliato, la prima volta che ho visto un cadavere squartato mi sono vomitato anche l’anima.
    I due si guardarono e scoppiarono a ridere. Decisamente la tregua continuava, ma chissà per quanto.

    Continua…
     
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    Capitolo XI. Family’s secrets

    La scientifica stava analizzando l’interno del capannone, mentre la squadra radunata fuori cercava di fare il punto della situazione. Irons era visibilmente scossa dal contenuto del rifugio dell’S.I., mentre Reid ostentava indifferenza. Hotch si chiese, per l’ennesima volta da quando lavoravano insieme, cosa spingesse Chris a comportarsi con tanto distacco. Conosceva bene il ragazzo, sapeva che quella era solo una maschera che celava il suo carattere irruento.
    Sorrise pensando che sul capo gli ricordava molto sua madre durante le lezioni. Eppure Jack sapeva che quella fredda creatura dagli occhi di ghiaccio in realtà era una donna allegra e piena di attenzioni per le persone a lei care. Anche se Reid cercava di far dimenticare di chi fosse figlio, ogni cosa che faceva, ogni gesto che compiva dimostravano quanto in realtà assomigliasse ai suoi genitori.
    Il corso dei suoi pensieri fu interrotto dalla voce di Prentiss, che stava facendo il punto della situazione con Puka che era rimasta alla stazione di polizia.
    - Quindi il capanno è la base operativa del nostro S.I. – stava dicendo alla trasmittente – Appena ti arrivano le impronte che la scientifica sta rilevando…
    - Le inserirò nel data-base federale, tranquilla capo – la prevenne la tecnica informatica – Ho scoperto qualcosa d’interessante. Subito dopo la morte di Irons il capanno è stato venduto a una società finanziaria.
    - Una società finanziaria comprare un posto del genere? – intervenne JJ perplessa – Non mi sembra un buon investimento.
    - La cosa interessante, in realtà, è che la società è fittizia. Una società off-shore con sede alle Cayman, all’epoca. Dopo l’acquisto del capanno non hanno fatto altri investimenti o operazioni bancarie.
    - Non abbiamo nessun nome? Neanche quello di un legale? – chiese Reid riscuotendosi – Qualcuno deve aver pur firmato gli atti di compravendita.
    - Qui la cosa si fa ancora più strana. Pare che il legale di quella società fosse un certo Bredwood…
    - Jonathan? – esclamò Irons sorpresa.
    - Lo conosci? – chiese Emily accigliandosi.
    - Sarebbe corretto chiederle se lo conosceva. E’ morto sei mesi fa. Il corpo è stato trovato nel suo appartamento in avanzato stato di decomposizione, qualcuno gli ha sparato alla nuca – chiarì Puka.
    - Era l’avvocato di mio padre, era anche un amico di famiglia. Siamo venuti qui con lui un paio di volte per delle escursioni – Isabel scuoteva la testa incredula – Dopo lo scandalo abbiamo perso i contatti. O almeno io non l’ho più visto.
    - Sei sicura che non ci sia più nessuno con cui parlare? – insistette Prentiss per l’ennesima volta.
    - Mia madre è fuori discussione, ci sbatterebbe la porta in faccia. Gli Hamilton lasciarono Bangor subito dopo la fine dell’inchiesta, non li ho più sentiti – ricapitolò Irons con disappunto – Jonathan è morto, non ricordi altri collaboratori che frequentavano le nostre famiglie anche nel privato…
    - Uno dei tuoi tre fratelli? – chiese la voce di Puka – Tu sei la più piccola, forse uno di loro ricorda qualcosa di più.
    - Non mi rivolgono la parola da quando sono entrata all’Accademia, comunque possiamo fare un tentativo. Ma credo sia meglio convocarli in centrale, non ci farebbero mai entrare in casa loro, li conosco bene – dalla voce di Irons traspariva l’amarezza che provava per il comportamento della sua famiglia.
    - Puka, convocali per domattina – concesse Prentiss – Fai in modo che il gentile invito sia portato direttamente dai tutori dell’ordine di Bangor.
    - Organizzo subito, capo.
    - Direi che possiamo andare a mangiare e poi tutti a dormire. Vi voglio riposati e pronti per domani, credo non sarà una passeggiata.
    Irons annuì tristemente, i suoi fratelli avrebbero dato del filo da torcere durante gli interrogatori. Dopo la morte del padre, la madre li aveva cresciuti inculcandogli l’odio per gli agenti dell’F.B.I. che secondo lei erano l’origine di tutti i mali della loro famiglia. Durante l’ultima lite con loro Isabel aveva fatto presente che l’origine di tutte le loro sciagure era stato il caro “zio Bob” e la sua mani di uccidere giovani donne innocenti. Era stata messe poco gentilmente alla porta con l’ordine tassativo di non tornare più.

    Jack, Chris e Isabel sedevano in silenzio all’interno del veicolo. Irons si era seduto sul sedile posteriore e continuava a tacere nonostante i tentativi dei suoi colleghi di coinvolgerla in una qualsiasi conversazione.
    Jack alla fine batté un pugno sul volante facendola trasalire.
    - Insomma, Irons! Smettila di comportarti come se la colpa fosse tua. Nessuno sceglie di avere uno psicopatico in famiglia.
    - Lo so. Il problema è che vorrei ricordare qualcosa di più del periodo immediatamente successivo alla morte di Hamilton e di mio padre. Vorrei…
    - Essere utile? – la prevenne Jack – Allora cerca di fare il tuo lavoro e di accantonare tutto il resto. Sono i tuoi fratelli, devi pur avere una minima idea di quali siano i loro punti deboli. Dobbiamo trovare il modo di farli parlare, qualsiasi informazione può essere utile.
    - Posso farvi il profilo individuale di ognuno di loro, ma sarà meglio che io non partecipi attivamente agli interrogatori – si arrese in fine lei – Non ci siamo lasciati molto bene e potrebbe creare un conflitto. Forse è meglio che non ci sia neanche Reid.
    - Perché? – chiese Chris risentito.
    - I miei tre fratelli sono maschi alfa, se vogliamo farli parlare credo non convenga mettere un’antagonista nella stanza con loro.
    - Giusto – ammise riluttante Reid – Alla fine toccherà a JJ e Prentiss interrogare i testimoni. Anche Jack potrebbe essere visto come un’antagonista.
    - Sicuramente – disse Isabel con un sospiro – Sarà il caso che io mi metta subito al lavoro. Prentiss e JJ dovranno studiare molto bene i profili prima di domani mattina.

    Era appena uscita dalla doccia e si mise a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi. La mente rivolta a quel periodo della sua vita che aveva cercato di dimenticare. La sua decisione di diventare una profiler risaliva a quel periodo, era legata indissolubilmente a quella tragedia che aveva sconvolto il suo mondo di bambina.
    Scoprire che l’adorato zio che le permetteva di ammirare tutte quelle splendide bambole, in realtà era un pazzo assassino l’aveva sconvolta. Il suicidio di suo padre aveva minato per sempre la sua capacità di relazionarsi con l’altro sesso.
    Sua madre era come impazzita in seguito alla tragedia. Continuava a dire che se quei maledetti profiler non fossero arrivati, se non avessero puntato il dito contro il marito di sua sorella, niente di tutto questo sarebbe mai successo.
    Come se si potesse cancellare il fatto che Hamilton aveva ucciso sette donne, come se non fosse quello ad aver dato inizio ad una serie di eventi la cui conclusione era stata il suicidio di suo marito. Aveva fatto il lavaggio del cervello ai suoi tre figli maschi, incitandoli ad odiare qualsiasi federale. Che smacco per lei scoprire che invece la sua unica figlia femmina era entrata all’Accademia di Quantico, peggio ancora, che intendeva diventare una profiler.
    Quello che lei non sapeva, quello che lei ignorava, era che suo marito aveva deciso di denunciare suo cognato per proteggere sua figlia. Ricordava quel giorno, quando suo zio era andato a trovarli senza una ragione precisa. Aveva portato con sé una bellissima bambola di porcellana, con boccoli dorati ed un vestitino di raso e pizzo. Aveva accarezzato la testa bionda della nipotina e aveva detto che anche lei sembrava una bambola.
    Rabbrividì al pensiero di come suo zio l’aveva guardata in quel momento, di come i suoi occhi sembrassero quelli di un folle. Suo padre aveva assistito alla scena non visto, si era avvicinato al cognato e l’aveva tirato su di peso afferrandolo per il bavero.
    - Lascia stare mia figlia! Lei no, non puoi averla!
    Isabel sbarrò gli occhi di colpo. Suo padre aveva reagito in modo spropositato ad una semplice carezza, almeno quello poteva apparire ad occhi estranei. Lei aveva capito il perché di quella scenata. Suo padre sapeva che Hamilton era il “creatore di bambole” e che probabilmente lei sarebbe stata la vittima successiva.
    Il giorno dopo la polizia ricevette la telefonata di Irons, che denunciava la scomparsa del narcotico dalla sua clinica privata in quantità tale da non essere giustificabile. Aveva tradito il cognato per salvare sua figlia. Strinse gli occhi per rimandare indietro le lacrime.
    Il dubbio che le attanagliava il cuore dopo tutto quel tempo era ancora vivo dentro di lei. Se suo padre sapeva di Hamilton, perché non l’aveva mai denunciato fino a quel momento? Era anche lui complice di quella pazzia? E se il suicidio di suo padre non fosse stato il risultato dello scandalo, ma il senso di colpa?
    Quando Jennifer tornò era un’altra persona, non più la bambina allegra che era stata anche la sua migliore amica. Qualsiasi cosa le avesse mostrato o detto suo padre, l’aveva cambiata per sempre. Lei e sua madre erano andate a tenere compagnia a zia Mildred, nell’attesa che i federali portassero notizie di Jennifer e Robert.
    Un sorriso le spuntò sulle labbra. Dopo aver riabbracciato la cuginetta era corsa fuori a ringraziare quei signori che l’avevano salvata e riportata a casa, un uomo molto magro dai capelli color miele e una donna molto bella dai capelli neri e gli occhi verdi. Sembravano tristi, ma quell’uomo si era piegato verso di lei con un sorriso tirato.
    - Una nostra amica ha dato tutto perché Jennifer tornasse a casa sana e salva. Abbi cura di lei.
    Quella scena le era rimasta impressa come i sospetti che nutriva su suo padre e il ruolo da lui ricoperto in quegli omicidi. Tutto questo l’avevano spinta a diventare una profiler. Se suo padre era stato un serial killer lei poteva porre rimedio solo fermandone altri, come a ripagare quella ragazza che era morta per difendere la sua migliore amica.

    Continua…
     
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    Capitolo XII. Why do I doing it?

    Emily si era coricata, ma non riusciva a dormire. I suoi pensieri erano rivolti alla “sua” squadra. Non i colleghi che dividevano attualmente l’ufficio con lei, ma la sua vera squadra. Si continuava a chiedere perché rimanesse in quell’ufficio, quando era evidente per lei che non riusciva più a guardare un caso con distacco. Viveva nel terrore costante che uno dei suoi “ragazzi” rimanesse ucciso sul campo com’era successo a Leane e quel caso rendeva la sua paura molto più reale e concreta.
    Sedici anni prima in quella città il “creatore di bambole” l’aveva messa di fronte al fatto che loro non erano immortali, che non c’era sempre il lieto fine, che non tutti potevano essere salvati. Dopo tutto quel tempo si ritrovava di nuovo lì, alla caccia di un emulatore che avrebbe potuto fare del male a uno di loro solo per far rivivere fino in fondo Hamilton. Il solo pensiero le era intollerabile e combatteva contro l’impulso di chiamare Derek e dirgli che loro tornava a casa e che la polizia di Bangor poteva cavarsela da sola.
    A livello conscio era consapevole che il loro posto era quello, il loro compito era fermare l’imitatore e salvare la vita di altre ragazze innocenti. Ma a livello viscerale provava un’ansia incredibile, per la prima volta in quattro anni rimpiangeva di non essere più un semplice agente ma un supervisore con la responsabilità di guidare quei giovani profiler.
    Per lei erano poco più che bambini che giocavano a fare gli agenti federali, anche se alcuni di loro avevano già anni di servizio alle spalle e si erano dimostrati efficienti sul campo. Il suo pensiero andò a Jack e Aaron, non voleva che il suo vecchio capo dovesse soffrire di nuovo per la perdita di un famigliare, non era sicura che se fosse successo di nuovo Hotch avrebbe trovato la forza di risollevarsi ancora.
    Pensò alla responsabilità di riportare a casa sano e salvo il figlio della sua migliore amica. Reid era stato quello più scosso dalla prematura morte di Cameron, come avrebbe reagito se fosse successo qualcosa al suo primogenito?
    Puka e JJ erano due ragazze eccezionali che aveva imparato ad apprezzare e stimare, due donne forti e determinate che sapevano fare il loro lavoro. Ma Irons più di tutti loro la preoccupava. In quella ragazza percepiva una forza di volontà e una testardaggine che le ricordavano molto Ron ai tempi d’oro.
    Frammenti di una vecchia conversazione le tornarono alla mente.
    - Come se la cava la mia pupilla? – Sarah era orgogliosa di lei, anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti alla diretta interessata.
    - Ron? E’ una tosta, se fossi un S.I. tremerei al solo sentirla nominare! – Derek stravedeva per quella ragazzina.

    Sentiva le lacrime scenderle lungo il viso. “Perché?” si chiese “Perché lo faccio?”, eppure sentiva che non poteva essere in nessun altro posto, né fare nient’alto nella vita se non quello che stava facendo.

    Jack aveva appena finito di parlare con Elizabeth, aveva ancora un sorriso scemo stampato in faccia mentre pensava alla sua ragazza. Sospirò buttandosi sul letto. In quel momento avrebbe voluto essere a casa, fra le braccia della donna che amava, ma sapeva che il suo dovere era di rimanere lì e risolvere il caso.
    Aggrottò le sopracciglia al pensiero che stava diventando come suo padre, “schiavo del dovere”, sempre troppo preso da quello che era giusto fare. Sbuffò ricordando quanto avesse combattuto per diventare un profiler ed entrare nel team, per lui era stata la cosa più importante del mondo. Ricordava ancora con gioia il sorriso orgoglio di suo padre, del suo grande eroe, alla notizia che il proprio figlio avrebbe lavorato alle dipendenze di Emily Prentiss.
    “Perché lo faccio?” era una domanda che sempre più spesso si trovava a porsi. Le vecchie risposte non lo soddisfacevano più. Era diventato un profiler per ricalcare le orme di suo padre, per diventare anche lui un uomo da rispettare, perché le persone migliori che avesse mai conosciuto erano stati profiler.
    Ora, con la presenza di Lizzy nella sua vita, cominciava a non trovare più nessun senso in queste cose. Il suo desiderio più grande era sposarla e mettere su famiglia, ma la sua più grande paura era che la tragedia che l’aveva colto da piccolo potesse ripetersi.
    Si alzò dal letto e cominciò a spogliarsi, costringendosi a concentrarsi solo sulla necessità di fermare l’S.I. prima che potesse mietere nuove vittime.

    Puka era concentratissima sul monitor alla ricerca delle informazioni che Prentiss le aveva chiesto sulla famiglia Irons. Lei non si era mai chiesta perché facesse quel lavoro. L’informatica era tutta la sua vita e la convinzione di potersi rendere utile per fermare quei maledetti psicopatici che si aggiravano per il Paese la rendeva contenta. Sapeva che la sua vita all’infuori del lavoro era qualcosa di desolante, non aveva molti amici ed erano anni che non aveva un legame fisso. Eppure la sua convinzione di stare facendo la cosa giusta non la lasciava mai.

    - Quando pensi che tornerai? – la voce di Michelle era titubante.
    - Non lo so cara, il prima possibile spero – JJ sospirò massaggiandosi una tempia.
    - Lo so che non dovrei fare la ragazzina piagnucolona, ma mi manchi terribilmente.
    - Sono partita solo questa mattina – le rispose la ragazza mulatta con una risata.
    - Davvero? – chiese la bionda con tono stupito – Sarà che ogni minuto che siamo separate sembra un’eternità. Comunque cerca di tornare da me al più presto e tutta intera, chiaro?
    - Sì, te lo prometto.
    Attaccò contro voglia, avrebbe voluto sentire la voce di Michelle per qualche altro minuto ma sapeva che doveva riposarsi e che se non avesse interrotto la comunicazione subito quei minuti sarebbero diventate ore.
    Per tutta la sua vita da adulta non aveva mai sentito cosi impellente il bisogno di avere una persona accanto a se, con Michelle quel bisogno diventava qualcosa di più. La presenza della sua ragazza le era indispensabile come l’aria che respirava e cominciava a odiare quel continuo spostarsi da una parte all’altra del continente.
    Si chiese perché rimaneva ancora all’unità, se quelle trasferte cominciavano a pesarle tanto. Ripercorse la sua carriera all’interno dell’F.B.I. e sorrise. Era stata un membro della SWAT e aveva dato anima e corpo in quell’incarico, ma alla prima occasione di entrare alla B.A.U. aveva fatto i salti di gioia. Aveva sempre pensato che diventare una profiler, riuscire a capire le persone, l’avrebbe aiutata anche a capire se stessa.
    Sfortunatamente cosi non era stato, non riusciva ancora a capire perché tutta quella titubanza nell’ammettere chi veramente era. Eppure non trovava il coraggio di lasciare i suoi colleghi, quella era la sua famiglia e non si abbandona la famiglia.

    Christopher guardava fuori dalla finestra le luci della città. In momenti come quello avrebbe voluto solo urlare. Aveva cercato di minimizzare con Irons, aveva provato a confortarla dicendole che la colpa non era sua e che non ce l’aveva con lei, ma il ricordo di come Leane fosse morta e di come questo avesse cambiato profondamente i suoi genitori non lo abbandonava.
    Sferrò un pugno contro la parete, ma quell’atto dettato dalla frustrazione non lo fece sentire meglio. Sentiva di non poter perdonare Hamilton e cominciava a dubitare del fatto di essere abbastanza maturo per non farne una colpa a Irons. Sicuramente sua madre avrebbe attaccato con una delle sue solite solfe sull’importanza di accettare i propri sentimenti, di abbracciarli e di andare avanti con la propria vita.
    I suoi sentimenti non li capiva neanche lui in quel momento. Fin da quando era bambino, fin da quando riusciva a ricordare, il suo sogno secreto era stato quello di diventare un profiler come suo padre e suo nonno. Non l’aveva mai detto a nessuno, neanche a sua sorella Lizzy, la sua preferita, quella con cui aveva un legame “speciale”.
    Quando era riuscito a realizzare il suo sogno, si era trovato davanti a qualcosa che non aveva calcolato, la fama dei suoi genitori era troppo grande per passare inosservata agli occhi di chi lavorava con lui. Si era trovato costretto a combattere contro i pregiudizi dei suoi colleghi, per loro era solo il figlio di Reid e Collins, aveva dovuto impegnarsi il doppio degli altri per dimostrare il proprio valore.
    L’unico sollievo durante quel periodo era stato il sesso. Quando faceva sesso riusciva a dimenticare tutti i suoi problemi relativi al lavoro. Era cosi che aveva cominciato a cambiare continuamente ragazza, mai due volte con la stessa. L’unica cosa che gli importava era che fossero eleganti e belle, per dimostrare a se stesso quanto valeva.
    Sapeva che era stupido e infantile, ma il riuscire a conquistare quelle ragazze che gli altri uomini potevano solo guardare ammirati lo faceva sentire bene con se stesso. Il gioco ormai l’aveva stancato, anche se non sapeva bene come tirarsene fuori. Si rendeva perfettamente conto che la reputazione che si era creato rendeva arduo, se non impossibile, avvicinare una ragazza senza che questa partisse prevenuta nei suoi confronti.
    Con Puka era stato più di un atto meramente fisico, lui teneva veramente a quella ragazza. Certo non ne era innamorato, però non avrebbe mai permesso a nessuno di farle del male, le voleva bene. Il giorno dopo aveva avuto paura che lei lo respingesse dicendogli che tanto era stato solo sesso. Allora aveva reagito in modo sciocco ed era partito all’attacco, trattando la sua migliore amica come una di quelle ragazzine che si aspettavano chissà che da lui per il semplice fatto che avevano passato la notte insieme.
    Aveva ferito l’unica persona della squadra che l’avesse consolato e l’avesse spronato a non fare caso a quello che gli altri pensavano. Puka gli diceva sempre di andare avanti per la sua strada e che non doveva dimostrare niente a nessuno.
    Pensò con rammarico che se quella notte non avesse bevuto cosi tanto, se avesse saputo frenarsi, ora Cassandra sarebbe stata lì con lui ad ascoltarlo. Forse avrebbe saputo anche far emergere i veri sentimenti di Reid in merito a tutta quella storia assurda di Hamilton e Irons.
    Tornò a guardare fuori dalla finestra, era solo ad affrontare i suoi demoni interiori.

    Continua…
     
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    Capitolo XIII. Impulsive

    Prentiss e JJ erano stremate, dopo quattro ore d’interrogatorio le uniche risposte che avevano ricevuto erano state: “Non ricordo” e “Non lo so”. I tre fratelli Irons erano determinati a non rendere le cose facili ai federali.
    David Jr e Karl se ne erano andati da un pezzo, dicendo che se avevano altre domande potevano rivolgersi ai loro avvocati. Isabel aveva immaginato da subito che i suoi due fratelli maggiori non avrebbero mai ceduto e non avrebbero collaborato. Da dietro il finto specchio osservava Patrick, il più vicino a lei come età, che continuava a guardarsi nervosamente intorno mentre rispondeva alle domande.
    Patrick non era un maschio alfa, almeno non cosi determinato e duro come gli altri uomini della famiglia, sua sorella sperava che il più piccolo cedesse alla fine e rivelasse qualcosa d’importante per l’indagine. Continuava a battere il piede nervosamente aspettando il punto di rottura del fratello. Reid era accanto a lei, ma non le aveva rivolto la parola da quando si erano incontrati quella mattina nella hall dell’albergo. Irons aveva intuito quale fosse il problema, nonostante le rassicurazioni, il collega non riusciva a scindere la sua persona da quello che aveva fatto suo zio.
    Era frustrante dover rimanere fuori dalla sala interrogatori ad aspettare. Alla fine la rabbia e l’ansia presero il sopravvento sulla disciplina che si era autoimposta fino a quel momento. S’incamminò a passo svelto e si decise a bussare alla porta dietro la quale si stava svolgendo quella “chiacchierata” che non portava da nessuna parte. Non aspettò neanche che Prentiss chiedesse chi era ed entrò con piglio deciso.
    Sbatté le mani sul tavolo e si chinò verso l’interrogato.
    - Ok, Patrick, forse non ti è chiaro. Questo non è un gioco!
    Il ragazzo sollevò gli occhi sconcertato di trovarsi davanti alla sorella minore che non vedeva da più di un anno.
    - Bel! Cosa ci fai tu qui? – chiese titubante.
    - Prova a indovinare, furbacchione – rispose ironica la ragazza mostrandogli il distintivo – L’agente Prentiss ti ha fatto una domanda: chi ha comprato il capanno di nostro padre?
    - Non…
    - Non ti azzardare a rispondermi che non lo sai. Te lo leggo in faccia che stai mentendo.
    I due si fronteggiarono e il primo ad abbassare lo sguardo fu proprio il ragazzo.
    - So che lo aveva ricomprato la zia Mildred, ma non so perché ricorse a una società fittizia.
    - Che altro sai? – insistette Isabel non ancora soddisfatta.
    - Ricordo una discussione fra la mamma, zia Mildred e Jonathan. L’avvocato diceva alla zia che non voleva più avere nulla a che fare con la nostra famiglia e che secondo lui eravamo tutti matti.
    - Perché? – chiese Irons mettendosi a sedere visibilmente più calma – Perché ci ha definito tutti matti?
    - Diceva che non si poteva tenere nascosto alla polizia tutto quello che era successo, che era sbagliato nascondere le prove e che rischiavano la galera. Disse anche che l’unica cosa da fare era andare dal procuratore e metterlo a conoscenza del capanno. Dopo che Jonathan se ne era andato, la zia disse che avrebbe fatto ripulire tutto e che se mamma le voleva bene, doveva tenere la bocca chiusa su tutta quella storia – Patrick sembrava svuotato dopo quelle parole.
    - Un’ultima cosa – Isabel non era sicura di quanto potesse tirare la corda prima che suo fratello si richiudesse a riccio – Tu sai dove sono zia Mildred e i ragazzi?
    - So che si erano trasferiti a Portland e avevano tutti preso il cognome da nubile della zia, ma non li sento da anni ormai.
    - Quando è stata l’ultima volta che li ha sentiti? – chiese Prentiss tornando a condurre l’interrogatorio.
    - Quattro anni fa, per la laurea di Jennifer la zia voleva riunire la famiglia. La mamma m’impose di non dirlo a nessuno dei miei fratelli e di dimenticarmi della famiglia Hamilton una volta per tutte.
    - Grazie, può andare ora – concesse Emily.

    Prentiss stava camminando a passo svelto verso la sala riservata alla squadra quando Irons la raggiunse correndo e la afferrò per un braccio. Il capo dell’unità si volto con indifferenza e osservò la ragazza che aveva uno sguardo contrito.
    - Sono mortificata per quello che ho fatto, nonostante le avessi detto che rispetto gli ordini dei miei superiori ho agito d’impulso. Non si ripeterà più, glielo prometto agente Prentiss.
    - Perché lo hai fatto? – chiese Emily reclinando leggermente il capo per studiarla.
    - Io ho avuto l’impressione che Patrick stesse per cedere, che fosse arrivato il momento di usare il pugno di ferro per farlo parlare, ma non era mia intenzione…
    - Hai un ottimo istinto e questo è importante nel nostro lavoro. Non hai corso un grosso rischio, visto che io e JJ eravamo lì, ma per il futuro niente colpi di testa. Chiaro?
    - Cristallino – rispose la ragazza raddrizzando la schiena.
    - La cosa importante, quello che devi capire, è che ci sono situazioni in cui puoi essere avventata, come poco fa, e altre in cui non puoi permetterti di correre dei rischi. Qualsiasi cosa succeda, in futuro, fidati sempre del tuo istinto, ma non correre rischi inutili. Ora andiamo, il resto della squadra ci aspetta.
    Irons si sentiva sollevata, non solo il suo capo non l’aveva rimproverata come si era aspettata, ma sentiva che in quelle parole c’era un implicito complimento. Sorrise pensando che per la prima volta da settimane sentiva che poteva veramente entrare a far parte della squadra, che poteva essere utile anche lei nel suo piccolo.

    Appena entrate nella stanza avvertirono subito che c’era qualcosa che non andava. Il fatto che Reid se ne stesse buono buono a braccia conserte la diceva lunga sul suo stato d’animo. Quello che preoccupò maggiormente Isabel era l’espressione di Puka, sembrava arrabbiata. Alla fine la stravagante tecnica informatica si girò verso Prentiss con uno sguardo serio che non faceva presagire nulla di nuovo.
    - Ne hanno trovata un’altra circa due ore fa – rivelò abbassando lo sguardo e contraendo i pugni.
    - Ma se abbiamo messo sotto sequestro il capanno – esclamò stupita la ragazza.
    - Forse ha un altro posto dove portare le ragazze – ipotizzò Hotch.
    - Oppure l’ha uccisa prima che noi trovassimo il capanno – puntualizzò JJ.
    - Voglio che Hotch e Irons vadano sul luogo del ritrovamento, vedete se è cambiato qualcosa. JJ, tu e Reid dal medico legale, mettetegli fretta. Puka voglio che tu faccia dei controlli sulla famiglia Hamilton. Irons, qual è il cognome da nubile di tua madre?
    - Roberts – rispose la ragazza senza esitazioni – Credo che convenga concentrarsi si Portland e le zone limitrofe. Almeno, secondo Patrick, fino a quattro anni fa era lì che si trovavano.
    Prentiss annuì. Poi fece cenno ai ragazzi di andare e si mise a osservare le mani di Puka che correvano veloci sugli schermi.

    JJ guidava mentre Chris era concentrato sul suo I – pad. Non aveva parlato molto per tutta la mattinata, ma almeno aveva rivolto la parola a lei e Hotch, mentre con Irons si era comportato come se semplicemente la ragazza non esistesse.
    - Avete litigato di nuovo? – chiese alzando un sopracciglio.
    - Non ho il tempo di giocare con quella mocciosetta – rispose Reid non staccando gli occhi dallo schermo – Dobbiamo prendere un maniaco omicida.
    - Si può sapere cosa ti ha detto stavolta che ti ha fatto saltare i nervi – le labbra della ragazza si piegarono in un accenno di sorriso.
    - Niente, non abbiamo litigato – il tono di non curanza di Chris era qualcosa che Jasmine non aveva mai sentito prima – Semplicemente non ho tempo da perdere con lei. Tanto non durerà. Hai visto cosa ha fatto oggi? Disubbidire così sfacciatamente all’ordine di un superiore non è ammissibile. Prentiss l’avrà sbranata viva.
    - Non credo. La ragazza ha seguito il suo istinto e ha fatto centro pieno. Prentiss le avrà semplicemente detto che per il futuro non accetterà più quel tipo di comportamento e la cosa sarà finita lì. Conosco il nostro capo, non è cosi sciocca da non vedere il talento di un profiler quando se lo trova davanti. Se Isabel non avesse preso quella decisione impulsiva di entrare e mettere il fratello con le spalle al muro, difficilmente saremmo entrati in possesso di quelle informazioni.
    - Stupidaggini. Tu e il capo l’avreste fatto parlare in poco tempo, avrebbe ceduto comunque. Semplicemente quella ragazza è troppo impulsiva e non sa stare al suo posto.
    - Punti di vista, Reid. Comunque vedo che non vuoi dirmi perché ce l’hai tanto con lei, quindi è meglio concentrarsi sul caso.
    - Ecco brava, concentriamoci sul caso – Chris si sentiva ribollire dentro all’idea di dover lavorare fianco a fianco con la nipote di Hamilton.
    Sapeva che JJ aveva ragione, la ragazza aveva seguito il suo istinto e aveva avuto ragione del mutismo ostinato di suo fratello. Ma questo rendeva tutto ancora più difficile. Si stava rendendo conto che Irons aveva la stoffa del profiler, anche se non l’aveva mai messo in dubbio. Se sua madre l’aveva scelta, sicuramente aveva visto qualcosa in lei.
    Eppure era fermamente deciso a fare in modo che fosse buttata fuori dalla squadra. La sua presenza, il suo passato, lo rendevano emotivamente instabile e lui non poteva permettersi alcuna distrazione sul campo. Voleva chiudere il caso al più presto e tornare alla lotta che aveva intrapreso con quella cocciuta ragazzina.

    Continua…
     
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    Capitolo XIV. Affinity

    Jack picchiettava nervosamente sul volante mentre Isabel osservava la città fuori dal finestrino. Era stata letteralmente costretta a svelare il suo passato alla squadra, dopo il ritrovamento di quei resti umani nel capanno. Non sapeva come si sentisse in quel momento, non riusciva a immaginare quanto potesse essere doloroso il suo passato. Inoltre aveva avvertito una forte ostilità nei confronti di quella ragazza da parte di Chris. Non sapeva bene come intavolare il discorso e cosi decise di buttarsi.
    - Irons, se avvertissi la necessità di parlare…
    - Non preoccuparti Hotch, sono abbastanza dura da saper gestire questa situazione. In fin dei conti il parlare o meno del mio passato non lo rende diverso, non credi? – la ragazza si voltò facendo un sorriso triste.
    - Tu e Reid avete litigato di nuovo, vero? Ho notato che oggi non ti ha rivolto la parola.
    - No, non abbiamo propriamente litigato. Semplicemente dovresti arrivarci da solo.
    - Che vuoi dire?
    - Cameron Leane era amica della famiglia Reid, da quello che ho capito, Chris la chiamava zia. Tu come reagiresti a lavorare con la nipote di Foyet?
    Hotch frenò bruscamente e si guardò la ragazza con aria contrariata.
    - Tu che ne sai di Foyet? – sembrava arrabbiato.
    - I dossier riguardanti i casi risolti in passato non sono mica secretati – si difese lei – Mi dispiace se averlo nominato, ti ha turbato.
    - Cos’è, hai fatto una ricerca sul nostro passato? – il tono di Jack presagiva tempesta.
    - Niente del genere, semplicemente ero curiosa riguardo il dottor Reid e la professoressa Collins. A quel caso lavorò anche lui.
    - Non è un caso! Stai parlando dell’uomo che ha ucciso mia madre – Jack strinse il volante fino a far diventare bianche le sue nocche.
    - Mi dispiace molto per tua madre, so come devi sentirti. Anche per me è difficile affrontare la morte di mio padre. Se Hamilton non avesse fatto parto parte della nostra vita, lui sarebbe ancora qui.
    - Io credo di non averlo mai superato del tutto, anche se mio padre ce la mise tutta per non farmi sentire troppo la sua mancanza. Per te com’è stato?
    - Ero solo poco più grande di te quando mio padre è morto, sono cresciuta senza una figura paterna e questo ha influenzato la mia vita privata, me ne rendo conto benissimo.
    I due si guardarono a lungo, stava nascendo un’intesa. Si capivano aveva un dolore comune, Irons si rese conto che il fatto di aver perso uno dei genitori in tenera età li accumunava e li avvicinava molto più del loro lavoro.
    Jack tornò a guidare cercando di concentrarsi sulla strada. Stranamente sentiva di avere un sacco di cose in comune con quella bizzarra ragazza che si vestiva come un’adolescente.
    - Perché t’interessano Reid e Collins? – le chiese a bruciapelo.
    - Loro non si ricordano di me, in fin dei conti ero solo una ragazzina di otto anni. Riportarono loro a casa Jennifer.
    - Eri molto legata a tua cugina?
    - Non eravamo solo cugine, lei era la mia migliore amica. Eravamo inseparabili, frequentavamo la stessa scuola. Eravamo in classe insieme e dividevamo anche il banco. Dopo è cambiato tutto.
    - Quindi vedi i genitori di Chris come due eroi?
    - No, non esattamente. Ma ricordo che il dottor Reid mi disse che una sua collega aveva sacrificato la vita per salvare Jennifer. Mi sono sentita in debito, credo che è per questo che ho deciso di diventare una profiler. Per pareggiare il conto.
    - Sembra di sentire Chris – sghignazzò Hotch.
    - Come scusa? Perché anche lui si sente in debito? Io credevo che fosse diventato un profiler perché lo erano anche i suoi genitori.
    - Se è per questo anche suo nonno era un profiler, uno dei migliori.
    - Non mi pare ci siano altri Reid o altri Collins sulla parete con le foto delle vecchie glorie – Isabel sollevò il sopracciglio con fare interrogativo.
    - Semplicemente perché il padre di Collins ha un altro cognome.
    - E chi sarebbe quest’altra fulgida stella? – ironizzò la ragazza.
    - Jason Gideon.
    - Gideon? Ma sei sicuro? – la ragazza sgranò gli occhi, quello si che erano un profiler che all’accademia conoscevano tutti.
    - Sicurissimo. Mio padre era a capo dell’unità, prima di Morgan e Prentiss. Sono cresciuto a casa dei Reid si può dire. Durante le feste la squadra si radunava per passarle tutti insieme. Jason ci leggeva sempre qualche bella storia. Inoltre io ero presente al matrimonio di quei due, portavo le fedi. Ricordo perfettamente Sarah scortata all’altare di Jason, non credo di averlo mai visto cosi emozionato.
    - Wow sei cresciuto in mezzo a profiler, non faccio fatica a capire perché anche tu lo sia diventato. Quindi conosci anche Morgan e Prentiss fin da quando sei piccolo.
    - Sì, anche se prima di entrare nell’unità li chiamavo semplicemente Derek ed Emily – il ragazzo si lasciò sfuggire una risata – Comunque non tutti noi abbiamo preso la stessa strada.
    - Noi chi? – Isabel era rapita dal racconto del collega.
    - I baby-profiler – scherzo Jack con un sorriso – Vediamo… Diane Elizabeth, la secondogenita dei Reid, studia scienze delle comunicazioni; Cristal e Susan, le gemelle, sono al primo anno di università; Henry, il figlio di un’altra JJ, è avvocato; Meredith, la figlia di Morgan e Prentiss, è medico. Gli altri stanno ancora studiando e non hanno ben chiaro cosa faranno da grandi, ma dubito che seguiranno le orme dei genitori.
    - C’era anche una JJ?
    - Sì, Jennifer Jareau, una dei prima a lasciare la squadra. Anche se non fu una sua scelta. Fu assegnata al Pentagono e dovette accettare il cambio di impiego. Comunque era molto diversa dalla “nostra” JJ – Jack si lasciò sfuggire una risata all’idea delle due JJ messe a confronto.
    - Diversa in che senso? – la curiosità di Isabel ormai era incontenibile.
    - Era molto femminile e poi non era una profiler, era un’addetta alle comunicazioni. Era molto bella, bionda con occhi azzurri.
    - Certo che tu ne devi avere di storie da raccontare sulla vecchia squadra.
    - Dopo che avremo risolto il caso si potrebbe uscire a bere qualcosa. Ti sommergerò di racconti e aneddoti – Hotch le strizzò l’occhio.
    - Non hai paura che la tua ragazza possa essere gelosa?
    - Cosa ti fa dire che ho la ragazza, scusa? – Jack sentì la tensione salire nuovamente.
    - Hai un succhiotto sul collo e non mi sembri uno da una botta e via come Reid. Quindi deduco che tu abbia un legame stabile.
    - Beh, ho trent’anni. Dovrò mettere la testa a posto, no?
    - Reid ti direbbe che hai ancora molto tempo per saltare la cavallina.
    I due si guardarono e scoppiarono a ridere.
    - Non farti un’idea sbagliata di Chris. Ti posso assicurare che è un bravissimo profiler, solo è stufo di doverlo sempre dimostrare. Per quanto riguarda le ragazze, Morgan hai suoi tempi era proprio come lui. Avrà ripreso dal suo padrino.
    - Il capo sezione Morgan è il padrino di Reid? Ne ha di conoscenze il ragazzo.
    - Anch’io, ma non vuol dire che se non fossimo all’altezza non saremmo cacciati a calci dalla sezione. Non farti idee sbagliate, nella B.A.U. non c’è spazio per il nepotismo.
    Irons tornò a voltarsi verso il finestrino mentre rimuginava su quello che aveva appreso. Forse aveva giudicato male la posizione di Reid all’interno della squadra. Forse era veramente un bravo profiler. Però sapeva che la tregua era ormai rotta e che se voleva rimanere nell’unità avrebbe dovuto combatterlo.
    L’aveva intuito appena era uscito dall’ascensore, il suo atteggiamento era diverso dal giorno prima. Niente più sguardo premuroso, niente più sorrisi. Semplicemente l’aveva ignorata, segno evidente che nonostante le parole del giorno prima la considerava in parte responsabile di quello che era avvenuto sedici anni prima.
    Lei era lì per rimanere e non poteva tirarsi indietro, se Reid avesse scelto la guerra lei lo avrebbe accontentato.
    - Senti, a proposito di quell’uscita per bere qualcosa – la voce di Jack la strappò dai suoi pensieri – ti posso rigirare la domanda? Non è che corro il rischio di incappare in un ragazzo geloso?
    - Se mi stai chiedendo se frequento qualcuno la risposta è: sì. Ma non credo che per lui sia un problema. La nostra non è una storia seria, almeno non ancora.
    - Che tipo è? – chiese Hotch curioso.
    - Educato, con un buon impiego, serio, posato… il classico bravo ragazzo.
    - Ma?
    - Che vuol dire: ma?
    - La tua frase lasciava presagire che ci sia un ma.
    - Diciamo che so perfettamente che la nostra storia non porterà da nessuna parte – ammise Isabel con un sorriso – E lei che tipo è?
    Il volto di Jack si illuminò in un sorriso compiaciuto.
    - Bella, intelligente, educata. In una parola: perfetta. Anche troppo, ogni tanto ho paura che si accorga che potrebbe avere di meglio.
    - Non sottovalutarti agente speciale Hotchner. Il fatto che tu non ti accorga di come ti guardano certe stagiste non vuol dire che sei da buttare via.
    - E’ un’avances? – scherzò Hotch.
    - Per carità, ho l’impressione che se solo lo sospettasse la “brava ragazza” mi salterebbe agli occhi.
    - Beh, diciamo che ha un bel caratterino – Isabel non poteva sapere che Lizzy era la versione femminile di Chris e che poteva fare vedere i sorci verdi a chiunque avesse intralciato il suo cammino.

    Continua…
     
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